Música

Che cosa significano i sold out di Carl Brave e Franco126?

Il 30 agosto scorso sono andato al Circolo Magnolia a vedere Carl Brave e Franco126, e per arrivarci ho preso la 73. Dopo anni passati a sfruttare la seconda macchina di famiglia avevo finalmente deciso di passare alla combo mezzi + car sharing, e quindi di lasciare che la nostra vecchia Peugeot se ne andasse nei verdi campi dove le utilitarie passano i loro giorni a scorrazzare felici senza preoccuparsi dello smoggazzo che emettono. Era la seconda volta che Carl e Franco suonavano a Milano in pochi mesi—il loro concerto al MI AMI, andato piuttosto bene, era stato a maggio. Ho camminato lungo la statale che collega l’aeroporto di Linate al Magnolia, aspettandomi di arrivare ed entrare senza troppi problemi. Ad attendermi, invece, c’era una frotta rumorosa di gente in coda.

Carl e Franco hanno suonato di fronte a un Magnolia foderato. Durante il concerto, un amico che era partito da Cremona per vedere il concerto mi ha scritto per dirmi che era rimasto fuori: erano i finiti i biglietti. Lo hanno lasciato entrare verso il finale, quando sul palco si era già arrivati al bis con medley riassuntivo. Uscendo, ho visto diversi padri e madri che aspettavano i propri figli col motore acceso tutto attorno alla rotonda di fronte al locale. Ho incontrato un amico che si è offerto di darmi un passaggio, e abbiamo camminato verso il parcheggio. La sua macchina era praticamente al Luna Park di Segrate. Ancora un po’ di gente e sarebbe sembrato di stare uscendo da un concerto alla Unipol Arena, o al Forum di Assago.

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Il successo di Carl e Franco non era imprevedibile. La loro scrittura per immagini portava avanti un discorso amoroso, e quindi era compatibile con il gusto del grande pubblico italiano, ma aveva un narratore particolarmente efficace: il venti/trentenne cinico ma felice, sognatore ma con riserva. Quello che ride scrollando pagine di meme deprimenti alla Sad Screenshots Taken Out of Context, quello che sovrappone e confonde delusione e piacere—e quindi genera con scioltezza una mazzata come “Ho saltato il compleanno di mio nonno / Il giorno dopo è morto, l’ho abbracciato in sogno” e decide di giustapporla a una piccola, effimera istantanea modaiolo-feticista come “Lei, ai suoi piedi Jeffrey Campbell”.

Quello di Carl e Franco è un linguaggio meticcio i cui punti cardine sono l’humblebrag, la narrazione amorosa, l’ironia e la nostalgia—tutti termini più o meno rilevanti per spiegare a un ipotetico alieno che cosa funziona in Italia e nel mondo, in musica, nel 2017. “Essere persone emotive e mostrarlo nei pezzi è giusto”, ci ha detto Carl quando siamo andati a passare un pomeriggio con lui e Franco a dicembre 2016: una frase che avrebbero potuto dire i Sottotono, che vent’anni fa sapevano cos’era l’amore e lo traducevano in forma semi-hip-hop. Carl e Franco si sono trovati a fare oggi la stessa cosa nel momento storico di maggior fulgore mediatico e commerciale del rap italiano, posizionandosi all’intersezione con l’altro fenomeno correntemente al suo apice storico di pubblico, e cioè il mezzo indie/pop/cantautorato di matrice Calcuttiana.

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Qualche mese dopo il sold out del Magnolia, Carl e Franco hanno annunciato un tour invernale di sei date. Era il 26 novembre. L’11 dicembre le date erano diventate undici, tra cui quattro all’Atlantico di Roma (tutte sold out), due all’Estragon di Bologna e due all’Alcatraz di Milano (in entrambi i casi, una sold out e l’altra lì lì per esserlo). Le bacheche degli eventi dei concerti sono piene di post di gente in cerca di un biglietto, e scroccare accrediti per la stampa non sarà facile. Carl e Franco sono diventati quello che sembravano poter essere fin da subito, cioè il primo nome capace di mettere d’accordo chi ascolta indie italiano, chi ascolta rap italiano e chi, semplicemente, ascolta quello che passa in radio o che Spotify gli consiglia—vedi l’endorsement di Gianni Morandi qua sopra.

Carl e Franco sono arrivati fino a qua senza lanciare bombe ma continuando a marciare in formazione. Dopo la chiusura di Polaroid hanno semplicemente continuato a fare quello che avevano fatto fino a quel momento, cioè caricare un pezzo ogni tanto e ampliare di canzone in canzone il loro immaginario. È arrivata una gita catalana assieme a Coez, una regazzina incostante da balzare, un nuovo accumulo di scene alcolico-romantico-descrittive, un altro amore geolocalizzato da scordare il prima possibile, e due viaggi europei di coppia. Tutti pezzi andati bene che hanno arricchito il loro corpus e riaffermato il loro ruolo di primo motore dietro a questa modalità espressiva interstiziale perfetta sia per piacere al maggior numero di persone possibile che per essere interpretata e discussa—è il ritorno degli Zero Assoluto? Sono solo dei “coatti” che “a vent’anni hanno visto tutto della vita” (cit. anonima di un collega)? O sono una nuova concezione di romanticismo italiano, uno dei casi musicali dell’anno? Dipende da quello che succederà, dalle loro prossime mosse, da un pubblico che potrà invecchiare con loro o abbandonarli per nuove passioni. Ma intanto ne stiamo parlando, e li stiamo seguendo su Instagram, e stiamo spendendo soldi per andare a vederli—perché siamo curiosi di sapere come andrà a finire, e di farlo usando i nostri occhi.

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