Questo contenuto è stato realizzato in collaborazione con adidas Originals e Santeria Toscana.
Nell’industria musicale, non c’è forse segreto meglio custodito di quello che riguarda le etichette indipendenti. All’esterno, i semplici appassionati di musica potrebbero scambiare queste realtà per un semplice elemento del quadro come tutti gli altri, un’ombra dipinta sullo sfondo, un personaggio di secondo piano che attira il nostro sguardo per un attimo, la massa di luce che piomba sul protagonista e regala volume alla scena.
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Certo, forse è un pelo azzardato paragonare l’industria musicale nostrana a un quadro, tanto più se in mente si hanno i contrasti esasperati e la tridimensionalità delle opera di Caravaggio. Eppure, aiuta a comprendere realmente quale sia l’apporto che le label indipendenti donano alla scena: proprio come gli elementi sopra citati, infatti, sembrano secondari rispetto al soggetto principale del quadro mentre, invece, ne plasmano la sostanza.
Le label indipendenti plasmano la sostanza di tutta la scena.
Per questo motivo, in occasione della Milano Music Week di quest’anno e in collaborazione con Santeria e adidas Originals, abbiamo voluto organizzare una chiacchierata con alcune delle realtà discografiche della scena, nello specifico di tre etichette di cui abbiamo parlato spesso per meriti musicali e creativi. In ordine rigorosamente alfabetico, Bomba Dischi, Thaurus e Undamento.
Durante la Music Week, quindi, ci troverete in quel di Santeria T31 per una tre giorni dedicata—dal 19 al 21 novembre—, che comprende masterclass e panel su Twitch, oltre allo spazio virtuale “New Attitude” con esibizioni dal vivo di alcuni artisti delle etichette, che verranno anche intervistati dalla nostra redazione. Per ogni informazione in merito puoi fare riferimento a questo link, e goderti invece nel frattempo la nostra chiacchierata con le singole etichette: un’occasione d’oro per svelare tutto quello che si cela nel mondo delle indipendenti e capire da dove arriva la tridimensionalità di Caravaggio. Pardon, della scena!
BOMBA DISCHI
Noisey: Cosa vi ha spinto a scegliere di aprire un’etichetta discografica?
Bomba Dischi: Nel 2004 Davide andava in bici a fare il cameriere per comprarsi lo Scarabeo 50, nel 2006 andava con lo Scarabeo 50 a consegnare le pizze per comprare l’SH 150 perché poteva andare sulla tangenziale per poter arrivare al Circolo Degli Artisti, poi si è venduto l’SH 50 e ha comprato il Cubo per andare in tour con le band. Cosa ci ha spinto ad aprire un’etichetta? La necessità di un costante upgrade nei mezzi di locomozione.
Quando avete preso la decisione e da chi era composta la squadra iniziale?
L’uscita del primo disco de I Cani per 42 Records ha palesato la possibilità anche per chi non avesse gli stessi mezzi delle major di poter arrivare ad un pubblico molto vasto. All’inizio oltre a noi quattro c’erano anche Daniele Babbo aka Dandaddy e Lorenzo Muto.
Come vi siete divisi i ruoli e le mansioni? Chi faceva cosa?
Davide ha portato il pallone quindi è stato messo in attacco. Emmanuele essendo il più serio ed affidabile è stato messo in porta, ma il segreto di tutte le squadre è il centrocampo dove giocano Alessandro e Brizio.
Quali sono stati i primi passi pratici per realizzare l’opera?
Lo sapete che una partita iva per diventare editore deve essere iscritta alla classe degli artigiani e pagare tremila euro? Noi sì.
“Ci piacerebbe trasmettere all’esterno l’idea di boutique label, cioè di fare un lavoro sartoriale sugli artisti, quasi sempre emergenti, con cui cominciamo a lavorare.”
C’è stato un momento di sconforto in questa prima fase e quali le prime vere e grandi difficoltà?
Se reputiamo sconfortante non fare un euro e non avere alcun successo di pubblico, allora sì, ed è durato più di qualche anno.
Come avete allargato la squadra e quali sono i primi artisti che avete scelto di produrre?
Non saremmo nulla oggi senza Eleonora Muoio ed Alberto Paone Drums. Il primo disco che abbiamo prodotto è stato un EP dei Boxerin Club.
In base a cosa decidete chi pubblicare?
