Analisi del DNA effettuate dai ricercatori su tralci di vitis vintifera, oltre a diversi ritrovamenti archeologici, portano a ritenere che il vino sia nato proprio qui, in Anatolia.
Mi trovo all’hotel Marmara Pera di Istanbul dove è stato organizzato il convegno Kök Köken Toprak (Radici-Origine-Suolo). È la prima conferenza di questo genere in Turchia. Il governo non promuove eventi di stampo enologico: la maggioranza dei turchi è musulmana e, di essi, solo un approssimativo 40% beve alcolici.
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Nel paese ci sono circa 300 produttori di vino ma la qualità media è piuttosto bassa e generalmente c’è poco impegno a valorizzare le varietà autoctone (circa 1200 – anche se non tutte vinificabili). “Ma non è solo un problema nostro. Il settanta per cento dei vini del mondo vengono prodotti da trenta varietà d’uva” ci ricorda l’organizzatrice, Sabiha Apaydin, la quale ha creato un parterre di relatori che passa da uno storico a un esperto di DNA delle vigne. Tra di loro c’è anche Udo Hirsch, che sul palco racconta di sé, della propria storia, dei propri vini. Meno di ventiquattrore dopo, sono su un aereo diretto in Cappadocia per visitare la sua cantina.
In Turchia non si possono organizzare degustazioni pubbliche, usare i social media o altri mezzi per promuoverlo, le tasse sono altissime e non si può spedire vino dentro al paese.
Udo è un uomo che nei suoi 76 anni ha compresso mille vite. Laureato in architettura, è stato giornalista, fotografo, delegato del WWF, viaggiando tutto il mondo come consulente nella protezione e nello sviluppo ambientale. 25 anni fa si è trasferito in Turchia perché “Mi veniva comoda, girando spesso per lavoro tra Armenia e Georgia,” spiega. “Ad esempio adesso devo tornare in Georgia. Un gruppo di ricercatori mi ha chiesto di aiutarli negli studi di alcuni abeti destinati al commercio come alberi di Natale.” Ecco, Udo è uno che dice queste cose qui.
La definizione di naturale per lui rimane sempre una sola: proteggere l’eredità della terra che ha scelto come sua. I vigneti. Le uve. E le anfore.
Si stabilisce a Güzelyurt, nella Cappadocia occidentale, un paese dove, fino a pochi anni fa, le persone vivevano ancora nelle case intagliate nella roccia vulcanica. E dove le mongolfiere, simbolo di una Cappadocia più turistica, si vedono solo da lontano. Compra una casa. La ristruttura. Conosce Hacer Özkaya, un’artista di ceramiche del paese. Lei diventa la sua compagna, vanno a vivere insieme, e insieme decidono di iniziare a produrre vino. La passione per l’archeologia di Udo, infatti, l’aveva portato ad approfondire la storia del vino. Analisi del DNA effettuate dai ricercatori su tralci di vitis vintifera, oltre a diversi ritrovamenti archeologici, portano a ritenere che il vino sia nato proprio qui, nell’Anatolia orientale, intorno al 4000 AC. A raccontarcelo è Udo, mentre visitiamo i resti di un’antica città sottoterra in cui si vedono le tracce di una cantina e una bottega di vino.
Per prima cosa Udo ha acquistato terreni davanti al vulcano Hasan Dag. Guardandole è difficile pensare a “vigne”. Un ettaro scarso, di cui solo la metà vinificabile, con piante che hanno più di 300 anni e sono caoticamente disposte, senza supporto, in quello che lui chiama wine garden (e che, scopro, in gergo tecnico viene definita “agricoltura promiscua”: viti ad alberello insieme ad alberi da frutto). La raccolta di solito non avviene prima di ottobre, quando lo sbalzo climatico è anche di dieci gradi da giorno e notte. All’inizio Udo raccoglieva e poi lavorava in acciaio ma dal 2011 si è concentrato solo sulle anfore. Era nata l’azienda Gelveri.
Le visitiamo in un giorno di inizio luglio, eppure la temperatura è fresca abbastanza da stare al sole senza protezione, a mezzogiorno, mentre quello che lui chiama il suo grape master, un signore di mezza età del posto, fissa con aria poco soddisfatta alcuni tralci. “Se non fosse per lui io non avrei saputo da che parte cominciare. A me sembra sempre tutto a posto. A lui non va mai bene niente” sorride Udo.
La moglie dell’uomo ci ha preparato una tavolata in mezzo alle vigne insieme ad Hacer. Apriamo una bottiglia di Mayoğlu Terebinth. Il vino è un po’ la risposta turca alla retsina greca. La ricetta viene dall’ex proprietario della casa acquistata da Udo, il dottor Mayoğlu, che la abitava negli anni Venti del Novecento: vitigni a bacca bianca vengono macerati con una piccola percentuale di terebinth, un frutto simile al pistacchio noto come menegiç, che fermenta due anni in botte, sviluppando una componente fortemente resinosa e floreale invero affascinante.
Per secoli il vino è stato fatto nelle küp, le anfore, simili alle più famose kvevri georgiane. Esistono centinaia di tipi di anfore con diverse capacità: quella di Udo arrivano anche a 200 litri e due millenni di vita.
Mentre in tavola inizia ad arrivare börek al formaggio e fiori di zucca ripieni di riso al pomodoro, sperimentiamo uno stato di benessere probabilmente non dissimile dalla serendipitous inebriation, come la chiama Udo, quella ubriachezza non cercata che devono aver provato, millenni fa, i nostri antenati, nell’assaggiare per la prima volta il succo d’uva fermentato. Davanti a noi si staglia maestoso il vulcano. “Questo era il sogno di Udo” sorride la sua compagna con il suo ipnotico accento turco. “Non solo fare vino. Condividerlo con le altre persone.”
