Se siete cresciuti in una piccola provincia italiana in cui non c’è mai un cazzo da fare, avrete quasi sicuramente conosciuto quella tipologia di individuo che passa il 90 percento del tempo a cercare un pretesto per pestare qualcuno.
Quelli che entrano nei locali con la speranza di essere fissati per qualche secondo di troppo, di provarci con una ragazza il cui fidanzato dirà parole sgradevoli, o di venire a sapere che l’amico di un amico di un amico ha avuto problemi con qualcuno a cui deve essere spaccato il naso. Ecco, io sono stato proprio quel genere di persona.
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Sono arrivato qui a dieci anni dal Marocco, e sono cresciuto nella periferia di una piccola provincia del centro Italia, in un quartiere dormitorio con poco meno di 4000 abitanti. Un posto costituito quasi esclusivamente da case popolari, palazzoni grigi di cemento nudo e quei bar con il mobilio ammuffito frequentati da disoccupati che correggono il caffè anche alle sette di mattina. Il genere di posto in cui gli adulti spesso, quando hanno la fortuna di avere un lavoro, non hanno il tempo di badare ai figli—che fin da piccoli hanno molte più libertà della maggior parte dei coetanei.
Nel quartiere ci conoscevamo tutti, e non aveva molta importanza se eri di origini straniere o meno—quasi tutti quelli del mio gruppo, comunque, erano italiani. C’era una specie di identificazione basata sul posto in cui eravamo cresciuti: vicino alle nostre case succedevano cose che gli altri bambini della città non erano abituati a vedere, e ci sentivamo diversi.
Chiariamoci, non è che fosse il tipo di zona disperata in cui non si hanno alternative; diciamo più che altro che è un quartiere in cui nessuno si scandalizza se uno dei tuoi amici ha il padre agli arresti domiciliari, qualcuno durante una lite tira fuori un coltello, o si spaccia eroina sotto casa. E in cui avere un pessimo carattere è considerato quasi una dote.
Abbiamo passato l’infanzia e l’adolescenza a guardare i nostri fratelli o cugini più grandi pestarsi a sangue con ragazzi di altri quartieri o con i gruppi che di tanto in tanto si presentavano nel bar per vendicare qualche rissa passata. In un certo senso abbiamo semplicemente raccolto il testimone, e loro ci hanno insegnato tanti trucchetti utili per queste occasioni: già a 12 anni sapevo che dare un pugno in faccia a qualcuno può fare abbastanza male, ma se il pugno glielo dai stringendo fra le dita un mazzo di chiavi ne fa ancora di più. Questo genere di cose: il fatto che quando eravamo ancora dei bambini andavamo in giro sugli scooter dietro i ragazzi più grandi a farci le canne e parlare di figa (o meglio, ascoltare parlar di figa) mentre i nostri coetanei giocavano a Final Fantasy, ci ha dato una percezione distorta di come dovessero andare le cose.
A scuola i compagni cercavano di starci alla larga, e gli insegnanti ci trattavano come quelli che non avevano alcun futuro e che erano obbligati a tenere in classe soltanto perché esisteva la scuola dell’obbligo. C’erano delle mattine in cui l’insegnate ci spediva direttamente fuori, per stare più tranquilla. Noi gliene davamo spesso motivo, è vero, e delle insegnati malpagate di una scuola pubblica in una piccola provincia non potevano fare più di tanto: ma in quegli anni sentirsi quasi “autorizzati” a lasciarsi andare alla deriva non ha certamente fatto in modo che potessimo anche solo ipotizzare di cambiare.
Non posso dire di ricordare la prima volta che ho fatto a botte, ma ricordo che fin dalle prime volte mi sono accorto di essere bravo: anche se non sono mai stato molto alto ero piuttosto grosso e veloce, e soprattutto non avevo paura di prenderle.
Quando litighi con qualcuno ti accorgi subito di chi dei due ha più paura di farsi male, ed è tutto lì il trucco per vincere uno scontro. Una sera ho preso a calci in testa un ragazzo albanese fuori da un locale; non ricordo nemmeno per quale motivo avessimo litigato, e due giorni dopo lui e i suoi amici si sono presentati in otto fuori dal bar dove uscivo. La cosa veramente pericolosa di avere a che fare con loro, in quegli anni, è che quando tornavano erano sempre di più. Ne pestavi uno? Tornavano in otto. Ne pestavi otto? Tornavano in 16. Avevano sempre qualche fratello o cugino in più. Quella volta eravamo solo in tre, ed è stata la prima che mi hanno spaccato il naso.
Ma non mi sono mai tirato indietro, e presto questa cosa nella mia città la sapevano tutti: non ero soltanto uno che si incazzava facilmente, ero uno che “non aveva niente da perdere.” Ho passato un periodo della mia vita in cui picchiavo la gente quasi su commissione—se il fratello di un mio amico aveva un problema con un tizio a scuola io mi presentavo all’uscita, e dopo aver parlottato un po’ gli tiravo un paio di schiaffi. Se non reagiva era stata una giornata persa, se invece tentava di rendermeli lo pestavo di più.
