La prima cosa da citare parlando di Chiamarsi MC tra amici senza apparenti meriti lirici sono probabilmente i numeri, abbastanza impressionanti. Un profilo Instagram da 330.000 follower, una pagina da 162.000 like, e un gruppo con 64.000 iscritti. Cifre molto alte, quasi ingestibili, che ne fanno un punto di riferimento soprattutto tra gli appassionati di hip hop più giovani. Sono la più grande community che si occupa di rap italiano e, come è d’obbligo di questi tempi, hanno fondato il proprio successo sui meme. Poi è arrivato anche il sito, più recentemente anche un programma radio (The Plug, in onda su Hot Block Radio) e stanno pianificando lo sbarco nel mondo delle serate. Di tutto questo, di musica, di puristi e trappari, e di molto altro abbiamo parlato con il fondatore e le altre due colonne portanti del progetto.
Noisey: Ciao ragazzi. Presentatevi e spiegatemi cosa fate con Chiamarsi MC.
Daniel: Io sono Daniel, vengo dal Veneto, ho 24 anni e sono il fondatore della pagina Facebook, che è stata aperta circa quattro anni fa. Direi che la nostra struttura si è evoluta di pari passo con l’aumento di esposizione mediatica che ha avuto il rap in Italia.
Alberto: Io sono Alberto, di Terni, 27 anni. La svolta c’è stata con l’apertura del gruppo chiuso, dove sono stato reclutato. Ci sono entrato appena aperto, dato che i miei amici non ne potevano più di sentirmi parlare di rap, e Daniel mi ha chiesto una mano a gestire la cosa. Io non sapevo fare i meme, però una mano l’ho voluta dare. Da allora siamo inseparabili. Per i meme invece è stato preso Michelangelo…
Michelangelo: Io sono brianzolo, ho 19 anni e sono stato uno dei primi admin a essere presi nella nostra golden age, quando avevamo circa 8000 persone nel gruppo e 20000 like sulla pagina. Mi sono “fatto strada” come utente normale sia grazie a molte uscite provocatorie sia grazie ai meme, che al tempo rappresentavano il core delle nostre attività. Ai tempi chi postava meme che facevano più di 20 like era considerato una sorta di genio. Il mio vero momento è venuto quando un anno fa abbiamo aperto il sito di Chiamarsi MC, che ho preso in mano come caporedattore. Tra varie iniziative, tra cui simil-fake news alla Lercio che ci hanno dato un po’ di fama e un po’ di problemi, abbiamo fatto sentire la nostra voce all’hip-hop italiano. A novembre abbiamo fatto 700000 visualizzazioni dai social, sfruttando la portata della nostra pagina.
Alberto: E poi a novembre è morto Lil Peep!
Le controversie hanno quindi aiutato molto la pagina.
Michelangelo: Sì, sono successe diverse cose che ci hanno dato una mano a livello di visualizzazioni. Inoltre personalità turbolente come quella di XXXTentacion ci hanno aiutato molto. Ricordo come fosse oggi il giorno della morte di Lil Peep, ero in mezzo agli sbatti della metropolitana e non ho avuto nemmeno il tempo di somatizzare la perdita che già eravamo fuori con l’articolo.
Come vi siete avvicinati al rap?
Daniel: I miei amici facevano break con sotto Tradimento, all’epoca, e mi sono avvicinato al rap grazie a loro.
Alberto: Io ho qualche annetto in più rispetto a loro. Non ho avuto internet fino a 17 anni. Andavo all’unico negozio di dischi di Terni e ogni tanto tiravo su qualcosa, per esempio Verba manent di Frankie Hi-NRG MC. Poi ho scoperto i Club Dogo, che rimangono a oggi il mio più grande amore.
Michelangelo: Io vengo dal rock, dal prog e dall’heavy metal. Sono di Cavenago, un piccolo paese, e arrivando in una cittadina come Monza per fare le superiori mi sono reso conto che il rap era la musica che ti faceva fare più amici.
Alberto: È questo che fa il rap, dà un linguaggio comune. Ragazzi che vengono da centri piccoli ci trovano un modo per incontrare altre persone e interagire.
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Mi sembra evidente che in Italia l’appassionato di rap medio ascolti solo rap, e questo è sia un bene che un male. Voi cosa ne pensate?
