Proprio in queste ore, mentre la maggior parte di noi sta probabilmente facendo cose del tutto inutili e insignificanti, i cittadini britannici stanno votando—o si preparano a farlo—al referendum sulla Brexit, con il quale sono chiamati a decidere se il Regno Unito debba o meno lasciare l’Unione Europea.
Questo referendum arriva dopo anni di insofferenza nei confronti dell’Unione, ma soprattutto in un clima di paura e dopo giorni, questi ultimi, in cui il dibattito e l’isteria di massa sul tema hanno toccato livelli sempre più bassi e drammatici. In nome della Brexit abbiamo assistito, in un numero troppo ravvicinato di ore, ad assurde battaglie sul Tamigi, catene di baci, un numero incredibile di bufale, manifesti di stampo nazista usati come mezzo di propaganda, il crollo dei mercati finanziari, ma, soprattutto, la drammatica morte di Jo Cox—deputata laburista e attivista schierata contro l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, uccisa al grido di “Britain first” da un uomo ritenuto vicino all’estrema destra inglese.
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Ai due lati di questo dibattito, ci sono le fazioni per il leaveeremain: la prima si schiera per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea e vede tra i suoi protagonisti il leader dell’UKIP Nigel Farage; la seconda, al contrario, vorrebbe rimanerne all’interno e ha tra le sue file, tra gli altri, il premier David Cameron.
Se da una parte le due fazioni discordano su punti prettamente economici, questo referendum è frutto soprattutto di questioni ideologiche: il desiderio, da parte della politica e dell’opinione pubblica, di chiudere le frontiere e fermare l’immigrazione per rimettere posti di lavoro e cultura in mano ai cittadini britannici. In mezzo alle due parti ci sono gli elettori, che se nei giorni scorsi è sembrato pendessero verso la Brexit, dagli ultimi sondaggi per il 46 percento sceglierebbero l’Europa.
Per quanto nessuno possa prevedere con precisione le potenziali conseguenze della Brexit di sicuro la decisione non riguarderà solo i cittadini britannici, ma chiunque vive nell’Unione Europea. In quanto al nostro paese, otre alle conseguenze politiche ed economiche sull’export, il referendum va necessariamente a toccare tutti gli italiani che nel Regno Unito studiano, lavorano, o si trovano di passaggio. Abbiamo cercato di capire quali possono essere le ripercussioni in caso di Brexit per ciascuna di queste categorie.
PER GLI UNIVERSITARI
Nel dibattito sulla Brexit, il mondo accademico—come del resto la stragrande maggioranza degli studenti universitari—si è schierato ripetutamente dalla parte di chi vuole rimanere nell’Unione Europea.
In una lettera aperta all’Independent, di recente un gruppo di accademici si è rivolto direttamente all’elettorato per spiegare gli effetti deleteri di un’eventuale Brexit. Tra i vari punti, nel testo si insiste sul ruolo fondamentale svolto delle università nell’economia e nella comunità locale, reso possibile anche grazie alla presenza dell’Unione Europea. Oltre a fornire fondi per la ricerca, si legge, questa aiuta le università ad attirare “le menti migliori e più brillanti da tutta Europa, migliorando la ricerca, l’insegnamento e contribuendo alla crescita economica.”
Ma mentre sui fondi alla ricerca, come hanno argomentato alcuni, si potrebbero trovare degli accordi, a preoccupare di più è la prospettiva di una fuga degli studenti europei dalle università—che costerebbe al Regno Unito decine di milioni di sterline. Secondo le ultime stime, infatti, in Gran Bretagna ci sono circa 125mila studenti europei registrati, che rappresentano il 5,5 percento della popolazione accademica. Le domande sono in continua crescita—soprattutto da parte degli italiani—e compensano il calo di immatricolazioni degli studenti inglesi.
Se il Regno Unito rappresenta una meta ambita per i giovani comunitari è perché questo offre loro condizioni favorevoli. Ossia, in quanto studenti europei, hanno accesso a prestiti universitari e soprattutto a rette che si aggirano intorno ai 9mila sterline—quasi la metà, quando non di più, di quello che pagano gli studenti extra comunitari. L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea farebbe perdere agli studenti europei questo status, aumentando improvvisamente le loro rette universitarie.
Inoltre, come evidenziato in diverse interviste, c’è il rischio che una volta finita l’università, sia molto difficile ottenere il visto che permette di lavorare. Di fatto quindi, studiare nel Regno Unito diventerebbe un investimento, di soldi e di prospettive, molto meno allettante di quanto non sia oggi.
PER I LAVORATORI
Nonostante diversi avvocati alla vigilia di questo referendum abbiano visto in questo il momento esatto per chiedere la cittadinanza britannica, nessuno ha direttamente parlato di deportazione. Mentre il primo ministro Cameron non si è sentito di smentire che questa fosse un’eventualità, dall’altra parte i sostenitori della Brexit non vi si sono mai riferiti in modo esplicito, e tra loro c’è anche chi ha chiaramente detto, che “nessuno suggerirebbe mai che chi è arrivato qua legalmente possa essere deportato.” Ma la mancanza di chiarezza sul futuro dei cittadini europei e il primato storico dell’eventualità non aiutano a ridurre la preoccupazione di chi vive e lavora nel Regno Unito.
Nel caso non ci fossero accordi speciali, i circa due milioni di cittadini europei che lavorano nel Regno Unito, per essere in regola dovrebbero soddisfare i parametri che dallo scorso aprile vigono per i cittadini extra comunitari. Ovvero, guadagnare un salario annuo di minimo 35mila sterline.
In tal senso, in uno studio per il Finacial Times svolto dall’Università di Oxford, è stato calcolato che circa l’80 percento degli interessati non avrebbe accesso al visto—per alcuni settori, la stima aumenta al 94 percento. In alternativa, i sostenitori del leave hanno spesso fatto appello a un sistema di immigrazione qualificata come quello australiano.
Tuttavia, essendo queste prospettive realisticamente poco immaginabili dal punto di vista diplomatico ma anche poco auspicabili dal punto di vista economico per il Regno Unito, gli esperti tendono a pensare che si troverebbe un accordo sul trattamento dei cittadini comunitari nel paese.
PER I TURISTI
Tra le varie categorie, questo è stato il punto che—non sorprendentemente—è stato affrontato meno e del quale probabilmente non è neanche tanto giusto preoccuparci. Anche qua, possiamo basarci sulla razionalità e sulla legge che vige fino a questo momento per capire cosa cambierebbe. Il nostro status di cittadini comunitari non varrebbe più, e per visitare il Regno Unito, invece di assicurarsi di avere una carta d’identità e nient’altro, dovremmo sottoporci a processi burocratici simili a quelli che si fanno per viaggiare negli Stati Uniti: fare domanda almeno tre settimane in anticipo, un biglietto di ritorno entro i sei mesi, un passaporto valido.
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In attesa di sapere cosa succederà, se può consolare c’è il fatto che, in situazione inversa, anche nel Regno Unito c’è chi è preoccupato di perdere la cittadinanza comunitaria. Lo dimostra, tra l’altro, il fatto che stilino liste sulle possibili soluzioni in cui prendono in considerazione diverse possibilità: andare a scavare nel proprio albero genealogico alla ricerca di un avo irlandese, appoggiarsi al programma di e-resedency estone e pagare due milioni di sterline a Cipro.
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