Deve piacere a Giorgio Poi.
Qual è stato quello che voi reputate il vostro primo grande successo come label?
Mainstream del poro Calcutta.
“Cercate la vostra Ariete nel firmamento e fatela vostra.”
Quali sono gli step necessari per pubblicare un disco?
I dischi?! Cosa?! 2021?!
Quali sono le caratteristiche fondamentali della vostra etichetta? Qual è invece il disco, pezzo, EP o altro che meglio vi racconta?
Ci piacerebbe trasmettere all’esterno l’idea di boutique label, cioè di fare un lavoro sartoriale sugli artisti, quasi sempre emergenti, con cui cominciamo a lavorare. Impossibile rispondere alla seconda parte della domanda, i “figli” sono tutti piezz e core.
E se invece vi chiedessimo di individuare tre momenti chiave del vostro percorso, di qualsiasi tipo, che cosa ci raccontereste?
Inizio anni Ottanta nasce a Cosenza Alessandro Ricci. Fine anni ottanta a Sezze (LT) nasce Edoardo D’Erme, in arte Calcutta. Inizio duemila nascono, rispettivamente a Roma e a Napoli, Alessio Akira Aresu e Marco De Cesaris, meglio conosciuti come Lil Kaneki e Drast degli Psicologi.
Quanti dischi avete prodotto fino a oggi? Quale quello di cui siete fieri o più legati?
Abbiamo prodotto una trentina di dischi, ma siamo affezionati soltanto a La Malanoche di Francesco De Leo.
“Abbiamo prodotto una trentina di dischi, ma siamo affezionati soltanto a La Malanoche di Francesco De Leo.”
Cosa fate per promuovere e sostenere i vostri artisti, come funziona?
Scriviamo a tutti che escono con l’etichetta di Pop X.
Se fosse possibile tornare indietro nel tempo, aprireste ancora la vostra etichetta? E con quali motivazioni?
Certo che la apriremmo, anche solo per il privilegio di lavorare il meno possibile per passare più tempo possibile con la più grande penna che abbiamo in Italia, il maestro Franco126.
Quali sono i consigli fondamentali che dareste a chi vuole aprirne una?
Cercate la vostra Ariete nel firmamento e fatela vostra.
THAURUS
Noisey: Cosa vi ha spinto a scegliere di aprire un’etichetta discografica?
Shablo: Diciamo che aprire un’etichetta discografica è stata un po’ la naturale evoluzione del mio percorso artistico. Già verso la fine degli anni ’90 ho cominciato a produrre alcune uscite da indipendenti. Negli anni in cui vivevo a Bologna e mi dedicavo principalmente al mio lavoro di produttore musicale ho iniziato ad avvicinarmi ad altri aspetti della musica, che con l’esperienza di Roccia Music, fondata con Marracash, si è poi consolidata, dando vita a diversi progetti e scoprendo innumerevoli talenti. Ancora oggi è attiva un’altra etichetta da me fondata che si chiama “Avantguardia”, dedicata a progetti più sperimentali, con un occhio particolare all’arte contemporanea. Negli anni ho avuto diverse esperienze di consulenza, di cui una attuale come A&R di Island Records, con cui ho firmato tutti gli artisti in cast che gestisco personalmente da Sfera Ebbasta ad Elettra Lamborghini. Tutte queste strade intraprese precedentemente e tutte le esperienze maturate negli ultimi ormai vent’anni ci hanno portato a quelle che oggi sono due realtà particolarmente produttive come Thaurus Music e BHMG.
Quando avete preso la decisione e da chi era composta la squadra iniziale?
Non è semplice poter identificare con un momento preciso la circostanza che ci ha portato a prendere questa decisione, è stato in realtà un lungo percorso, che ci ha permesso di passare da quelle che erano delle esperienze più amatoriali a quello che è diventato ad oggi il nostro lavoro. Tutti le esperienze del passato sono state motivo di sprono e ci hanno dato la voglia di evolverci, rendendoci più consapevoli e con la voglia di strutturarci in maniera più professionale, grazie al confronto con altre strutture, grazie alle collaborazioni con una major come Universal, grazie ai riferimenti a realtà estere indipendenti più settoriali, con una spiccata dedizione al mondo rap. Quando abbiamo cominciato, tutto ruotava intorno alla figura di due/ tre persone, per lo più creativi, mentre io mi sono sono da sempre occupato della parte più operativa e burocratica, essendo un produttore e quindi abituato a lavorare dietro le quinte.
