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La storia di Christopher Street, culla dell’orgoglio omosessuale

Illustrazione di Jansen Cumbie.

Lo scorso weekend in tutto il mondo si è celebrato l’orgoglio GLBTQI e così via. Non si può negare che, in molti casi, la vita della comunità omosessuale sia legata a doppio filo alla musica e alla nightlife. Per questo oggi vi raccontiamo la storia di una delle vie più significative in questo senso: Christopher Street, a New York.

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Anche da un punto di vista puramente geografico, Christopher Street è sempre stato un luogo di rottura. La strada taglia in diagonale lo storico Greenwich Village, uno dei pochi quartieri di Manhattan che se ne fottono delle rigide griglie in cui è incasellata la città. Dagli inizi del Ventesimo secolo, quella strada ha rappresentato un rifugio sicuro per la comunità LGBTQ di New York, oltre che la casa di eventi—tra cui le rivolte dello Stonewall Inn—che sarebbero poi diventati un faro nella notte del movimento per i diritti omosessuali di tutto il mondo.

Oggi, la strada rimane un importante simbolo per le realtà LGBTQ di New York (le foto del cartello all’intersezione con la Gay Street sono diventate un classico souvenir per turisti), anche se al momento è infestata più da negozi fighetti e palestre stravaganti che dalle perle notturne che un tempo ospitava.

Fortunatamente oggi il movimento per i diritti LGBTQ si è espanso oltre i confini di strade, quartieri, città o Paesi, ma è importante ricordare, come in ogni battaglia, che i primi mattoni sono stati posati con fatica e coraggio in posti piccoli e di confine come, appunto, Christopher Street.


1799
Negli anni Quaranta del diciottesimo secolo, Sir Peter Warren, un ricco ammiraglio irlandese, costruisce una tenuta costosa nel villaggio di Greenwich, due miglia a nord di New York City. Lungo il confine meridionale della tenuta Warren corre la sua arteria principale—una lunga strada che collega in diagonale il tratto fra il fiume Hudson e il cuore del villaggio. Originariamente chiamata Skinner Road in onore del colonnello inglese William Skinner, la più antica strada del Greenwich Village è rinominata Christopher Street nel 1799, come uno degli eredi di Warren, Charles Christopher Amos.

1881
Viene pubblicato il libro di Henry James, Washington Square, in cui lo scrittore parla del Greenwich Village: “Questa fetta di New York è per molti la più gradevole. Ha quel senso di calma diffusa che non è comune a molti quartieri della lunga, acuta città: ha un’apparenza più matura, benestante e seria rispetto ad altre ramificazioni dello stradone che la taglia longitudinalmente—quell’apparenza che fa pensare che ci sia una sorta di storia sociale alle sue spalle.”

1910
Il primo “goofy club” del Village apre, all’angolo tra Charles St e la West 4th, due isolati più a nord di Christopher Street. Il Toby Club ha soffitti adornati da ragnatele e alle sue pareti sono appesi teschi e ossa provenienti da scheletri veri. Altri locali “bizzarri” come questo—a tema pirati, prigioni, fattorie, tende teepee—sorgeranno via via nel corso degli anni Venti, rendendo famoso il quartiere per la sua nightlife assurda.

1920
Entra in vigore il Wartime Prohibition Act, ma il Village, nato e cresciuto ribelle, non sembra risentirne. Il 16 gennaio, data in cui la legge diviene effettiva, la prima persona arrestata per averla violata è un certo Barney Gallant, co-proprietario di un abbeveratoio locale, il Greenwich Village Inn, colpevole di aver ordinato e consumato uno sherry sotto gli occhi di un poliziotto in borghese. Al ritorno dal processo, gli abitanti del Village lo accolgono al suo locale con una festa altamente alcolica.

Durante tutto il Proibizionismo, New York infrangerà le regole parecchie volte, e ancora di più queste regole verranno ignorate nel Village. Christopher Street e il resto del quartiere, infatti, riusciranno a sopravvivere e, anzi, a crescere indisturbati per il periodo nero: esercizi commerciali illegali e alcolici di sottobanco si rivelano miniere d’oro per gli affari locali.

Mappa di Christopher Street negli anni Venti. Immagine concessa dalla New York Public Library.

