“Non accettiamo bagagli oggi, misura di sicurezza,” mi dice l’addetto al deposito bagagli. Volevo liberarmi della grossa valigia che porto sulle spalle al deposito della stazione di Bologna, ma non è possibile—almeno, non la mattina del 2 agosto 2015. Il motivo risiede nella storia di un altro bagaglio che fu lasciato incustodito nella sala d’aspetto della stazione esattamente trentacinque anni fa. Alle 10 e 25 del 2 Agosto 1980, quel bagaglio è esploso portando via con sé l’ala ovest dell’edificio, la banchina, un treno e quasi 300 persone—85 di loro per sempre.
In testa al corteo di quest’anno per il ricordo di quella violenza c’è uno striscione che dice “Bologna non dimentica,” a seguire le delegazioni dei comuni e lo spezzone dell’Associazione tra i familiari dei parenti delle vittime del 2 Agosto. Al centro di questo c’è Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione e deputato del Partito Democratico. Solo pochi giorni prima della commemorazione, Bolognesi aveva attaccato il capo del suo partito riguardo la gestione dei segreti di stato e dei risarcimenti alle vittime.
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E come ogni anno Bolognesi, dal palco in cui ha parlato prima delle autorità politiche, ha ribadito la doppiezza irrisolta tra chi le bombe le ha messe e chi le ha ordinate—cosa che, del resto, ogni anno si è resa necessaria a causa dell’assenza di nomi e cognomi dei mandanti.
I nomi degli esecutori invece, stando alle sentenze definitive, si conoscono: sono gli ex Nar Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, ritenuti responsabili di aver collocato la bomba alla stazione. Oltre a loro, sempre secondo la magistratura, c’è anche chi ha depistato le indagini: il generale Musumeci e il colonnello Belmonte del Sismi, il faccendiere Francesco Pazienza e il venerabile maestro Licio Gelli. Tuttavia, altri colpevoli rimangono ancora ignoti.
Quella di arrivare alla verità giudiziaria, del resto, è una difficoltà comune alle indagini su molte stragi, come quella di Brescia che solo qualche settimana fa ha visto condannato in appello uno dei suoi mandanti a quarantuno anni dall’evento. A Bologna di anni ne sono passati trentacinque, e mi colpisce una strana simmetria che si instaura nella cronologia dei fatti: il 1980 era tanto lontano dalla fine della guerra quanto è oggi lontano da noi. Eppure, un filo nero corre tra queste date: si chiama fascismo, e viene periodicamente minimizzato come un episodio concluso o un residuo del passato.
Il punto è che fare i conti con la propria storia e conservare la memoria non è solo una cerimonia un po’ triste, ma un’operazione necessaria poiché, nonostante le etichette con cui possiamo sigillare i periodi storici—dicendo “anni di piombo” o “resistenza al nazifascismo”—le generazioni si accavallano, vivono le une con le altre e il passato che arriva a noi è più vivo di quanto possiamo immaginare.
Anna Lisa Tota, docente di sociologia della comunicazione all’Università degli Studi Roma Tre, ha studiato proprio il caso di Bologna e la memoria collettiva della strage, pubblicando nel 2003 il libro La città ferita, frutto di una ricerca sul campo durata quattro anni nei quali ha frequentato l’Associazione tra i familiari delle vittime del 2 Agosto.
Ho deciso di intervistarla per capire meglio come si forma la memoria pubblica e collettiva, specialmente di un evento traumatico come la strage di Bologna.
VICE: Come si elabora la memoria di una strage?
Anna Lisa Tota: La distinzione principale da cui possiamo partire è se questo evento cruciale che impatta tutta la collettività è controverso e irrisolto oppure no, cioè se c’è una grave ingiustizia in corso o meno. Perché se i colpevoli sono noti e i responsabili sono in carcere è un conto, in caso contrario l’elaborazione di una memoria pubblica diventerà tanto più difficile quanto più necessaria perché cristallizzare la memoria serve a tenere i fari accesi dell’opinione pubblica sulla questione affinché si realizzino le condizioni per fare giustizia.