“Il successo di un’etichetta è basato principalmente sulla musica, la cosa fondamentale è e sarà sempre la ricerca di talenti e la proposta sul mercato di un’offerta originale che fino a quel momento non esiste.”
Come vi siete divisi i ruoli e le mansioni? Chi faceva cosa?
In un primo momento in cui non eravamo ancora strutturati chiaramente tutti facevano un po’ tutto, dato che si operava con evidenti limiti non avendo a disposizione delle grandi risorse economiche. Per cui spesso chi si occupava del contatto con gli artisti era la stessa persona che prendeva delle decisioni sulla parte grafica e visuale, fino ad occuparsi dei rapporti con la SIAE quando bisognava stampare i bollini per i CD. La rivoluzione vera e propria è arrivata con il digitale perché ha semplificato tutto il processo permettendoci di caricare e quindi di distribuire la nostra musica in tutto il mondo in maniera autonoma. Da quel momento in poi e grazie anche alla crescita esponenziale del mercato abbiamo potuto permetterci di allargare il team, in modo da poter definire i ruoli per lavorare in maniera più serena ma soprattutto più efficace.
Quali sono stati i primi passi pratici per realizzare l’opera?
Il successo di un’etichetta è basato principalmente sulla musica, la cosa fondamentale è e sarà sempre la ricerca di talenti e la proposta sul mercato di un’offerta originale che fino a quel momento non esiste. Solo dopo la musica arriva tutto il lavoro su come presentare l’offerta al pubblico e come comunicare al meglio tutto l’universo e l’immaginario che si cela dietro a un progetto, attraverso il marketing, la promozione e le partnership con altre realtà che vanno a sviluppare l’idea dell’artista, rendendolo un prodotto discografico.
C’è stato un momento di sconforto in questa prima fase e quali le prime vere e grandi difficoltà?
I momenti di sconforto sono naturali, sarebbe strano il contrario soprattutto per chi come noi, operando da diverso tempo nel settore, ha vissuto anche quei momenti in cui ancora non c’era un vero e proprio business dietro al mercato discografico. Il solo modo che avevamo per presentare il nostro punto di vista e mostrare quella che era la nostra visione artistica era investire nei progetti che sposavamo, e così è stato almeno per i primi anni. Inutile negare che ci fosse dello scoraggiamento, visto e considerato che il nostro era praticamente un lavoro non retribuito. Ci siamo chiesti più volte se fosse veramente giusto continuare a dedicarcisi oppure cambiare totalmente direzione. Ma la perseveranza unita a una chiara visione ripaga, sempre.
Come avete allargato la squadra e quali sono i primi artisti che avete scelto di produrre?
Essendo una realtà a 360 gradi, già attiva negli ambiti di booking e management, abbiamo fin dal principio goduto della fiducia, dunque della possibilità concreta, di collaborare con artisti che hanno realmente scritto e contribuito a plasmare la storia di questo genere in Italia. Negli anni successivi abbiamo continuato ad accogliere e supportare all’interno della nostra realtà gli artisti che avevano qualcosa di unico, innovativo e personale da apportare al panorama musicale urban. Abbiamo scommesso per primi, crescendo insieme ad essi, sulla nuova scuola emersa nel biennio 2015–2016, in un momento in cui nessuna major aveva ancora iniziato a intravedere dunque a supportare il potenziale della trap in Italia. Parliamo quindi di Rkomi, di Ernia, Izi, Tedua, fino a Sfera Ebbasta e Charlie Charles. Abbiamo prodotto, prima da indipendenti e poi con il supporto delle major, album di culto che ad oggi si collocano di diritto nell’olimpo dei più grandi successi del genere.
“Abbiamo scommesso per primi sulla nuova scuola emersa nel biennio 2015–2016, in un momento in cui nessuna major aveva ancora iniziato a intravedere dunque a supportare il potenziale della trap in Italia. Parliamo quindi di Rkomi, di Ernia, Izi, Tedua, fino a SferaEbbasta e Charlie Charles.”