1934
Il Proibizionismo ha i giorni contati e nasce, di conseguenza, la New York State Liquor Authority per regolare la vendita di alcolici in città. A quei tempi non si può dire che ci fossero locali gay alla luce del sole, ma dal modo in cui furono redatte le leggi possiamo intendere che sarebbero poi diventati una sorta di danno collaterale della legislazione. Le autorità non citavano direttamente i bar gay in nessuna parte del regolamento, tuttavia la polizia fu libera di interpretare una normativa atta a contrastare locali “disordinati” come rivolta a posti frequentati da avventori omosessuali. In questo modo i bar gay (e pure servire bevande a persone gay in qualsiasi tipo di bar) diventarono, a tutti gli effetti, illegali.

La mafia, in questo, vede immediatamente un’opportunità di business. I boss locali, tra cui quello a capo della nota famiglia Genovese, nei decenni successivi acquistarono parecchi locali nel Village, tra cui lo Steonewall Inn, nel 1966—con cospicue mance alla polizia e minacciando chiunque si mettesse sulla loro strada. Molto presto, la Famiglia avrà le mani completamente immerse nella nightlife omosessuale del Village, un monopolio che manterrà per tutti gli anni Sessanta.

1938
Nel dicembre di quest’anno, un imprenditore locale, Barney Josephson, decide di trasformare il garage di One Sheridan Square—un localaccio a tematica horror appena fuori Christopher Street—in un jazz club chiamato Cafe Society. Stando a un’intervista con il New York Times, Josephson era intenzionato a distruggere le barriere razziali che si ergevano nei club della città: “volevo un locale in cui bianchi e neri lavorassero insieme dietro le quinte e stessero uniti in prima linea,” racconta. Di conseguenza, chiama a suonare artisti afroamericani costruendo, di fatto, il primo locale in cui l’audience era mista, il che dà il via a un processo di diversificazione culturale della nightlife del quartiere. Alcuni grandi del jazz—Billie Holliday, Hazel Scott, Sarah Vaughan, Josh White, Mildred Bailey, Art Tatum, Mary Lou WIlliams, Teddy Wilson—suoneranno al Cafe Society fino alla sua chiusura, avvenuta negli anni Cinquanta. Il suo slogan riassume bene l’etica che muoveva questo locale: “The wrong place for the right people”.

ANNI CINQUANTA
La sessualità di molti gay e lesbiche cresciuti negli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale era relativamente tollerata. Dopo Pearl Harbor l’esercito aveva un bisogno vitale di reclute, il che significa che se gli omosessuali facevano domanda per entrare nell’esercito nessuno osava rifiutarli. Chiaramente non era possibile per loro vivere la propria sessualità apertamente all’interno dell’esercito, tuttavia i gay venivano, per la maggior parte, lasciati stare, e per molti la vita militare fu un’occasione di riscatto. Poi però la guerra finì e il quadro cambiò ancora una volta.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il governo degli Stati Uniti fa in modo di cancellare ogni progresso sociale ottenuto durante la guerra e si propone di riedificare i ruoli di genere “tradizionali” che erano stati messi in discussione. In questo periodo, l’FBI redige una lista di gay statunitensi, che saranno poi tenuti sotto controllo dalla polizia in cerca di attività fuori dal seminato, tra cui la convivenza e le effusioni in pubblico.

Dagli anni Venti, periodo della cosiddetta Harlem Renaissance, molte persone queer di colore conducevano un’esistenza (relativamente) aperta nei quartieri a nord di Manhattan—come fa notare anche l’artista gay Bruce Nugent: “Nessuno viveva nascosto, perché non avevamo nessun nascondiglio.” Negli anni Cinquanta, però, il comportamento della polizia locale costrinse la comunità gay di Harlem a cercarselo, un nascondiglio. Così ebbe inizio l’esodo dei gay di colore da Harlem al Village.

ANNI SESSANTA
Al Village iniziano ad arrivare drag queen provenienti da tutta la città, in fuga dai luoghi in cui vestirsi con indumenti pertinenti al sesso opposto, in pubblico, significava essere arrestati o picchiati da omofobi più o meno in divisa. Il molo di Christopher Street, anche detto Village Pier, diventò un punto di ritrovo per drag queen. In reazione alle leggi che impedivano agli omosessuali di farsi vedere in giro insieme, uomini gay e drag queen iniziarono a battere al molo del Village, rifugiandosi con i loro amanti nelle squallide casette galleggianti lungo il fiume.