Poi ci sono altre caratteristiche che condizionano il ricordo di una strage, prima di tutte il luogo dell’evento: pensiamo all’Italicus o al treno 904, entrambe occorse nel tunnel della Val di Sambro, o a Ustica, accaduta in mezzo al mare. In quel caso c’è un problema oggettivo, logistico, perché in un tunnel o nel mare non si può organizzare una commemorazione.
Invece a Bologna abbiamo un luogo fisico che ha conservato anche i segni di quell’evento.
Esatto, e l’Associazione dei familiari è stata molto lungimirante perché, quando le è stato proposto di costruire altri poli attorno ai quali articolare la commemorazione, ha sempre rifiutato. Ha voluto che tutte le iniziative avvenissero in stazione. Questa è stata una scelta, se vogliamo usare una parola quasi sconveniente per una strage, vincente. La commemorazione del 2 Agosto è riuscita a iscriversi nella memoria pubblica riuscendo ad avere anche un effetto di traino per la altre stragi che stentavano a guadagnare visibilità.
Lei ha detto che la giustizia è il primo discrimine. Che ruolo ha la verità giudiziaria nell’elaborazione di una strage?
Ha un ruolo fondamentale. Purtroppo, nel caso delle stragi italiane questa verità non è stata raggiunta. Non si può imputarlo alla magistratura perché, come sappiamo da una serie di sentenze, sono avvenuti diversi depistaggi, depistaggi che hanno avuto successo, messi in atto da una parte deviata dei servizi segreti italiani. Così non conosciamo i mandanti ma solo gli esecutori materiali, e in alcuni casi neppure quelli.
Non entro nel merito giudiziario perché mi sono sempre occupata di memory studies ma, avendo dovuto studiare anche il lato giuridico e avendo parlato con i familiari delle vittime, un’idea me la sono fatta. Ci sono state altre forme di verità, però.
Quali?
Verità storiche e verità artistiche. Oltre agli storici che hanno studiato questi temi che ormai non sono più considerati troppo recenti per un’indagine storiografica, c’è stata anche una verità raccontata da grandi registi di cinema o teatrali. Gli artisti hanno fatto un grande lavoro contribuendo all’iscrizione di queste memorie nello spazio pubblico. Se andiamo a vedere un film per comprendere Piazza Fontana, penso alla bellissima opera di Marco Tullio Giordana, usciamo avendo la sensazione di essere stati al cinema, non di essere usciti dal tribunale. È una verità con caratteristiche diverse, ma ci restituisce comunque un pezzo di passato.
È una narrazione che si impone contro altre narrazioni? Come quelle dei depistatori?
Certo, se sappiamo che la nostra magistratura è stata imbavagliata, anche se è solo un film dà un contributo enorme alla riflessione collettiva. A patto che sia riconoscibile dove l’autore propone una sua interpretazione dei fatti che colma le lacune della ricostruzione storica.
In questo lavoro di ricostruzione e di divulgazione, l’Associazione familiari delle vittime del 2 Agosto si è guadagnata un ruolo di primo piano nella conservazione della memoria, al punto che il Presidente dell’associazione parla prima delle autorità politiche. Come è stato il rapporto tra un soggetto così forte e gli altri soggetti, specialmente quelli istituzionali?
Bisogna distinguere tra autorità dello Stato e autorità cittadine. Nel primo caso il rapporto è stato talora conflittuale perché negli anni abbiamo visto politici nazionali usare il palco del 2 Agosto per lanciare appelli che venivano dimenticati il giorno dopo. E, dall’altro lato, gruppi di protesta che, senza rispetto per il dolore dei familiari e dei sopravvissuti, strumentalizzavano l’occasione per fischiare i suddetti politici.
