Castellabate guarda all’omonimo Golfo sul Tirreno che si estende da Punta Licosa. Uno dei posti più belli d’Italia, consacrato come tale nel 2010 con l’arrivo nelle sale di “Benvenuti al Sud” — ambientato proprio fra i vicoli di questa parte di Cilento, l’enorme sub-regione campana a sud di Salerno.
Prima del 2010, però, già qualcun altro si era accorto delle potenzialità di questo territorio: non l’industria cinematografica, ma il fiorente business del narcotraffico e delle estorsioni.
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È allora che il clan Nuvoletta, originario di Marano – a nord di Napoli – acquisisce la proprietà dell’hotel Castelsandra all’inizio degli anni Ottanta. Un complesso alberghiero di cinque piani, sorto abusivamente in zona demaniale nella frazione di San Marco di Castellabate. Venticinque villette annesse, due piscine, campi da calcio e da tennis, area parco e discoteca molto in voga nella zona.
A gestirlo, per conto dei Nuvoletta, era l’imprenditore “don” Luigi Romano, braccio economico del clan maranese, proprietario della “Bitum Beton” di Casoria – sempre a nord di Napoli – e della “Sud Appalti”, con la quale gestiva i servizi di pulizia in diversi uffici pubblici del casertano, da Maddaloni a Santa Maria Capua Vetere.
Esiste un filo tutt’altro che sottile collegava, già trent’anni fa, territori ad alta densità camorristica con l’immacolata distesa cilentana, tanto che il 13 luglio 1992 arrivano i sigilli all’albergo e la confisca dei beni appartenenti al clan Nuvoletta, disposti dai giudici del tribunale di Napoli.
Gli incroci tra la criminalità organizzata e il Cilento cominciano proprio da qui: inizio anni Ottanta, col sodalizio Alfieri-Nuvoletta-Bardellino da un lato – prima che una faida interna li decimasse – e la Nuova Camorra Organizzata (NCO) di Raffaele Cutolo dall’altro. Un rapporto sempre taciuto, per un’opinione pubblica che in genere rifiuta l’appellativo di “terra di camorra”.
Il Cilento, d’altra parte, non ha mai visto nascere famiglie camorristiche locali: la criminalità organizzata, in un territorio “cuscinetto” fra ‘ndrangheta e camorra, può definirsi d’importazione.
“Lo scenario è rappresentato da una migrazione verso il salernitano di interessi economici e finanziari direttamente o indirettamente riconducibili ai contesti più strutturati e pericolosi della camorra napoletana,” scrive la Direzione Nazionale Antimafia nella relazione annuale 2015.
“Si delinea, in buona sostanza, il rischio di colonizzazione del tessuto economico da parte di un’imprenditoria direttamente o indirettamente riferibile alla grande criminalità di importazione.”
Quello della colonizzazione è un aspetto fondante per capire come la criminalità organizzata, dalla Calabria alla stessa Campania, si muove in Cilento o in territori simili a bassa intensità di violenza mafiosa — come il Centro-Nord Italia. Una colonizzazione che non è semplice dominio o soffocamento delle attività produttive: tutt’altro.
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Il Cilento rischia di diventare una sorta di “laboratorio” per nuovi cartelli criminali, che non si impongono in modo violento sul tessuto sociale, ma lo assecondano nel desiderio di veder crescere e modernizzare la propria economia.
Lo spiega, a VICE News, Marcello Ravveduto, docente universitario di Storia Contemporanea e referente di Libera Salerno.
“La corruzione che imperava negli anni Novanta è stata ampiamente superata dalla convenienza degli anni Duemila. C’è qualcuno che vuole venire a investire sul mio territorio? Ben venga. La convenienza è di tutti gli attori che si muovono in una società: delle banche, che ovviamente vedono aumentare i loro depositi; dell’imprenditore locale, che può fare affari con soldi ‘ripuliti’; della Pubblica Amministrazione, che riesce, ad esempio, a ottenere l’impegno per la bonifica di alcuni territori per il successivo impianto di attività commerciali; della società civile in genere, che vede nella presunta ‘modernizzazione’ l’antidoto contro tutti i mali.”