Marsha P. Johnson, chiamata Saint Marsha dalle orde di ammiratori e da tutti i ragazzi di strada che prendeva sotto la sua ala protettiva, era la regina del molo di Christopher Street. Alta e muscolosa, si agghindava con parrucche e abiti raccolti da negozi dell’usato o da fondi di discarica, completando il look con copricapi stravaganti tipo conigli impagliati o scatole di cioccolatini. Chi passava spesso per Christopher Street era abituato a vederla andare sui pattini lungo il molo o correre nuda per la strada. Con una vita passata a fare costantemente avanti e indietro da istituti d’igiene mentale o prigioni (è famosa per aver detto a un giudice che la “P” nel suo nome stava per “Pay it no mind”), Saint Marsha incarna lo spirito di liberazione e accoglienza, oltre che tutta la complessità della comunità drag che abitava il molo del Village.

1966
La vita notturna omosessuale nel Greenwich Village continua ad essere sorvegliata da vicino dalla polizia. I proprietari di locali gay-friendly sono costantemente sotto minaccia e spesso ci si rifiuta di servire i clienti omosessuali.

In un tentativo di far luce su questa discriminazione, il 21 aprile del 1966 il gruppo per i diritti omosessuali Mattachine Society decide di organizzare un Sip-in. Gli attivisti decidono di perlustrare ogni bar del Village allo scopo di testare quanti li avrebbero serviti dopo aver saputo che erano gay—il tutto, accompagnati da alcuni giornalisti che erano stati invitati per l’occasione. Dopo essere stati ben accolti in un paio di locali, si dirigono al Julius Bar, all’angolo tra la West 10th e Waverly Place. Si trattava in realtà di un ritrovo per omosessuali, anche se sotto copertura, e il gestore—d’accordo con gli attivisti—si rifiuta di servire loro da bere, sotto gli occhi dei reporter presenti. Il giorno dopo furono pubblicate diverse notizie che riportavano l’accaduto, e questo caso mediatico segnò un altro passo fondamentale verso la fine della discriminazione.

Flyer della Mattachine Society. Immagine concessa dalla New York Public Library.

1969 (Giugno)
Verso la fine degli anni Sessanta, si intensificarono i raid nei gay bar, giustificati da interpretazioni a comodo delle regolamentazioni sugli alcolici. A quanto pare, comunque, le motivazioni che muovevano ufficialmente gli interventi continui della polizia erano anche legate al contrasto del monopolio che la mafia aveva sui locali della città, oltre che le classiche reazioni ai lamenti degli abitanti che non ne potevano più della balotta sotto la porta di casa.

All’una di notte circa del 28 giugno di quell’anno, uno di quei raid fece incursione allo Stonewall Inn del numero 53 di Christopher Street. Anziché assecondare gli ordini dei poliziotti di sgomberare il locale, però, gli avventori del bar si ribellarono alla polizia.

La storia vuole che i poliziotti tentassero di arrestare una donna lesbica che indossava vestiti maschili. La mai identificata “Stonewall Lesbian,” come fu conosciuta da allora in avanti, lotta contro gli ufficiali della polizia che la colpiscono alla testa. La tensione sale, qualcosa scatta e si accende uno scontro violento tra la polizia e la folla che animava il bar. Lo scontro prosegue fino alle luci dell’alba, trasferendosi per strada e coinvolgendo anche altre persone del quartiere. Per la stragrande maggioranza, ad animare le proteste quella notte furono neri o latinos, tra i frequentatori assidui del bar. Nei giorni successivi al raid, le rivolte continuarono, così come proseguirono le gli atti dei residenti del Village contro la polizia. Tra il caos e l’incertezza che regnavano in quel momento a Christopher Street, quel momento divenne un passaggio fondamentale per il riconoscimento in larga scala dei movimenti per i diritti omosessuali.

1969 (Luglio)
Appena dopo i fatti di Stonewall, gli attivisti gay e i residenti del quartiere iniziarono a discutere su quale fosse il modo migliore per impugnare la rabbia sollevata dalle rivolte e trasformarla in uno strumento propositivo per la lotta. I progressi ottenuti grazie alla Mattachine Society (lo stesso gruppo che aveva organizzato il Sip-in al Julius Bar) non sembravano abbastanza, a fronte degli scontri violenti tra la comunità e le autorità che avvenivano nelle strade del Greenwich Village, e tra i militanti si faceva strada una fame di qualcosa di più concreto. Nacque così il Gay Liberation Front, con un flyer che ne annunciava gli intenti: “Do you think homosexuals are revolting? You bet your sweet ass we are.”