Diverso è stato con i sindaci della città perché persino quando ci fu la vicenda dell’orologio che improvvisamente doveva essere riparato, il sindaco Guazzaloca—di destra—intervenne prendendo le parti dell’associazione dei familiari. L’associazione si è sempre sentita appoggiata dal comune, o almeno questa è l’impressione che ho avuto io.
In questi ultimi quindici anni, da quando ha iniziato a interessarsi alla vicenda a oggi, ha visto dei cambiamenti, dei progressi, dei passi indietro?
Ho visto dei grandi progressi. Grandi progressi nel discorso pubblico italiano ma anche nella ricerca universitaria. Quando iniziai, nel ’98, non ero certo l’unica: c’erano John Foot che studiava Piazza Fontana, o Gabriella Turnaturi con Associati per amore ad esempio; ma la situazione non è paragonabile a oggi. In questi anni è cambiato tantissimo. Ci sono molti più colleghi, giovani e meno giovani, che parlano e si occupano di questi temi, portandoli anche nelle scuole.
Inoltre, mi sembra che le varie associazioni si siano rafforzate tramite un lavoro collettivo ancora più stretto. Quella di Bologna è stata bravissima a costruire opportunità anche per le altre, facendo un lavoro che loro stessi definiscono “marketing della memoria”, una locuzione che non mi permetterei mai di usare se non l’avesse fatto Bolognesi per primo.
Col passare degli anni cresce il numero dei cittadini italiani che non erano vivi durante la strategia della tensione o erano molto piccoli. Perché è importante tramandare loro questo ricordo?
Non possiamo permetterci di dimenticare, perché la verità non è ancora stata detta. Per chi non c’era è fondamentale conoscere la storia degli ultimi cinquant’anni del suo paese. Per chi c’era, ed è stato coinvolto, è invece fondamentale conoscere la verità e guadagnare il diritto di dimenticare. Oggi ai familiari e ai sopravvissuti tale diritto è completamente negato. Queste persone hanno visto le loro vite stravolte e hanno dovuto mettersi in prima persona a lottare per la verità. Persone che non avevano nessun desiderio di diventare personaggi pubblici ed essere intervistate continuamente per rievocare dei traumi.
Ricorderò sempre la vicepresidente di una associazione di familiari che usò la liquidazione per fotocopiare tutti gli atti del processo del figlio ucciso perché le carte sparivano dal tribunale. Al tempo le fotocopie nei tribunali costavano moltissimo.
Teme che con l’aumentare del tempo che ci separa dai fatti si apra uno spazio per forme di revisionismo storico come è successo con la Resistenza?
Il rischio di un revisionismo c’è stato e ovviamente rimane. Ma, al contrario, credo che più andiamo avanti e più sia difficile si affermi un discorso revisionista, perché si è prodotto tanto sulla strategia della tensione, sia a livello di ricerca fotografica ma anche di riflessione artistica, come dicevo: opere che propongono delle interpretazioni che gli storici non possono azzardare.
Credo che nel giro di qualche decennio uscirà una verità anche sui punti oscuri di queste vicende, non solo le supposizioni dei film, ma una verità storica. E soprattutto una verità che non riguardi solo i nostri servizi segreti deviati ma che illumini le connessioni sul piano internazionale perché l’Italia si trovava sulla luna: era un paese al centro della guerra fredda. Quando avremo delle risposte sarà un gran momento per tutti quanti, perché l’Italia ha diritto a una trasparenza sul suo passato recente.
Una volta ricostruita la verità storica si potrà dimenticare?
Dimenticare del tutto è impossibile: dell’Olocausto sappiamo tutto ma un evento del genere non può essere dimenticato. Anche la strategia della tensione deve essere ricordata per sempre, ma nei libri di storia, nei musei, nei romanzi, nei film. Non deve essere ricordata per sempre dai familiari e dai superstiti, loro hanno il diritto di dimenticare.