ll mio blog fa schifo. Esteticamente, dico. Uno sciatto tema standard di WordPress. E questo vale quasi per ogni altro angolo dell’internet oggi. L’aspetto del profilo Twitter è standard, mentre su Instagram tutto ciò che hai sono la griglia di foto e i pochi striminziti caratteri nella bio e sotto ai post. La comodità di questi strumenti sta appiattendo e uniformando il web—e con lui anche il modo di ognuno di esprimersi—ma forse c’è un antidoto: coltivare un giardino digitale.
Secondo un recente articolo del MIT Technology Review, sempre più persone stanno creando dei siti personalizzati che cercano di evitare il classico aspetto uniforme dei social media e sono lontani dalla struttura classica dei blog. Si tratta di veri e propri giardini digitali: spazi tranquilli in cui riflettere, raccogliere i propri pensieri e dare forma alle proprie passioni, lontano dal flusso incessante dei feed social.
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Ne esistono di ogni tipo: pagine dedicate ai musei, liste di letture sul pensiero filosofico e politico; affascinanti e stupende raccolte di libri; appunti su politica e cambiamento climatico; cartelle con note e appunti che anziché essere chiuse in qualche cassetto in camera finiscono online, con fili e rimandi a collegare la miriade di semi gettati qua e là; o persino “una borsa di magia” che contiene temi che vanno dall’Antropocene alla Data Science. Ci sono già tentativi di stilare liste di quanti più giardini possibili e sub su Reddit per far ritrovare gli appassionati e condividere suggerimenti e strumenti utili.
Tutti questi giardini digitali hanno due aspetti in comune: la libertà di introdurre forme e grafiche nuove—sporcandosi direttamente le mani con il codice HTML—e il ruolo centrale dell’organizzazione del flusso delle informazioni grazie a link e tag creati appositamente.
Se pensi al web come a un analogo dell’ambiente cittadino in cui viviamo, allo stato attuale il piano regolatore urbano è imposto da Facebook, Instagram, Medium, Twitter e tutti gli altri social: i palazzi devono essere di una certa altezza, con un predeterminato numero di finestre per facciata, e i colori che si possono utilizzare sono ridotti al minimo.
Puoi appendere qualche ritaglio di giornale alle finestre, ma non cambiare la struttura generale. E questo ha anche un effetto sul modo di ognuno di interagire con le informazioni.
L’appiattimento della forma del web, infatti, rischia di schiacciare anche i contenuti: per quanto cerchi di scattare immagini brutte per trasmettere la tua vita in presa diretta, la griglia di Instagram è confinante. E per quanto cerchi di creare giochi di vuoti e pieni con i vari post, o immagini che si estendono su più foto, il vincolo rimane sempre lo stesso: un massimo di tre foto per riga. E limiti simili esistono anche sui siti web: menù ad hamburger ovunque, una o al massimo 3 colonne verticali per i contenuti, e l’inevitabile ordine cronologico inverso che regna sovrano.
Il pensiero si deve adattare all’infrastruttura digitale: ne sono un esempio le slide stile PowerPoint che in questi mesi di proteste del movimento Black Lives Matter hanno invaso le storie di Instagram.
L’omogeneizzazione estetica dei siti web è stata persino misurata da uno studio dell’Università dell’Indiana: “le differenze medie tra i siti web hanno raggiunto il picco tra il 2008 e il 2010 e poi sono diminuite tra il 2010 e il 2016. Le differenze di layout sono diminuite maggiormente, scendendo di oltre il 30% in quel lasso di tempo,” scrive uno dei ricercatori che ha partecipato allo studio.
È come se lo stesso processo di uniformazione e appiattimento che avviene nell’architettura cittadina e nei suoi servizi stesse avvenendo nello spazio digitale. Molte città si somigliano, tutti i nostri profili si somigliano.
L’idea di giardini digitali in cui ritirarsi e tornare a sperimentare non è di per sé una novità e viene interpretata in modo diverso a seconda della sensibilità di chi li crea. Ma cerca sempre di staccarsi dal concetto classico di blog che, secondo alcuni, ha rovinato il web e che ogni volta che sembra sul punto di essere dichiarato defunto, rinasce un attimo dopo.