1969 (Ottobre)
Chiude lo Stonewall Inn. I boss a cui faceva capo probabilmente ritenevano che il locale fosse troppo in vista per continuare a investirci. L’insegna arrugginita viene tirata giù e fino ai primi anni Novanta il bar rimarrà chiuso, per poi riaprire con una nuova insegna rossa al neon in cui la scritta “The Stonewall Inn” campeggia con orgoglio.

1970
Il 28 di giugno, qualche centinaia di gay e lesbiche marciano da Christopher Street alla Sixth Avenue e poi fino a Central Park sollevando striscioni e cartelli con slogan come “Gay Pride” e “Gay is Good.” Si tratta del primo Gay Pride di New York—ai tempi chiamata la Christopher Street Gay Liberation Day. Inizialmente i partecipanti si propongono di evitare di sottolineare rappresentazioni stereotipiche della comunità gay, e per questo motivo tentano di tenere fuori le drag queen dalla marcia—soltanto che le drag queen non ne vogliono sapere e decidono di partecipare al corteo, o meglio, di mettersi in testa, con i propri striscioni. Da allora furono sempre le benvenute al corteo, che da quella volta divenne un appuntamento annuale.

1970 (Agosto)
Dalla chiusura negli anni Cinquanta del Cafe Society negli anni Cinquanta, fino ad arrivare a quello che poi si sarebbe chiamato One Sheridan Square, il locale passa attraverso una serie di vicissitudini. Nel 1970, per un breve periodo di tempo, veste i panni di una discoteca gay chiamata Haven che aggirava la giurisdizione sui liquori grazie a una licenza da “juice bar”. Dopo Stonewall, i rapporti tra polizia e comunità gay erano ancora tesi, e in Agosto ci fu un altro raid nel club giustificato dal fatto che stessero indagando su giri di droga. La polizia distrugge il sound system, il bar e le luci del locale per un ammontare di 75.000 dollari di danni. Alcuni membri dello staff vengono arrestati per poi essere rilasciati poco dopo, ma il club a quel punto non è più in grado di risollevarsi ed è costretto a chiudere.

1973
La libreria Oscar Wilde, fondata dall’attivista gay Craig Rodwell, fu il primo esercizio a New York a vendere titoli firmati da autori omosessuali. Originariamente aperta al 291 di Mercer Street nel 1967, si trasferisce all’angolo tra Christopher e Gay Street (l’etimo del nome di Gay Street, manco a farlo apposta, è una coincidenza assurda).

La veglia di Christopher Street per le vittime del massacro di Orlando. Foto di Rebecca Smeyne.

1980
A Novembre, Ronald K. Crumpley, un ex poliziotto trentottenne, si dirige armato al Village e inizia a sparare, uccidendo due uomini e ferendone altri sei. Crumpley apre il fuoco fuori da un alimentari all’angolo tra la Washington e la 10th, ferendo due persone, prima di spostarsi al Ramrod, un club gay sulla West Street tra la 10th e Christopher. Lì continua a sparare, uccidendo Vernon Koenig, un ventunenne organista di chiesa, e il ventiquattrenne buttafuori del Ramrod, Jorg Wenz, oltre a ferire altre quattro persone. Durante quella follia omicidia pare urlasse “Li ucciderò tutti—ucciderò tutti i gay—rovinano ogni cosa.” Crumpley è morto nel 2015, a 73 anni, nella struttura psichiatrica che l’ospitava.

1981
Si diffondono voci di uomini gay statunitensi che si ammalano di quella che all’inizio si crede essere una rara forma di cancro e malattie immuni. Alla fine dell’anno si registrano quasi trecento casi di severa immunodeficienza, principalmente a New York e San Francisco. Metà dei casi sono fatali. Nel 1982 il termine AIDS (Acquired Immune Deficiency Syndrome, Sindrome da Immunodeficienza Acquisita) è formalmente introdotto dai Centers for Disease Control and Prevention per indicare la malattia che si sta diffondendo in tutto il Paese e sta decimando la popolazione gay del Village.

1985
Mentre l’AIDS devasta il Village, i club cominciano a chiudere. Il dipartimento della salute chiude il Minecraft, un locale gay S&M aperto dal 1976, sulla base del fatto che la sua attività potrebbe contribuire alla diffusione dell’AIDS. I bagni gay, compreso il St. Marks Baths, vengono chiusi dal comune. Due gay club nel Village, l’Anvil e l’Hellfire, chiudono spontaneamente. Durante questo periodo, le attività gay e queer ritornano di nuovo alla vecchia tattica di operare come circoli pseudo privati per evitare la chiusura.

