Le elezioni di metà mandato sono da sempre uno snodo fondamentale della politica statunitense: ridisegnano gli equilibri di potere tra la Casa Bianca e il Congresso—di cui viene rinnovata per intero la Camera e per circa un terzo il Senato—e forniscono un banco di prova cruciale per l’amministrazione in carica. Secondo i sondaggi, i democratici hanno buone probabilità di conquistare la maggioranza alla Camera, anche se la popolarità di Trump è in rialzo nelle ultime settimane e la performance dei repubblicani potrebbe essere migliore del previsto. Al Senato la partita è molto più difficile: la maggior parte degli stati in cui si vota sono tradizionalmente conservatori e, nonostante la maggioranza risicata, non sembra che i repubblicani possano temere un capovolgimento di fronti.
Per questo, nelle ultime settimane l’attenzione degli analisti politici e dei media si è concentrata molto sul deputato democratico Robert “Beto” O’Rourke, candidato al Senato in Texas—uno degli stati che, anche nell’immaginario collettivo, costituiscono la quintessenza del conservatorismo americano. Qui, il politico se la dovrà vedere con il senatore uscente Ted Cruz, uno dei politici più in vista del partito repubblicano, sfidante di Trump alle primarie del 2016.
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In questi due anni di opposizione il partito democratico si è distinto per una notevole capacità di rinnovamento e di mobilitazione dal basso, che si è tradotta in una serie di candidature che promettono di trasformare radicalmente l’immagine del partito: il successo dei socialisti democratici e le vittorie di Alexandria Ocasio-Cortez a New York e di Andrew Gillum in Florida, tra gli altri, indicano una direzione chiara—a sinistra, e con una partecipazione molto più alta di donne e membri di minoranze.
Beto O’Rourke non fa propriamente parte di questa nuova generazione di democratici radicali: è affiliato al gruppo dei “New Dems,” di orientamento liberale e moderato, e nel 28 percento dei casi ha votato in linea con le politiche di Trump alla Camera dei rappresentanti—dove è stato eletto nel 2012. Ma, dato il contesto texano, il suo orientamento moderato e le sue tendenze dichiaratamente bipartisan potrebbero essere un punto di vantaggio per attirare i voti degli elettori conservatori insoddisfatti dall’amministrazione Trump e dalla leadership paludata del partito repubblicano, ma non ancora pronti per votare un socialista al Senato.
Nato nel 1972, di origini irlandesi, O’Rourke viene dalla città di confine di El Paso, e già questo è un elemento importante. L’immigrazione resta infatti uno dei temi più caldi e dibattuti della campagna elettorale, e Trump ha ulteriormente inasprito la propria retorica xenofoba nelle ultime settimane, annunciando l’invio di un numero spropositato di soldati al confine con il Messico per impedire l’ingresso della “carovana” di migranti che da diverse settimane sta attraversando l’America centrale, e suggerendo che possano rispondere aprendo il fuoco a eventuali lanci di pietre. Soltanto pochi giorni prima aveva espresso l’intenzione di cancellare con un ordine esecutivo (pur non avendone il potere) uno dei fondamenti costituzionali del paese, la cittadinanza per diritto di nascita.
Beto O’Rourke si è sempre espresso contro al famigerato muro su cui Trump ha costruito gran parte della propria campagna elettorale, e alla politica fortemente contestata delle separazioni familiari. Al contrario, sostiene la necessità di porre fine alla militarizzazione del confine, garantire la cittadinanza ai figli degli immigrati senza documenti, migliorare i canali di immigrazione legale e di richiesta d’asilo, regolarizzare lo status di milioni di immigrati già presenti nel paese. Uniti all’espansione dei programmi di assistenza sanitaria, a una parziale legalizzazione della marijuana e a una più stretta regolamentazione delle armi da fuoco, sono provvedimenti che farebbero rizzare i capelli in testa all’elettore trumpiano medio.
Al momento i sondaggi lo danno in svantaggio, sì, ma entro il margine di errore, con due possibilità su nove di aggiudicarsi il seggio secondo FiveThirtyEight. Un evento più unico che raro, in Texas. Così, complice il suo carisma e la sua ostentata naturalezza, si è guadagnato la ribalta nazionale, con ospitate televisive da Ellen Degeneres e Stephen Colbert e profili entusiastici che l’hanno paragonato a Obama o addirittura a Bob Kennedy.