Negli anni – tra le svariate figure e i numerosi professionisti con cui abbiamo avuto il piacere di collaborare – quelli che sono rimasti, sono senza ombra di dubbio la base solida su cui si fonda oggi la nostra realtà, e senza i quali e le quali Thaurus non esisterebbe per come la conoscete. Nell’ultimo anno poi, la squadra è stata ulteriormente allargata grazie alla partnership con Universal e Island che hanno da subito creduto nel progetto Thaurus Music. Queste collaborazioni ci hanno dato la possibilità di perfezionare la struttura e dedicare professionalità e competenze a più progetti, investendo su nuovi artisti in cui crediamo fortemente.
In base a cosa decidete chi pubblicare?
Per noi è fondamentale proporre sul mercato progetti che siano unici, riconoscibili, originali. Non è indispensabile solo il talento, ed è proprio per questo che siamo alla costante ricerca di forti identità.
Qual è stato quello che voi reputate il vostro primo grande successo come label?
È una domanda particolarmente insidiosa, poiché tutti i progetti, dai più ai meno affermati, hanno avuto una forte risonanza non solo a livello di classifiche, dove comunque si sono sempre piazzati, anche se esordienti. Il vero successo per noi è affrontare il percorso di crescita insieme agli artisti e vedere quelle che fino a pochi mesi prima erano solo delle idee, concretizzarsi.
Quali sono gli step necessari per pubblicare un disco?
All’interno di ogni etichetta, come dicevamo, ci sono diverse figure competenti. Tutto parte dall’ A&R, che ha il compito di filtrare le innumerevoli proposte che un’etichetta riceve quotidianamente e scovare quei progetti che spiccano per originalità, per poi proporli al resto del team. Dopodiché è fondamentale selezionare quali figure affiancare all’artista per supportarlo non solo nel processo creativo ma anche nello sviluppo di una strategia comunicativa e promozionale che dia la giusta risonanza a ciascun progetto.
“Quello che caratterizza la nostra etichetta è il focus preciso sul rap, che andiamo a declinare in tutte le sue sfaccettature. Non è un caso che ogni nostro singolo artista abbia il suo stile inconfondibile.”
Quali sono le caratteristiche fondamentali della vostra etichetta? Qual è invece il disco, pezzo, EP o altro che meglio vi racconta?
Indubbiamente quello che caratterizza la nostra etichetta è il focus preciso sul rap, che andiamo a declinare in tutte le sue sfaccettature. Non è un caso che ogni nostro singolo artista abbia il suo stile inconfondibile, spaziando non solo nel sound, ma anche nella stesura dei testi. Ed è proprio questa varietà di proposte che, pur lontane tra di loro, risultano al tempo stesso fortemente coerenti ad identificare Thaurus Music. Questa eterogeneità si rispecchia anche nel nostro team, ed è quindi inevitabile che ognuno di noi sia legato particolarmente ad un brano, ep, disco o progetto differente. Per cui sceglierne uno che ci racconti non è possibile, la risposta varierà a seconda di a chi rivolgiamo la domanda.
E se invece vi chiedessimo di individuare tre momenti chiave del vostro percorso, di qualsiasi tipo, che cosa ci raccontereste?
Sulla base di quella che è la nostra esperienza possiamo sicuramente individuare una prima fase in cui si ha una chiara visione da presentare al mondo, caratterizzata dall’ingenuità che solo la passione per quello che facciamo, ti può regalare. Poi c’è una seconda fase in cui ci si rende conto che effettivamente questa vocazione può diventare un bussiness, e si cerca in tutti i modi di diventare il più professionali possibile, informandosi, studiando, e a volte improvvisando. Il terzo momento è stato indubbiamente quello del riconoscimento: quando il mercato ci ha premiato, portando i nostri artisti in cima alle classifiche, riconoscendoci lo status di realtà e di genere influente nel panorama musicale nazionale. Quando è stato chiaro che tutti gli sforzi, le cadute e gli inevitabili errori commessi lungo il percorso, ci avevano condotto alla meta prefissata, all’aver contribuito alla diffusione e all’affermazione di un genere di nicchia come lo è stato il rap nel nostro paese. La strada da percorrere è ancora lunga e i nuovi obiettivi da raggiungere molteplici, ma oggi l’Italia esiste sulla mappa globale del genere.
Quanti dischi avete prodotto fino a oggi? Quale quello di cui siete fieri o più legati?