Alberto: È vero. Il rap è assorbente, crea comunità, ma è anche molto cambiato assorbendo influenze da altri generi musicali.
Michelangelo: Secondo me il cavillo è questo: pensare che ascoltare rap sia ascoltare solo una cosa. I Colle der Fomento e Sfera Ebbasta non sono la stessa cosa. Noi che siamo onnivori possiamo essere d’accordo, ma è difficile trovare legami tra alcune correnti. Puristi contro trappari, lo scontro tra fazioni di un anno fa, si è quintuplicato. C’è chi vuole il SoundCloud rap, chi l’emo rap, chi la roba alla Guè Pequeno. L’ascoltatore di rap italiano ascolta tanto e tante cose diverse.
Però c’è il rischio che il rap, in un certo senso, si mangi tutto.
Alberto: Per me è un’opportunità, ci svegliamo ogni mattina sperando che il rap si sia preso tutto! Ha! Seriamente, il rap è più immediato sia per il fruitore che per l’artista. È più semplice che un ragazzo senza mezzi usi il rap per esprimersi piuttosto che altre forme, che sia di Vimercate o di Atlanta.
Io sono un attimo più vecchio di tutti voi e ricordo com’era la scena quando ero un ragazzino. In prima media comprai le cassettine Neffa, degli Articolo 31 e dei Sottotono. Erano nomi che però rimanevano lì. Non c’era una scena, c’erano solo loro e i loro dischi. Ora invece il rap è tutto.
Alberto: Si è preso anche l’indie, con Frah Quintale e Carl Brave.
Michelangelo: Io credo che sia l’indie a essersi preso i rapper. Entrare nell’immaginario indie è stata l’armoniosa prosecuzione delle carriere di Frah e Coez. Quella di Carl e Franco invece è una trasformazione più brusca; agli inizi la Love Gang faceva trap parecchio grezza. Polaroid è la perfetta colonna sonora di una teen romance, ma non dobbiamo dimenticare che dentro quella crew ci sono Pretty Solero, Ketama126, Asp126, Nino Brown. Gente che ha fatto la trap prima che ne parlassimo noi. Pezzi come “Niente nuovi amici” erano la trap come doveva essere e come in realtà non si è sviluppata in modo autentico, perché poi in Italia certe cose non le puoi fare. Basta accendere la radio per capirlo.
Che cosa non puoi fare in Italia?
Michelangelo: In Italia non puoi essere nel mainstream se hai un immaginario tutto droga e fast life.
Alberto: L’immaginario della trap è cupo. Il mutamento della Dark Polo Gang tra Crack Musica e Twins è un caso scuola. Il loro immaginario di riferimento è cambiato per venire incontro a un pubblico sempre più ampio e di età sempre più bassa.
Michelangelo: Il preconcetto del pubblico che più mi fa ridere è che la trap sia una roba per bambini. Ci si dovrebbe piuttosto chiedere perché i bambini si sentano attratti da un immaginario fatto di droghe, vita pericolosa e spaccio, ed entreremmo in un discorso sociologico più che musicale e commerciale. Il grande compromesso storico italiano è il tingersi di trap senza farla effettivamente. I media non aiutano e hanno creato grande confusione. Quello che fanno Tedua, Rkomi, IZI o Vegas Jones non è propriamente trap. Tedua, per esempio, è un visionario sia dal punto di vista compositivo che testuale. Definirlo “trap” è limitativo. Ho persino sentito definire “trap” Carl e Franco. Siamo in uno stato di confusione, e credo che i media debbano aiutare a fare chiarezza sulla questione.
Daniel: Che poi le etichette restano addosso agli artisti. La Dark Polo Gang sarà sempre considerata “trap”, indipendentemente da qualsiasi cosa possa mettere nei suoi pezzi in futuro.
Michelangelo: Secondo me il problema è quando nascono battaglie ideologiche basate su queste etichette. Quando arrivi a dire “Questa è trap quindi no, questo è vero hip-hop quindi sì” si crea un problema. Credo che una pagina come Chiamarsi MC aiuti a scardinare questi preconcetti.
Daniel: Trattiamo tutti senza denigrare nessuno.
Michelangelo: Amiamo il rap veramente, da Gucci Mane alle 16 Barre.
Secondo me è idiota fissarsi su una singola cosa, bisognerebbe spaziare e riuscire ad apprezzare quanto c’è di figo sia nella roba purista e hardcore sia nella roba più moderna che c’è.