Per secoli il vino è stato fatto nelle küp, le anfore, simili alle più famose kvevri georgiane. Esistono centinaia di tipi di anfore con diverse capacità: quella di Udo arrivano anche a 200 litri e due millenni di vita. Per trovarle va in giro in tutto il paese. Ne ha una che risale all’epoca bizantina – l’ha trovata in un monastero della Cappadocia. Riuscire a fare il vino come lo fa lui non è stato facile. “Ci vogliono mesi per ottenere il permesso del governo solo per acquistare un’anfora.” Non è l’unico problema nel produrre vino in Turchia. Non si possono organizzare degustazioni pubbliche, usare i social media o altri mezzi per promuoverlo, le tasse sono altissime e non si può spedire vino dentro al paese. I pochi ristoranti di Istanbul che hanno i vini di Udo fanno centinaia di chilometri in macchina per venirli a prenderli.
Le difficoltà sono anche di natura pratica. La porta della sua cantina è larga 160 cm: per farci passare ogni anfora deve lavorare ore e ore, rotolando, capovolgendo, sudando e, presumo, rimpiangendo i cari vecchi tank in acciaio. Ogni anfora va regolarmente pulita e spazzolata. Lui le conosce tutte: lo spessore, la forma. E solo lui e Hacer possono toccarle.
Una volta raccolte, Udo mette le uve in anfora, lasciando i raspi e i semi o riaggiungendoli in seguito. Per le prime due settimane bisogna mescolare ogni paio d’ore o il liquido uscirebbe dall’anfora. La fermentazione in questo modo comincia dopo un periodo che varia dalle 9 alle 24 ore. Udo lascia l’uva in queste anfore aperte per circa 15-20 giorni, poi le trasferisce in anfore chiuse e nei mesi successivi ciò che ha deciso di lasciare dentro – semi, raspi, bucce – sale in superficie, per poi venire tolto. Tutto sempre, rigorosamente, a mano. Lo strumento più tecnologico che ha è una pompa per trasferire il mosto da un’anfora all’altra.
C’è un rosé chiamato WAW: ha messo delle uve in anfora e l’ha aperta dopo due anni. “Speravamo di fare wow. L’abbiamo fatto”.
Le anfore dei suoi vini bianchi stanno in cantina, ma (sempre a differenza della Georgia) fuori dal terreno, mentre quelle di rosso vengono lasciate in giardino. Ovviamente non fa nessuna filtrazione né aggiunge nessun tipo di sostanza chimica né in vigna né in cantina. “Sono felice di non avere studiato così posso usare la mia testa, perché non è full of shit altrui” afferma Udo, che rivendica i suoi continui, spesso non fruttuosi, tentativi di vinificazione, comunque tutti volti a valorizzare e preservare la biodiversità delle uve.
Di recente Udo ha cominciato a tenere alcune anfore aperte. Più passa il tempo, più sperimenta. Ma la definizione di naturale per lui rimane sempre una sola: proteggere l’eredità della terra che ha scelto come sua. I vigneti. Le uve. E le anfore.
Ad esempio c’è un rosé chiamato WAW: ha messo delle uve di Keten Gomlek in anfora e l’ha aperta solo dopo due anni, senza controllare, senza aggiungere né togliere nulla. “All’apertura speravamo di fare wow. L’abbiamo fatto”. Sulla copertina c’è la scritta Rosé Fluid e la copertina di The Dark Side Of The Moon.
Casa di Udo è l’epitome di casa turca che tutti abbiamo in mente. In realtà qui la chiamano “casa greca”, ovvero una casa costruita dai cristiani ortodossi, circa 250 anni fa, e abbandonata nel 1924, quando la maggior parte dei dei cristiani fu costretta a lasciare la Cappadocia. Le cantine arrivano fino a quattro piani sottoterra. Quando Udo si è trasferito qui erano abbandonate da decenni: i turchi che sostituirono i cristiani nel paese, essendo musulmani, non le utilizzarono più per fare il vino.
All’ingresso della casa c’è l’insegna Taş Mahal: un gioco di parole con il palazzo indiano, perché taş in turco ha molteplici significati, tra cui pietra. Sotto il porticato ci attendono le bottiglie dei suoi vini, già aperte: alcuni durano più di una settimana senza tappo e tutti, dice Udo, devono essere aperti almeno due ore prima. Quando si passa alla degustazione, però, non gli interessa così tanto analizzarli. “Io non divido il vino in parti. Ne identifico il biotipo e mi basta così” riassume apodittico. Annuisco complice come se, certo, anche io mi limitassi a identificarne il biotipo, e prendo un altro sorso del Kalecic Karasi, il suo unico rosso, dal nome di un vitigno autoctono turco – che lui ovviamente è l’unico a utilizzare. Il mio preferito però rimane il Keten Gömlek. Le uve dell’omonimo vitigno turco fanno 11 mesi in anfora e il risultato è un vino di acidità equilibrata e luminosa ruvidezza – il nome, infatti, significa “tessuto di cotone”.
Hacer ci serve involtini di foglie di vite e riso, una zuppa di yogurt e spezie, pane cotto nei forni in pietra collettivi del paese e uno strepitoso formaggio di capra che lasciano maturare in anfora, sepolto sotto il tufo, per due anni. È bestiale. Selvatico. Ancestrale. Va accompagnato con il pekmez, una melassa di uva in un certo senso considerabile l’antenata del vino. I nostri sorrisi non sono più solo inebriati, o satolli. Ci sentiamo grati – soprattutto considerando che Udo fa solo 5000 bottiglie all’anno. “Non fidatevi mai dei vini di lusso” ride Udo. “Lo diceva Plinio Il Vecchio.” Ma io, una cena più di lusso di così, non riesco a immaginarla.
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