Fino ad oggi come Thaurus abbiamo prodotto e collaborato alla realizzazione di oltre 30 dischi, tra indipendenti e major. Abbiamo collezionato dischi d’oro, dischi di platino e multi-platino, e ognuno di essi per noi è motivo di orgoglio e fierezza. Abbiamo mosso a fianco degli artisti ogni singolo passo che ha portato alla realizzazione dei progetti commercializzati, cercando di guidarli nel migliore dei modi, senza mai imporre le nostre visioni. Ogni disco, così come ogni singolo, è frutto di processi e di dinamiche che vanno davvero al di là dell’aspetto meramente lavorativo e professionale, tali per cui è imprescindibile lo stabilirsi di legame umano profondo con ciascun artista, con ciascun team di lavoro, per ciascun singolo progetto.
Cosa fate per promuovere e sostenere i vostri artisti, come funziona?
Non esiste un modus operandi, o una formula unica e corretta in sé che è possibile applicare con successo ad ogni singolo progetto. Il nostro team si compone di diverse figure, che ricoprono ruoli definiti e tra loro complementari e che a seconda del tipo di lavoro valuta, crea e stabilisce in comune accordo in primis con gli artisti, e poi con i nostri partners, la strategia comunicativa e visuale più efficace.
“Fino ad oggi come Thaurus abbiamo prodotto e collaborato alla realizzazione di oltre 30 dischi, tra indipendenti e major. Abbiamo collezionato dischi d’oro, dischi di platino e multi-platino, e ognuno di essi per noi è motivo di orgoglio e fierezza.”
Se fosse possibile tornare indietro nel tempo, aprireste ancora la vostra etichetta?
La risposta, ovviamente, è sì. Alla base di tutto la certezza che quello che oggi abbiamo costruito è sempre stato per noi il goal da raggiungere, l’ambizione da sublimare. L’amore nei confronti di questo genere prima, e di quello che possiamo chiamare con orgoglio il nostro lavoro oggi, fa sì che ogni singolo disco, ogni singolo quadro o certificazione appeso al muro dei nostri uffici, sia la conferma tangibile di un’idea che un tempo sembrava essere un’utopia. Il rap ha finalmente in Italia i palcoscenici e l’audience, in senso tangibile quanto astratto, che abbiamo sempre saputo, e creduto, meritasse e potesse raggiungere. La motivazione è data dalla volontà di portare la nostra personale visione a questo mondo e dalla possibilità di supportare concretamente gli artisti in cui abbiamo sempre creduto nella realizzazione della loro arte e dei loro progetti.
Quali sono i consigli fondamentali che dareste a chi vuole aprirne una?
A costo di ripeterci: alla base di tutto c’è l’amore sincero, la passione reale nei confronti di questo genere. Il guadagno arriva sempre dopo, ed è una meccanica conseguenza dell’aver lavorato bene. Chi oggi apre un’etichetta, lo fa perché ha la effettiva necessità di lavorare a 360 gradi dei progetti musicali, si tratta di un passaggio graduale, di un punto di arrivo e non di partenza. Nel nostro caso infatti si è trattato della naturale evoluzione di ciò che già facevamo: curavamo il booking, il management e le edizioni dei nostri artisti, eravamo pronti per questo passo ed eravamo strutturati in maniera tale da poterlo sostenere. Il tempismo è fondamentale – non bisogna avere fretta, è giusto darsi il tempo di lavorare, crescere, sbagliare e ricominciare – così come lo è il team. Le persone, dai collaboratori agli artisti, in questo ambito come in tutti quelli connessi all’arte, sono il vero capitale.
UNDAMENTO
Noisey: Cosa vi ha spinto a scegliere di aprire un’etichetta discografica?