Certe sere invece, quando non c’erano quelli che venivano a cercarci o compagni di scuola da raddrizzare, ci andavamo a trovare i problemi da soli. Una volta un mio amico si è inventato di sana pianta che un tizio in una pizzeria al taglio l’aveva guardato male, perché si stava annoiando, e abbiamo aspettato lui e il suo gruppo fuori dal locale. Visto che il tipo continuava a negare di averlo anche solo guardato, il mio amico ha cominciato a chiamare puttane le sue amiche; loro hanno reagito, e non è difficile immaginare come sia finita.
Ma pestare la gente non è l’unica cosa che facevamo. Eravamo diventati quasi dei maestri nel fregare i motorini. Non è che ci voglia troppo: alzi la carena frontale, stacchi il filo che collega l’accensione all’attacco delle chiavi e poi metti in moto con la pedalina. A 16 anni avevamo già tutti lasciato la scuola, quindi la mattina ci alzavamo, prendevamo il tram fino a uno dei paesini vicini in cui i ragazzi lasciavano gli scooter davanti a un bar prima di andare a scuola, e li fregavamo. Poi andavamo in giro fino a finirgli la benzina. A volte li riportavamo dove li avevamo presi, a volte non ne avevamo voglia e li lasciavamo in giro.
Fintanto che eravamo minorenni la verità è che non rischiavamo niente: i carabinieri mi hanno riaccompagnato a casa talmente tante volte che molti mi chiamavano per nome. Mia madre tentava di farmi delle prediche, ma la verità è che non aveva molte armi a disposizione per cercare di dissuadermi: mi piaceva troppo far parte di quel gruppo, sapere che gli altri ragazzi avevano paura di noi. Non che voglia dare colpa lei—mio fratello più piccolo non si è mai messo nei casini, ha sempre studiato e frequentato persone tranquille. Siamo cresciuti nello stesso posto e con gli stessi genitori, eppure siamo due persone totalmente diverse. La verità è che tutto quello che mi è successo me lo sono cercato, e anche piuttosto accanitamente devo dire.
I problemi veri però sono iniziati a 18 anni: da qual momento i carabinieri delle nostre parti ci hanno fatto pagare tutti i casini che avevamo combinato negli anni, e io venivo perquisito ogni volta che ne avevano l’occasione. Marino, un ragazzo peruviano con cui sono cresciuto, è stato beccato dagli sbirri con dell’eroina sotto la sella del motore. Aveva cominciato a fumarla, e per pagarsela doveva spacciarla. Quando l’hanno fermato ha tentato di aggredire i carabinieri, e quando hanno perquisito casa sua ne hanno trovata molta di più. È stato il primo di noi a prendere una condanna seria, ma dopo di lui ne sono arrivate molte altre.
I miei sapevano che nel frattempo avevo iniziato a spacciare, e per tentare di salvarmi hanno deciso di spedirmi a lavorare da uno zio in Piemonte. Dopo appena tre mesi ho cominciato a spacciare anche lì, e quando mio zio ha scoperto che sotto il mio letto tenevo tre panette di polline ha deciso che potevo anche tornarmene a casa. Dopodiché ho vissuto il mio periodo peggiore: i miei due migliori amici erano in galera, altri li avevo persi di vista, e spesso passavo le giornate da solo, a casa, a giocare a poker online. Non avendo un lavoro l’unico modo per mantenermi era spacciare, ma avevo cominciato a fumare eroina anche io e quindi non è che guadagnassi poi tanto. Cominciai a rubare cose di mia madre per rivenderle, e quando mio padre lo venne a sapere mi cacciò di casa. Sono stato da mio cugino per qualche mese, finché non mi ha convinto a entrare in comunità, da cui sono uscito un anno fa.
Uscendo dalla comunità ho sperimentato per la prima, vera, volta il fastidio di essere etichettato a priori come qualcuno con cui era meglio non avere a che fare. Una cosa che fino a quel momento era stata quasi un motivo di orgoglio—mi lamentavo spesso dei pregiudizi nei miei confronti, ma la verità è che fino ad allora non me ne era mai fregato niente.
Oggi so anche un’altra cosa: è un po’ una stronzata il fatto che crescere per strada ti fa maturare prima. Ripensando a tutti questi anni, invece, credo che l’unica cosa che ci sembrava di capire è che se non ci fregava niente delle conseguenze, allora avremmo potuto fare qualsiasi cosa. E l’ho fatto per anni. Ora lavoro nel panificio di un amico, e da qualche mese frequento una ragazza che mi ha convinto a mettermi a posto. Quasi tutte le persone che ho frequentato nella mia vita, invece, continuano a uscire nel solito bar, e a essere quel tipo di persona di cui si deve avere paura. Contando il fatto che a 28 anni non ho avuto nemmeno un processo, mi ritengo quasi un miracolato.
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