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In questo cocktail bar di Roma si bevono drink con vini di frutta pazzeschi

Smile bar roma

“Tutti i nostri drink cambiano quasi ogni giorno, a seconda degli ingredienti che abbiamo trovato al mercato e, oltre a contenere spesso vini di frutta, anche la gradazione alcolica assomiglia più a quella di un vino che di un cocktail.”

Nel mondo dei cocktail, italiani o meno che siano, i trend della sostenibilità dello scarto zero sono ormai imprescindibili.
Ovunque si possono trovare dalle orribili fettine di lime essiccate e pinzate con una mollettina, ai cordiali zuccherini da aggiungere ai drink, per spiegarla in parole semplici.

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Il problema è che solo in rari casi l’utilizzo di scarti è interessante; insomma, quasi mai ha un pensiero e una tecnica come si deve dietro e quasi sempre come scarto si intendono bucce, scorze e via discorrendo.
Fortunatamente c’è chi, però, lo prende sul serio, e c’è un nuovo locale a Roma che non si serve di strumenti sofisticati per creare sapori precisi, mai scontati, che molto raramente si vedono in giro.

Smile Bar, cocktail bar aperto recentemente a Garbatella, a Roma, infatti serve cocktail beverini che quasi sempre uniscono uno spirito o un liquore a vini di frutta fatti in casa utilizzando non scarti di lavorazione, ma scegliendo frutta dai mercati che altrimenti andrebbe buttata.
“L’idea mi è venuta anni fa, quando lavoravo da Romeo, il locale multiforma della chef stellata di Glass Hostaria Cristina Bowerman —che oggi non c’è più, NdR—,” racconta Riccardo Gambino, fondatore del bar Smile (di cui è socia anche il wine bar “La Mescita”, dietro l’angolo).
“A quel tempo avevo iniziato a intripparmi con le fermentazioni lattiche in busta e cercavo con qualsiasi cosa di arrivare a una sorta di vino.”

Si è detto che il progetto è serio, e in effetto lo è, molto, a livello di gusti e complessità. Ma è anche stato pensato per essere accessibile a tutte le persone senza per questo essere impostato o pesante. “Smile non voleva essere solo un nome paraculo,” racconta Riccardo Gambino. “Volevamo veramente che la gente si divertisse, che fosse spensierata.”

”E i cocktail sono studiati sul modello di quelli trash degli anni ‘90,” dice il barmanager Biagio Maurice Gennaro, con un passato di livello anche lui in diversi cocktail bar della capitale. “Il nostro motto è: NO ELOQUENCE. Cioè vogliamo dare al cliente la superficie, non perderci in fronzoli inutili ed essere diretti e accessibili. Tutti i nostri drink cambiano quasi ogni giorno, a seconda degli ingredienti che abbiamo trovato al mercato —che lavoriamo subito— e, oltre a contenere spesso vini di frutta, anche la gradazione alcolica assomiglia più a quella di un vino che di un cocktail.”

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Biagio Maurice e Riccardo Gambino. Foto dell’autore.

Smile è un locale piccolissimo, che si svolge praticamente solo nella piazza circostante. C’è uno smile che sorride, cimeli anni ‘90 e anche un giradischi a disposizione dei clienti che possono mettere la musica che vogliono, a volte bella funk, a volte oscura, sempre universalmente da presa a bene.
I vini di frutta non sono una novità, ma hanno tutto il potenziale per esplodere: in paesi come l’Australia, ma anche a Londra, ci sono già da tempo dei bartender che producono i loro vini di frutta da bere lisci o da mettere nei cocktail. La gamma di sapori non solo è diversa anche se riconoscibile, ma la cosa più bella è che, fatto in maniera selvaggia, un vino di frutta restituisce ogni volta sapori diversi: per la fermentazione stessa, ma anche per la frutta che non è mai la stessa.

“Quando ho iniziato a fare vini di frutta,” mi racconta Riccardo Gambino, “ricordo che usavo un sacco di frutta e passaggi. Oggi ho trovato una quadra per cui mi rifornisco da piccoli fornitori, piccole aziende agricole, mercati rionali e facciamo anche foraging. In tutti questi casi, lo scarto è la parte più pregiata, perché è più facile per la fermentazione. Sono particolarmente fiero del Planet of The Apes, un vino fatto con tre tipologie di banana diverse che si fa tre mesi di affinamento in cantina e tira fuori sapori pazzeschi.”
E gli scarti della fermentazione, invece, non vengono buttati: sono riutilizzati per farne drink analcolici molto fichi.

Da qualche tempo, oltre al trend dello scarto zero e della sostenibilità, stanno però tornando in auge anche cocktail che non pensavamo avremmo rivisto: quelli degli anni ‘80 e ‘90. A New York molti locali servono l’Angelo Azzurro e l’Espresso Martini è uno dei cocktail più bevuti al mondo.
”Gli anni ‘80 e ‘90 della mixology erano sicuramente non il massimo, ma il concetto era quello di divertirsi. Le ricette non erano pretenziose, erano divertenti,” ribadisce Biagio Maurice. “Questo volevamo fare: drinketti che guardassero a quel passato spensierato in chiave più complessa. Ad esempio uno dei cocktail che amo di più è il nostro Mostro Mule”, chiara rivisitazione del Moscow Mule. Qui lavoriamo la vodka con acqua di Zenzero Rosa e Cetrioli Cinesi e un Syrup al Lime Wasabi e la garnish è un cucchiaino con Esplosione di Yogurt a forma di Smile, per ricordare la cultura Indiana del Lassi. Ma ci sono anche drink slegati dalla cultura degli anni ‘90, per esempio ne facciamo uno con basilico, vino di kiwi e cachaça.”

Dopo anni di maniche di camicia tirate su e baffi ottocenteschi, il cocktail bar si sta assottigliando sempre di più, tornando alla dimensione che sempre è appartenuta alla cultura del bar italiano, quella dei bar popolari e dei bar sport. Le tecniche nuove sembrano non essere più al servizio della maniera, ma solo un modo nuovo di ritornare alla leggerezza dei bar di una volta, dove quello che contava di più erano lo stare bene e l’ospitalità.

In questo il nuovo Smile ci becca in pieno.

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