Tommaso Fobetti: Undamento nella sua stranezza è sicuramente figlia della mia esperienza ed è stata una continua evoluzione nella sua forma, iniziata nel periodo delle crew hip-hop di inizio millennio. Con i componenti del gruppo avevamo creato una rete di contatti che prese forma in un collettivo di persone sparpagliate in diverse zone d’Italia. Andare in giro a suonare era quasi una scusa per beccarsi tutti. Eravamo ancora giovani ma presto arrivò gente ancora più giovane, tipo Frahone o Ceri o Adamo, così aprimmo questa cosa che nella nostra testa doveva essere una label ma che in realtà era solo un account su MySpace su cui caricavamo pezzi. Qualche anno dopo arrivammo a una maggior consapevolezza e i nuovi contatti ci trasformarono in un nuovo nome, con un nuovo logo, nuove piattaforme e nuovi account. Facevamo tirature limitate dei dischi in packaging artigianali, organizzavamo concerti e suonavamo in giro. Nel mio periodo universitario, dopo un master, finii poi a fare uno stage in una major e poi iniziai a lavorare in un’etichetta indipendente importante. Lì credettero nella mia visione e con la scusa di un approccio più serio e professionale nacque una realtà più strutturata e ancora una volta un nuovo nome, un nuovo logo, nuove piattaforme e nuovi account. Nacque così Undamento, nella sua prima forma embrionale.
Quando avete preso la decisione e da chi era composta la squadra iniziale?
Non è stata una decisione presa a tavolino, il nucleo centrale s’è formato strada facendo. Con Adamo, il nostro grafico-illustratore, siamo amici dai tempi del liceo, Frah prima e poi Ceri li ho conosciuti qualche anno dopo. Quando incontrai Tommaso Biagetti era probabilmente ancora minorenne ed eravamo a un concerto a Bologna e poco dopo lo ribeccai a uno in Calabria, per dire. Anche con Dutch Nazari ci siamo conosciuti in quegli anni di live nei centri sociali e battle di freestyle.
“Non per dare scontata una conditio sine qua non quale la presenza di un roster, elemento ovviamente fondamentale per un’etichetta discografica, ma forse questo era l’unico problema che non avevamo: c’erano già artisti in cui credevamo, eravamo noi.”
Come vi siete divisi i ruoli e le mansioni? Chi faceva cosa?
Diciamo che siamo un sistema fluido o quanto meno ci proviamo. Ognuno di noi ha delle caratteristiche, dei gusti e delle capacità specifici ma cerchiamo di non limitarci e quindi a seconda dei progetti ciascuno assume delle responsabilità e dei ruoli differenti. Fatte le dovute premesse, oggi a chi ce lo chiede diciamo che Undamento è composta da: Tommaso Fobetti (A&R), Tommaso Biagetti (Comunicazione), Valentina Bracchi (Ufficio stampa), Alessandro Scagliarini (Booking) e Sara Olivetti (Produzione).
Quali sono stati i primi passi pratici per realizzare l’opera?
Non per dare scontata una conditio sine qua non quale la presenza di un roster, elemento ovviamente fondamentale per un’etichetta discografica, ma forse questo era l’unico problema che non avevamo: c’erano già artisti in cui credevamo, eravamo noi. Gli sbatti che abbiamo dovuto affrontare erano meno legati al lato artistico e magico del lavoro ma molto più concreti: trovare un posto in affitto per avere una nostra base e di conseguenza trovare i soldi per pagare almeno il primo semestre, aprire una società, i contratti di distribuzione, etc. Tutte cose necessarie per creare e dare vita ad un’etichetta indipendente.
C’è stato un momento di sconforto in questa prima fase e quali le prime vere e grandi difficoltà?
Uno sconforto ricorrente è quello di cercare di proporre una musica diversa dagli stilemi esistenti. Anche perché, e ci teniamo a sottolinearlo, non ci è mai interessato né mai ci siamo auto imposti di essere non-catalogabili in un genere preciso. Questo in Italia porta sia gli ascoltatori che i media a essere confusi. Ma a noi la diversità e l’originalità entusiasma, per cui non capiamo molto. Ad esempio quando uscì “8 miliardi di persone”, che comunque veniva dopo “Colpa del vino” e l’EP 2004, nei primi giorni fece i famosi <1000 stream. Eppure eravamo così sicuri di avere tra le mani qualcosa di importante, non capivamo cosa non funzionasse… Ma non abbiamo mollato e abbiamo continuato a pubblicare ciò che ci gasava, e alla fine i risultati sono arrivati.
Come avete allargato la squadra e quali sono i primi artisti che avete scelto di produrre?
Il primo esterno (se così lo possiamo chiamare) che s’è fidato di noi è stato Coez, ed è stato anche grazie al suo approccio che la faccenda è diventata così seria. Oltre ai già più volte menzionati aggiungo sicuramente David Blank a cui abbiamo prodotto un bellissimo EP e Patrick Benifei con la nostra prima avventura in radio. Gli altri fanno ancora tutti parte della nostra magica avventura.