Il paragone con la prima campagna presidenziale di Obama si regge su alcune somiglianze nello stile e nella strategia: O’Rourke fa di tutto per essere diretto e immediato nella comunicazione, corre da un comizio all’altro in maniche di camicia, si vanta di non avere consulenti politici professionisti e punta moltissimo sui social network—da maggio a ottobre avrebbe speso oltre 6 milioni di dollari in pubblicità su Facebook, dieci volte più di Ted Cruz, che ha solo un anno più di lui ma sembra appartenere a un’altra generazione. La sua campagna è portata avanti quasi soltanto da volontari, e con questa spinta “dal basso” è riuscito a raccogliere più soldi di qualunque altro candidato, senza servirsi dell’aiuto dei poco popolari PAC.
Qualcuno mette in guardia dal fatto che la “Betomania” possa essere un mito costruito e gonfiato dai media progressisti, che hanno trovato nell’“astro nascente del Partito democratico” un beniamino su cui puntare, al punto da illudersi (e illudere l’opinione pubblica) sulle sue reali possibilità di vittoria. Un mito che lo stesso O’Rourke sfrutta consapevolmente, almeno finché dura il momento d’oro.
Gran parte di questo successo, non soltanto mediatico, è dovuto senz’altro all’antipatia del suo sfidante—uno che cucina volentieri il bacon con un mitragliatore e che, per dirla con Stephen Colbert, ha l’aria di essere “sempre unto.” Il contrasto con il giovanile Beto, che si fa riprendere mentre fa skateboard nel parcheggio di un fast food e negli anni Novanta suonava il basso in un gruppo punk insieme al futuro cantante dei Mars Volta, non potrebbe essere più stridente. In più, in Texas tutti conoscono già Ted Cruz, mentre Beto è ancora in parte un outsider che potrebbe portare dalla sua molti degli elettori ancora indecisi—il vero ago della bilancia di questa tornata elettorale.
Per questo, Cruz ha reagito con una campagna elettorale estremamente aggressiva nei confronti di Beto, aggrappandosi a qualsiasi cosa potesse screditarlo—dal passato punk all’arresto per guida in stato di ebbrezza nel 1998, fino al soprannome, che sarebbe uno stratagemma per accattivarsi il numeroso elettorato ispanico del Texas (“Beto” è un diminutivo di Roberto molto diffuso tra le comunità ispanofone). Questi attacchi sono stati un boomerang per lo stesso Cruz: enfatizzare proprio gli aspetti che fanno sembrare O’Rourke più giovane e cool di lui forse non è stata un’idea brillante.
Poco amato all’interno del proprio partito e danneggiato dalla sconfitta alle primarie di due anni fa, Cruz è stato costretto a chiedere l’aiuto dello stesso Donald Trump—che infatti ha riservato a Beto qualcuno dei suoi tweet—a riprova del fatto che la possibilità di perdere il Texas ha veramente gettato il partito repubblicano nel panico.
Ciononostante, lo scenario più verosimile è che Ted Cruz riesca comunque a spuntarla. Oltre alla difficoltà di convincere l’elettorato più retrivo e conservatore—quello che davvero potrebbe scandalizzarsi di fronte a un candidato che dice troppe parolacce—O’Rourke è ostacolato anche dal sistema di voto texano, che, come accade in realtà praticamente in tutti gli Stati Uniti, penalizza in vari modi le minoranze e le fasce sociali più svantaggiate. Né bisogna pensare che la comunità ispanica voterà compattamente per il candidato progressista: nonostante la deriva violentemente xenofoba del partito repubblicano, sono molti gli ispanici texani che voteranno per Cruz.
Anche se Beto non dovesse vincere, la sua campagna avrà verosimilmente degli effetti di medio-lungo termine—senza per forza pensare alle presidenziali del 2020, dove molti osservatori lo vedono naturalmente proiettato. In Texas, un partito democratico più forte e galvanizzato può seriamente mettere in discussione il predominio repubblicano, sfruttando “l’effetto Beto” anche sulle altre candidature.
Più in generale, O’Rourke ha dimostrato al proprio partito come gestire una campagna elettorale di successo, senza rinunciare alle proprie posizioni, anche in uno dei contesti più difficili in cui si poteva immaginare un’operazione simile—sotto l’amministrazione Trump, in Texas, e contro uno sfidante di peso. Forse non sarà il primo senatore democratico texano dopo 24 anni, ma il suo sarà senza dubbio un caso da studiare.