Uno dei primi saggi sul tema è della fine degli anni Novanta, scritto da Mark Bernstein, direttore scientifico della Eastgate—una casa editrice pioniera della pubblicazione di ipertesti—e dal titolo evocativo: “Hypertext Gardens: Delightful Vistas.”
Sciogliendosi e disperdendosi tra link e riferimenti incrociati, senza un percorso definito e lasciando spazio all’inaspettato, il saggio vuole distruggere la rigidità del blog classico e ricordarci delle infinite possibilità dei link: “Il giardino è un terreno agricolo che delizia i sensi, progettato per il piacere piuttosto che per la comodità,” scrive Bernstein. Questo tipo di “irregolarità” coinvolge i sensi, “offrendo la promessa dell’inaspettato senza la minaccia della natura selvaggia.”
Per Maggie Appleton, antropologa, art director e illustratrice, un giardino digitale è “una raccolta aperta di note, risorse, schizzi ed esplorazioni che sto attualmente coltivando,” ha scritto in un post sul suo blog. “Alcune note sono piantine, alcune stanno germogliando e alcune sono piante sempreverdi completamente cresciute,” ha aggiunto. O, continuando l’analogia con i giardini naturali, dei bozzoli in attesa che esca l’organismo interno.
Per altri, questi giardini diventano delle ancore di salvezza dal punto di vista psicologico: i giardini digitali sono un tipo di scrittura che ti permette di “scrivere senza preoccuparti di quello che penserà la gente; scrivere in piccoli pezzetti non finiti e costruirli poi in pezzi più grandi e più rifiniti per il pubblico,” ha scritto Christopher Biscardi, consulente indipendente per startup.
I giardini digitali fanno anche esplodere la rigidità dell’ordine cronologico dei blog: “Le cose sono organizzate e ordinate, ma con un tocco di caos”, ha scritto Joel Hooks, sviluppatore software, descrivendo il suo giardino.
Il cervello umano non crea associazioni solo in maniera temporale unendo pensieri presenti a memorie del passato, ma lavora orizzontalmente e obliquamente, per associazioni inaspettate e con rimandi inconsci. In altre parole, il cervello sa fare molto più che scrollare: uno spazio virtuale troppo rigido confina inevitabilmente anche il pensiero.
I vincoli strutturali dei siti web sono stati esplorati e forzati per decenni dagli artisti digitali: dai padiglioni digitali di mostre come the wrong biennale, alle gallerie interattive per supportare artisti che lavorano attraverso internet, passando per le tele 3D digitali su cui disegnare offerte da superinternet e l’universo del collettivo Clusterduck, fino ad arrivare a vere e proprie oasi estetiche di brutalismo web che, grazie all’asprezza e alla totale mancanza di interesse per la comodità e facilità di fruizione, rappresentano un moto reazionario alla “leggerezza, ottimismo e frivolezza del web design di oggi,” come ricorda Brutalist Websites.
I giardini digitali però hanno anche un rovescio della medaglia: richiedono praticità con il codice delle pagine e software appositi per creare le strutture delle informazioni. Già semplicemente uscire dalla comodità di WordPress per utilizzare un CMS che lascia più libertà come Ghost ha i suoi costi. E strumenti simili per i giardini digitali come Foam, Jekyll e Roam farebbero scoraggiare molte persone. Inoltre, come sottolineano nello studio dell’Università dell’Indiana, i siti stanno diventando più simili tra loro perché usano le stesse librerie software e più questi codici sono popolari, più è probabile che rispettino gli standard di accessibilità per le persone con disabilità visive. E, indubbiamente, l’universalità di alcuni siti e strumenti, come Google Docs, può trasformarli in mezzi inaspettatamente radicali—come ha dimostrato l’internet delle proteste—per conservare o diffondere informazioni, persino sul COVID-19.
Ma malgrado la loro natura impervia, i giardini digitali dimostrano la necessità di uscire dallo standard attuale del web, esplorare nuove soluzioni e adattare la tecnologia al pensiero umano (e non viceversa), per tornare a un web più ibrido e vitale.
D’altronde, come ha scritto Bernstein nel suo saggio, “Le autostrade sono giudicate in base all’efficienza: distanza, costo, sicurezza e tempo. I percorsi del giardino giocano un ruolo diverso; ci guidano lungo le vie migliori, non le più brevi.”