“Uno sconforto ricorrente è quello di cercare di proporre una musica diversa dagli stilemi esistenti. Anche perché, e ci teniamo a sottolinearlo, non ci è mai interessato né mai ci siamo auto imposti di essere non-catalogabili in un genere preciso. Questo in Italia porta sia gli ascoltatori che i media a essere confusi.”
In base a cosa decidete chi pubblicare?
A facile rischio di sembrare retorici, decidiamo principalmente sulla base di 2 elementi: 1. se ci piace la musica 2. se dall’altra parte c’è un’artista, cantante o musicista che condivide la nostra visione rispetto alla musica e noi la sua. Per un approccio come il nostro è assolutamente necessario essere entusiasti di un progetto per lavorarci sopra. Se un disco non ti piace così tanto da ascoltarlo nel tempo libero, se le persone che hanno scritto e lavorato a quel disco non ti piacciono così tanto da uscirci per fare serata fino a diventare amici, allora forse diventa un lavoro come un altro e per noi non lo è e non vuole esserlo.
Qual è stato quello che voi reputate il vostro primo grande successo come label?
Sicuramente e assolutamente Faccio un casino di Coez, certificato triplo disco di platino e al cui interno si trova “La musica non c’è” che da sola ne ha fatti 8, di platino. E grazie ancora Silvano della fiducia!
E se invece vi chiedessimo di individuare tre momenti chiave del vostro percorso, di qualsiasi tipo, che cosa ci raccontereste?
Il primo è “Colpa del vino”, uscito a marzo 2016, è stato il primo brano pubblicato da Undamento come vera e propria società, il primo ISRC. Un amico di un amico vendeva casa e l’aveva spogliata di quasi tutto, così per il video decidemmo di organizzare un festone e lasciare delle Kodak usa e getta a disposizione di tutti. A parte che la festa è stata una bomba, dopo due volte che abbiamo girato il playback tutti i partecipanti sapevano già la canzone a memoria. Fu in quel momento che capimmo che il pezzo funzionava! Anche se in realtà non ha poi davvero funzionato sin da subito. Quando abbiamo sviluppato le fotografie ci si è aperto un mondo, che ha definito poi la nostra estetica negli anni a seguire (e forse anche quella di molti altri, LOL!).
Per quanto riguarda il secondo, avevamo grandi aspettative per il lancio del primo singolo dell’album “Faccio un casino” e decidemmo di organizzare una diretta Facebook con il brano eseguito live in studio da Coez e Nicolò Contessa. Tante bottiglie di vino rosso ad allungare l’ansia e qualche problema tecnico di troppo ma alla fine fu un momento davvero molto fico: “ce l’avevamo fatta”, tipo la pubblicità del Montenegro dopo che recuperano l’antico vaso. Quell’esperienza credo ci abbia resi tutti più maturi. Il terzo è probabilmente il THE BACKSTAGE CHRONICLES. Una mostra fotografica / serata che abbiamo organizzato al Tempio del Futuro Perduto per celebrare non solo il disco Regardez Moi di Frah Quintale ma tutti noi, la nostra estetica, la nostra visione sulla vita, sulla musica, sull’amicizia e sul lavoro. Un giorno veramente magico.
“La nostra missione sul pianeta terra non è ancora ultimata!”
Quanti dischi avete prodotto fino a oggi? Quale quello di cui siete fieri o più legati?
Abbiamo fatto uscire più di una ventina tra dischi ed EP. Faccio un casino e Regardez Moi/Lungolinea ci hanno reso sicuramente molto fieri ma sia Coez che Frah venivano da un percorso lungo, ci sono dentro tanti anni di lavoro pregresso. Ora abbiamo anche altri progetti più nuovi a cui siamo già molto legati e che speriamo arrivino ad un pubblico più grande.
Se fosse possibile tornare indietro nel tempo, aprireste ancora la vostra etichetta?
Be’, sì. Allora decidemmo di aprire una nostra label perché la musica che i media e le radio pompavano e spingevano ci suonava vecchia… e diciamo che ci faceva pure abbastanza schifo. Avevamo un nostro gusto e un mondo di cose da raccontare. Direi che non è cambiato se non poco, quindi la nostra missione sul pianeta terra non è ancora ultimata!