1986
Bailey House, il primo alloggio pubblico per malati di HIV/AIDS, apre all’estremità Ovest di Christopher Street, in un edificio a quattro piani che prima ospitava una discoteca gay. Lo spazio è gestito dall’AIDS Resource Center, un’organizzazione privata che si occupa di procurare alloggi per le persone senza casa malate di AIDS. Alcuni degli ospiti erano probabilmente frequentatori della discoteca che stava al suo posto prima dell’epidemia. Come l’attivista per i diritti dei gay William K. Dobbs ha detto al New York Times nel 1995, “Quella che una volta era una semplice passeggiata verso il molo oggi finisce simbolicamente e letteralmente con l’AIDS”.

Bailey House si ingrandirà fino a diventare una organizzazione di beneficienza per i malati di HIV/AIDS che gestirà altre residenze in altre parti della città, oltre a ospitare programmi di aiuto per i malati. L’edificio al 180 di Christopher St. continuerà a operare, ed entrerà in funzione un programma federale per concedere alloggi alle persone con l’HIV/AIDS.

1992
Il corpo di Marsha P. Johnson viene rinvenuto nel fiume Hudson vicino al molo di Christopher Street all’inizio di luglio, pochi giorni dopo la manifestazione del Gay Pride. La polizia individua il suicidio come causa della morte, anche se la sua famiglia (sia quella biologica che quella adottiva) cercherà di far aprire un’indagine per omicidio senza successo. La band di ANOHNI Antony and the Johnsons prende il nome da lei.

1993
I casi di AIDS in città raggiungono il picco, poi cominciano a calare regolarmente; le medicine e la terapia migliorano decisamente e lo stigma diminuisce, così per i malati diventa possibile vivere una vita quasi normale. Dopo più di un decennio nella morsa dell’AIDS, Christopher Street è irriconoscibile. La maggioranza degli abitanti gay del quartiere non c’è più; molti sono morti, altri si sono trasferiti altrove, incapaci di andare avanti in un posto avvelenato dalla malattia e dalla morte. L’epidemia di AIDS, ma anche la catastrofe del crack a New York in questo periodo causa un cambio demografico nel Village, da una predominanza di uomini gay bianchi a neri e ispanici. Durante questo periodo, la parte ovest di Christopher Street da Hudson Street fino al fiume attraversa anche una crisi economica devastante. I negozi chiudono, la criminalità cresce e quello che era il cuore palpitante della New York gay si riduce a un flebile pulsare.

Lo Stonewall Inn il giorno dopo il massacro di Orlando. Foto di Emilie Friedlander.

1994
Rudy Giuliani è eletto sindaco di New York, ereditando una città sfigurata dalle cicatrici dell’AIDS e del crack. Nel corso di due mandati, implementerà la sua famosa iniziativa anti-criminalità “broken windows”, un principio di tolleranza zero verso la criminalità che trascina la città fuori dall’oscurità a cui si era abbandonata, strofinando fino a farla scintillare, in alcuni posti arrivando a sterilizzarla. Anche il Village prospera in questo periodo, ma non come una volta. Alla fine del secondo mandato nel 2001, quella che era la calamita per i ribelli, l’oracolo dei bohemièn, il luogo sicuro per ogni tipo di queer, ora è estremamente diverso. Palestre costose, ristoranti da brunch eleganti e boutique di lusso hanno aperto a ogni angolo, trasformandolo in uno dei quartieri più ricchi della città. Forse è una questione di pura economia—visto che gli artisti non possono più permettersi di liverci, o forse le persone LGBTQ si sentono al sicuro in ogni parte della città, ma Christopher Street e il suo Village sono più gay in spirito che in pratica oggi.

2016
Domenica 26 giugno, Christopher Street è la meta finale della parata cittadina del Gay Pride. Quattro decenni dopo la rivolta, lo Stonewall Inn sta per diventare monumento nazionale. La Storia non è soltanto intrecciata nella tela di questa strada, ma si fa ancora qui.


Fonti: Greenwich Village and how it got that way, Terry Miller; Gay Metropolis, Charles Kaiser; The Village: 400 years of beats and bohemians, radicals and rogues, John Strausbaugh; Love, Christopher Street: Reflections of New York City, Thomas Keith. Un ringraziamento speciale a Jason Baumann, coordinatore delle sezioni Humanities e LGBT alla New York Public Library, e a Andy McCarthy, bibliotecario alla Irma and Paul Milstein Division of United States History, Local History & Genealogy.