Alberto: Siamo di bocca buona perché non guadagniamo niente da questa divisione. Chi combatte queste battaglie lo fa perché sta cercando di portare acqua al suo mulino, di identificarsi per negazione. “Io non sono questo, quindi se non ti piace questo ascolti me”.
E la cosa funziona sia come “Basta con questi vecchi, ascoltate noi” sia “Questi ragazzini fanno ridere, ascoltate noi che siamo quelli veri”.
Michelangelo: Tutti coltivano il proprio pubblico. Il nostro è onnivoro e ben segmentato. Per deformazione professionale proveniente dai meme a noi piace essere provocatori, prendere e prenderci in giro. Mi piace invertire ciò che crediamo essere giusto e sbagliato, così da avere una visione più ampia. Che ne so, magari la DPG è solo i Colle der Fomento con la codeina. Io sono fan di Tedua, ma sono il primo a scherzare sul fatto che a volte spari parole a raffica in cui è difficile trovare una chiave di lettura, che però poi si trova sempre.
Alberto: Abbiamo sempre adottato una chiave di lettura ironica e leggera, ma non solo per il lol. Se il confronto fra generazioni e categorie di ascoltatori parte sempre da posizioni preconcette si arriva sempre agli stessi risultati. Usando l’ironia, nell’accezione socratica del termine, si crea un dialogo che non si arena su posizioni sterili.
Michelangelo: Vogliamo uno spazio in cui il quattordicenne col New Era prenda in giro il tipo con i baggy. Vogliamo un confronto leggero su quello che il rap era una volta e quello che è oggi.
Alberto: Vogliamo trovare una chiave surreale che si concretizza attraverso i meme, che ci hanno aiutato tantissimo a crescere. Facciamo i meme come operazione culturale, non solo per i like.
Uno dei temi più dibattuti all’interno della scena è la presenza o meno di contenuti nei testi. Quando l’ho intervistato, Guè Pequeno mi ha detto che è contento che questa nuova ondata abbia portato la fine dell’idea che il rap nasca nei centri sociali, che ci debba essere un impegno politico.
Michelangelo: Sfondi una porta apertissima da queste parti!
Alberto: Si tratta del più grosso malinteso del rap italiano, è la macchia sulla coscienza di questo genere musicale. I contenuti sono la nostra Ustica! All’inizio dei Novanta il rap si è innestato su una cultura antagonista orfana della generazione del punk che aveva bisogno di un mezzo espressivo. Quindi si è creata un’idea sbagliata di cosa il rap doveva essere, un’idea che ha portato frutti qualitativamente buoni ma resta estremamente limitativa. Se poi consideriamo le origini del genere, Coke La Rock di cosa parlava? Del motel del Bronx dove andava a scopare. E “Rapper’s Delight”?. Se si conoscesse effettivamente la genesi del rap si capirebbe che chiudersi in un ghetto è estremamente limitativo.
Michelangelo: È che non sappiamo l’inglese. Non puoi farmi discorsi sul fatto che il rap debba essere di sinistra e avere certe ingerenze. Non puoi andare al cinema e gasarti guardando Straight Outta Compton se pensi queste cose. Non puoi ascoltare pezzi storici della Death Row. Il gangsta rap, nato prima del rap italiano, dovrebbe aver tolto ogni dubbio. Il rap non è impegno sociale, quello c’è nel conscious rap, che è una sua branca assolutamente rispettabile. I Dogo all’inizio facevano anche conscious.
Alberto: Anche perché quello dovevi fare se volevi suonare, all’epoca.
Michelangelo: È sbagliata anche la percezione dei contenuti, spesso ci fermiamo all’immagine dell’artista. Guè ha sempre avuto una scrittura ricca di contenuti, orientati sia positivamente che negativamente. Ha più portata contenutistica un pezzo che parla del blocco di un pezzo che dice “Quanto sono bravo a fare le rime” – che poi sono quelli che fanno quelli idolatrati da chi vuole i contenuti! È un circolo vizioso.
Daniel: È marcia l’idea di base che il rap nato in un certo modo debba morire nello stesso modo. Secondo questo ragionamento saremmo ancora all’età della pietra. Dobbiamo nascere e morire con il forcone?