“L’assalto al Cilento è un assalto di profilo più basso,” conferma a VICE News Michele Buonomo, presidente di Legambiente Campania. “Nessun attentato e nessuna sparatoria. Potremmo parlare persino di evoluzione della specie mafiosa.”
La stessa evoluzione che ha permesso, alla camorra e alla ‘ndrangheta, di fare affari per più di trent’anni senza particolari clamori: le cosiddette “stese” viste a Napoli, capannelli di motociclisti che sparano in aria per marchiare una strada, una piazza, un quartiere come proprio, sono un mondo alieno rispetto al Cilento, dove “l’appropriazione del territorio avviene tramite la costruzione di alberghi come il Castelsandra,” continua Ravveduto, “la gestione di piccoli esercizi commerciali, stabilimenti balneari, discoteche, ristoranti.”
“Per anni il clan Fabbrocino, originario del Vesuviano, ha imposto una grande marca di gelati a tutti i bar del territorio cilentano,” prosegue: “una formula ‘para-estorsiva’ che non ha bisogno dell’intimidazione o delle armi. È la stessa cosa che facevano i casalesi in provincia di Caserta, quando si trattava di imporre una certa marca di latte ai negozi alimentari del posto.”
C’è però un altro settore che lega le “vecchie” mafie a quelle di nuova generazione sulla costa cilentana: il grande classico dell’edilizia. Giuseppe Tarallo, ex primo cittadino di Montecorice e presidente del Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni dal 2001 al 2008, lo spiega senza troppi giri di parole a VICE News.
“Quando ero sindaco, a inizio anni Novanta, chiesi più volte – ma invano – l’istituzione di un’anagrafe degli investimenti immobiliari presso l’Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa. D’altra parte, che in Cilento la camorra e la ‘ndrangheta abbiano degli interessi non è un mistero per nessuno, anche se istituzioni e molti cittadini fanno di tutto per negarlo.”
Tarallo racconta, a tal proposito, un episodio significativo: “Quando ero sindaco venni avvicinato da alcune persone durante un matrimonio, cui partecipavo come invitato, all’hotel Castelsandra. Mi riferirono che ero desiderato in direzione. Una volta lì mi fu detto che avrei dovuto assecondare, o almeno non ostacolare apertamente, gli investimenti immobiliari che all’epoca erano previsti tra Agnone e Acciaroli. Investimenti che, mi venne riferito a chiare lettere, erano per l’80 percento riconducibili a capitali mafiosi.”
Il 27 ottobre 2003 uno dei simboli di questi investimenti venne fatto letteralmente deflagrare. Venti metri in verticale di cemento armato collegavano l’hotel Castelsandra alla spiaggia di Santa Maria di Castellabate. Era il cosiddetto “ascensore della camorra”, che serviva ad accompagnare gli illustri ospiti di “don” Luigi Romano direttamente sulla spiaggia.
Dopo anni di lotte, Tarallo – in qualità di presidente del Parco Nazionale – riuscì a ottenere la demolizione di quel manufatto che deturpava uno dei panorami più belli al mondo.
“Decidemmo di demolirlo col tritolo per dare un segnale importante,” dice Tarallo, “soprattutto a chi sapeva di godere di una sorta di impunità da parte delle amministrazioni locali, che mai avevano fatto nulla per impedire quello scempio in cemento. Per tutta risposta mi sentii dire, da parte di uno dei proprietari del manufatto, che su quel tritolo ci dovevo saltare in aria io.”
Quello dell’abusivismo edilizio in Cilento non è, però, solo un retaggio del passato. “Tra l’aprile e l’agosto del 2015 una raffica di sequestri e denunce si è abbattuta sull’area naturale protetta del Parco del Cilento,” scrive Legambiente nel suo dossier MareMonstrum 2016.