Alberto: Se andiamo a prendere l’apparato ideologico del rap alle sue origini, cos’è se non una celebrazione del capitalismo? Del concetto che io non ho nulla ma attraverso il mio talento posso emanciparmi da una situazione sociale difficile?
Direi una celebrazione dell’individualismo. Io cerco di emergere per conto mio, non necessariamente cerco un emergere collettivo.
Michelangelo: Molte volte si celebra il “portare in alto la propria squadra”, ma non significa che debba far diventare tutto il mio quartiere bello perché sono propenso alla causa sociale del mio paese. Se il rap deve essere di sinistra, che è il dogma da cui scaturisce tutto questo discorso, perché il rap di sinistra è così conservatore? Questa è la mia domanda. Io preferisco mille volte il rap che non si schiera politicamente. Quando Marra dice che non ha mai votato, quando Noyz dice “Fanculo lo stato, hasta la muerte”, li percepisco come genuini. Sarà un mio limite, ma quando vedo rapper che combattono una campagna politica attraverso la musica mi rendo conto che non è il mio sport.
Alberto: Il rap è più interessante quando è descrittivo piuttosto che quando è prescrittivo. Quando è street cinema, come dicevano i Dogo.
Michelangelo: L’occhio fotografico che filma le situazioni della strada e non racconta la verità, dà una rappresentazione poetica. Quando la Dark trasforma il centro di Roma in Gotham City fa qualcosa di affascinante. Sta a me, ascoltatore, dire che non è esattamente così. Io abito nelle zone dove bazzicava Sfera da ragazzino prima della fama. La realtà non è quella che canta, ma quando sento XDVR sento l’odore di quelle zone. Non mi sta raccontando appieno una balla, mi sta parlando in un modo che mi può attrarre.
Come mai secondo voi i rapper sono così privi di senso dell’umorismo e ironia? Perché accettano così poco le critiche, o addirittura travisano opinioni che non vorrebbero essere negative?
Alberto: C’è una serie di pregiudizi nati tra rapper e media, storicamente nemici. È dai tempi di “Indecifrabile” dei Club Dogo che si parla di questo scontro. Per anni e anni il rap è stato raccontato con superficialità e inesattezze. Chi ha fatto rap in Italia fino a un certo periodo aveva un certo tipo di estrazione ed era portato a guardare con sospetto chi veniva da un’estrazione differente, e il giornalista è spesso stato accostato all’idea del “figlio di papà che non ci conosce, non ci capisce e viene qua a parlare di noi ora che ci può mangiare sopra”.
Michelangelo: Ultimamente la stampa si è appiattita su un leccaculismo nei confronti dei vari lavori che escano. Cercano tutti di dire “Bello, carino, ci sta”, non vedo più critiche sprezzanti. Recentemente abbiamo recensito negativamente il disco di Eminem, argomentando bene. Non diciamo che il disco debba far schifo per tutti, come fanno alcuni edgelord. Ma se qualcosa non ci piace lo diciamo, con il dovuto rispetto per l’artista.
E invece come viene percepito Chiamarsi MC da parte dei rapper?
Michelangelo: Per il momento abbiamo sempre avuto attestati di stima, abbiamo un legame con alcuni rapper nato già quando facevamo i meme e loro li ripostavano. Ora ogni tanto ripostano anche gli articoli. Certo, non sono mancate frizioni: capita che qualche artista prenda male una recensione, fa parte del gioco, come fa parte del gioco per noi ricordare che non siamo l’ufficio stampa di nessuno.
Alberto: Nerone ci disse “Voi non siete giornalisti, siete la gente”. E quindi la diffidenza percepita è minore.
Michelangelo: Siamo grandi amanti del rap italiano dalla A alla Z. A differenza di altri portali trattiamo ogni segmento della scena alla stessa maniera, e quindi possiamo essere visti bene sia dal rapper mainstream che da quello underground. Non abbiamo la pretesa di venire dall’alto di chissà quali competenze, abbiamo un blog che non possiamo definire testata giornalistica.
In che modo i meme vi hanno aiutato a diventare la community rap più grande d’Italia?