“Decine di persone sono state denunciate a vario titolo per violazione delle norme urbanistiche, occupazione abusiva di suolo demaniale marittimo, deturpamento e alterazione di bellezze naturali […] Ville dai cento ai mille metri quadri, piscine, pedane, pontili, parcheggi, manufatti in ferro, legno e calcestruzzo.”
Uno dei casi più clamorosi, denunciato da Tarallo pressoché in solitaria, è quello che riguarda un complesso turistico costruito sull’alveo di un torrente, quello di Mortelle, a Pioppi, frazione di Pollica. Lo stesso Comune di cui era sindaco Angelo Vassalo, ucciso da mano ancora ignota il 5 settembre 2010.
All’inizio di febbraio 2016, il gip del tribunale di Vallo della Lucania dispone il sequestro della struttura con sei corpi di fabbrica, in un’area da 10mila metri quadri suddivisi in 40 camere, “in una zona dove, per legge, non erano previsti insediamenti turistico-ricettivi di tali dimensioni – precisa Tarallo – ma solo singoli interventi come agriturismi e country house, trattandosi di zona rurale classificata come area marina protetta”.
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Il Cilento non è terra di mafia, ma terra d’investimenti mafiosi. Territorio “cuscinetto” fra camorra e ‘ndrangheta, dove ricostruire i rapporti di forza e le famiglie oggi presenti è molto difficile per due motivi: l’oggettiva estensione del territorio (80 Comuni per 230mila abitanti) e la frammentazione delle vecchie famiglie, ben distanti dalle definizioni standard degli anni Ottanta come “Nuova Camorra Organizzata” o “Nuova Famiglia”.
“Il passaggio che rende più difficile individuare questi aspetti è l’infiltrazione nell’economia legale,” sottolinea Ravveduto, “così come i casalesi controllavano, a suo tempo, il ciclo rifiuti nella provincia di Caserta attraverso società costituite ad hoc.”
“In Cilento i clan si dedicano al commercio, dove le licenze sono relativamente facili da ottenere. Non hanno nessun interesse a controllare le amministrazioni. D’altra parte chi glielo fa fare? Chi mai cercherebbe di condizionare le scelte di un Comune di poche migliaia di abitanti che non ha nemmeno i soldi per la cancelleria? Per questo è difficile ricostruire la mappa dei clan. C’è un passaggio tra economia illegale ed economia legale che ancora non abbiamo colto appieno.”
La più recente dimostrazione delle parole di Ravveduto è negli arresti disposti dalla Dda di Catanzaro nel luglio 2015: 58 ordinanze di custodia cautelare emesse contro altrettanti affiliati del clan Muto di Reggio Calabria, tra cui il boss Francesco Muto, che secondo il procuratore capo Nicola Gratteri “controllava anche il respiro di questi territori”.
I “territori” in questione sono quelli dell’Alto Tirreno, dalla costa cosentina fino al basso Cilento e alle zone interne del Vallo di Diano. “Nei pressi di Sala Consilina – spiegò il pm Vincenzo Luberto – hanno fatto saltare in aria un supermercato il giorno dell’inaugurazione”.
“Il clan arrivava a vessare anche i pescatori – aggiunse il procuratore Gratteri – ordinavano loro che tipo di pesce volevano. Se non era quello indicato, imponevano di ributtarlo a mare. Il pescato veniva poi rivenduto alla grande distribuzione e a tutti i ristoratori della fascia tirrenica e cosentina. Andavano dagli amministratori dei grandi supermercati e imponevano la gestione della pescheria, pena severe ritorsioni.”
L’omicidio Vassallo, avvenuto il 5 settembre 2010, fu il sussulto che fece scoprire un calderone poi subito ricoperto. Ancora oggi quell’assassinio rimane di matrice ignota, benché i sospetti si dirigano su un non meglio precisato movente mafioso. Quel movente che, una volta individuato, potrebbe riscrivere la storia giudiziaria di questo angolo di Campania.
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