Michelangelo: Il sito si poggia su una base social che nessun altro ha in questo momento. Se vanno bene i meme la gente scopre gli articoli e viceversa. I meme permettono di assorbire un sistema di concetti, sottolineare certi tic del rap italiano. Hanno influenzato carriere di rapper, hanno fatto pensare i rapper a quello che la gente si aspetta da loro. Ci sono molti artisti che li hanno sfruttati, come Enzo Dong. La Dark è esplosa grazie ai meme. Alla lunga l’illusione però finisce e i meme diventano un’arma a doppio taglio. L’ascoltatore può sentirsi come imboccato con l’imbuto. “British” è un esempio lampante di questo, il meme è nato sei mesi prima della canzone. È un mondo alla rovescia.
Alberto: I meme sono come il sampling. Si prendono delle basi e poi si modificano secondo le proprie esigenze.
Come si gestisce una community così grande?
Michelangelo: Con uno staff molto grande, siamo in più di 50 tra admin della pagina, autori del sito, moderatori del gruppo e assistenti tecnici. Abbiamo 40 gruppi di Whatsapp in comune, più o meno! Whatsapp ci dà una possibilità di controllare le cose da vicino e ci permette di fare squadra, che è una cosa che molti magari sottovalutano. Avere un gruppo unito e compatto che si vuole bene e a cui piace fare baccano assieme crea identità.
Daniel: Si è creato un ambiente familiare.
Alberto: Quante storie d’amore sono nate nel nostro staff?
E come riuscite a vigilare sul fatto che non vengano postate cose eccessivamente scorrette?
Alberto: Nel gruppo abbiamo una decina di moderatori. L’unico modo è impiegare parecchia gente. Nessuno di noi fa questo per lavoro. Il nostro tempo libero è assorbito completamente da Chiamarsi MC, e tutti dedicano parte della loro giornata a scorrere, eliminare contenuti, sedare flame e bannare.
Michelangelo: Non cerchiamo mai di cacciare la gente, CMC Familia è anche questo. Abbiamo creato un gruppo per tenere i vari membri dello staff che in quel momento non erano attivi, per continuare i rapporti umani. Siamo sparsi in tutta Italia ma ci siamo visti diverse volte, e quando c’è qualcosa di vero si riesce a lavorare bene.
Avete mai avuto l’idea di organizzare eventi, aprire un’etichetta, ampliare Chiamarsi MC?
Daniel: Il sito è stato il primo step che avevo in mente.
Alberto: Lui parla poco ma è la mente imprenditoriale dietro a tutto questo, noi siamo i chiacchieroni!
Daniel: Finora abbiamo fatto dei raduni, a cui si sono esibiti Axos e Nerone. C’erano anche Nitro, Lazza…
Alberto: Eravamo in un centro sociale autogestito a Gratosoglio in 160 persone, il posto cadeva a pezzi! È stata una situazione a dir poco surreale che ci ha fatto rendere conto che se vogliamo organizzare eventi dobbiamo dedicarci alla cosa in maniera professionale. È difficile portare un discorso di presenza live sul territorio, si rischia di fare cose con spirito punk e divertenti che però diventano uno sbattimento disumano.
Pensate che Chiamarsi MC possa diventare la vostra occupazione principale?
Daniel: Stiamo lavorando per arrivare a una dimensione del genere. Sarebbe un sogno. Chiamarsi MC ha i mezzi per fare tante cose. Vorremmo aprire una web radio, lavorare meglio sugli eventi.
Alberto: Trovare una formula che ci consenta di fare le cose belle senza dover essere presenti sul territorio due mesi prima, cosa che al momento ci è impossibile.
Michelangelo: La nostra volontà è di mettere le nostre bandiere in giro per l’Italia.
Siete stati mai contattati da aziende che vi hanno proposto di lavorare assieme?
Daniel: Sì, per esempio Clipper e Lucky Red.
Alberto: La cultura del meme comincia a essere capita anche dal terziario italiano, che ci si sta buttando a pesce con risultati alterni.
Michelangelo: Siamo aperti a collaborazioni, non abbiamo paura di farci dire “Siete dei venduti!”
Daniel: Siamo i Guè Pequeno del meme game!
Michelangelo: Chiamarsi MC ci ha permesso di realizzare alcuni sogni che avevamo da anni.
Daniel: Sì, la pagina non è nata per fare soldi.
Alberto: Io nel 2014 stavo attaccato alla gabbia di MTV Spit a vedere Nerone vincerlo. Quando Nerone ha fatto il singolo d’oro con Salmo e Gemitaiz stavamo a cena insieme. Per me questo è tutto.
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