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Ho visto come preparano il pollo di KFC e pensavo molto peggio

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Appena varcata la porta della cucina, c’è subito uno spazio dove pulirsi le mani: credo di non essermele mai lavate per così tanti secondi. Per finire, rigorosamente, il disinfettante.

Odio i fast-food.

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Ok, forse odio è una parola forte, forse sono semplicemente prevenuta nei loro confronti. L’ultima volta che ci sono entrata ero a Singapore, due anni fa: dopo un mese in giro per l’Asia, avevo finito tutti i miei fondi ed essendo molto provata, sono passata al lato oscuro per una sera. Oltre a non mangiare nei fast food, cerco anche di evitare cibi confezionati e non impazzisco per merendine o biscotti confezionati. Santa o rompiballe, vedete voi.

Fatto il doveroso preambolo, non sarà difficile immaginare la mia “scomodità di vivere” quando mi è stato proposto di passare una giornata nel regno del pollo fritto americano: Kentucky Fried Chicken. Il celebre KFC è arrivato in Italia in ritardo rispetto ad altre catene statunitensi: la prima sede è stata aperta a Roma nel 2014 e piano piano si è esteso su tutto il territorio, compreso il centro di Milano (ad oggi conta 40 locali in tutta Italia).

Qualcuno forse lo sa già, ma ripassiamo brevemente insieme la storia. KFC viene fondata nel 1952 dal colonnello Harland Sanders, che ha inventato una ricetta segreta dell’impanatura, e in pochi anni il business diventa da 2 milioni di dollari. Un boom, l’American Dream per antonomasia. Oggi KFC è una delle più grandi catene di fast food nel mondo, con circa 18.000 ristoranti in 115 paesi e un fatturato che si aggira sui 23 miliardi di dollari; robetta insomma.

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Ma torniamo a me e ai miei disagi. Voglio ricredermi e quindi – sì Maria, Alice ha accettato l’invito del suo editor e oggi è qui: il 23 Gennaio sono al KFC di Bicocca, a Milano. L’evento è riservato ai giornalisti per scoprire come viene fatto il famoso pollo del fast food americano. Quello che so sul loro pollo? Niente. Lo avevo mangiato una volta, parecchio tempo fa a Londra, quando ero piccola e facevo ancora le foto al Frappuccino di Starbucks; ma se i miei ricordi non mentono, mi era piaciuto parecchio.

Appena arrivo mi attende una busta piena di gadget tutta per me, un vero colpo basso: io bramo buste, scatole, packaging e tutto ciò che dentro contenga gingilli, il più delle volte non troppo utili. Iniziamo il tour con altri tre colleghi e, per questioni igieniche, mi fanno indossare una cuffietta bianca da cucina, di quelle brutte forti. Appena varcata la porta, c’è subito uno spazio dove pulirsi le mani: credo di non essermele mai lavate per così tanti secondi. Per finire, rigorosamente, il disinfettante.

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I Gadget di KFC. Foto dell’autrice.

La prima cosa che mi mostrano è una porta che dà sul retro. Da qui passa il pollo che, portato dal fornitore, arriva congelato, già marinato e in tagli differenti a seconda di quello che diventerà nel menu. Viene poi messo in celle negative a -18 gradi e, giorno per giorno, si prelevano le quantità da scongelare calcolate sulla base delle previsioni di vendita.

La carne viene quindi spostata nella cella di scongelamento (da 0 a 4°C) e ciascun lotto viene etichettato con delle date che indicano da quando a quando il pollo può, o non può, essere più utilizzato. Mi domando se in realtà ne scongelino di più del necessario: chiedo quanto pollo viene buttato in questo passaggio e cosa fanno per evitare gli sprechi. Ricevo una risposta poco contestabile, ma di base non esaustiva: mi dicono che facendo un resoconto continuo dei consumi e delle vendite, riescono a prevedere le quantità necessarie limitando quasi a zero lo sperpero della carne. Ovviamente la risposta è diplomatica, ma ci sta: economicamente parlando, non sarebbe un buon affare comprare due pezzi e rivenderne solo uno. Avrei però preferito una risposta in numeri, per capire quanto, e se, lo spreco è davvero basso come dicono.

Per Chicken On the Bone Original Recipe, si esegue un 7-10-7: i pezzi di pollo con l’osso, dopo essere stati bagnati, devono venire scossi 7 volte, rigirati 10 volte nella farina e pressati 7 per far aderire la panatura. Cosa analoga per tutti gli altri prodotti, che seguono però la procedura 10-10-10.

Guardandomi intorno noto una pulizia e un rigore estremi. Tutto è precisamente controllato, segnato, schedato e visionato. Una vera catena di montaggio. Ma la cosa che mi stupisce di più è il processo di preparazione: l’impanatura viene fatta sul momento. C’è il pollo, c’è la farina e c’è una persona che impana. Certo non è come guardare mamma che prepara le cotolette o le scaloppine, ma comunque mi fa sentire un filino di più nel mio habitat. Le modalità di infarinatura sono precisissime e io, che vado in ansia quando accendo la lavatrice, sento la pressione che mi schiaccia piano piano mentre me le spiegano.

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Praticamente per il COB (Chicken On the Bone) Original Recipe, si esegue un 7-10-7: i pezzi di pollo con l’osso, dopo essere stati bagnati, devono venire scossi 7 volte, rigirati 10 volte nella farina e pressati 7 per far aderire la panatura. Cosa analoga per tutti gli altri prodotti, che seguono però la procedura 10-10-10.
Piccola ma grande parentesi sull’infarinatura del COB, prodotto realizzato con una ricetta diversa da quella di tutti gli altri. Ci ripetono più e più volte, tipo mantra, che la farina destinata a questo “piatto” è mischiata con erbe e spezie, e che questa ricetta è l’unico segreto che non possono svelare. Marketing? Forse.

Di fronte alla zona di impanatura c’è la parte in cui accade la magia: la frittura del pollo avviene in friggitrici a pressione (sempre mitica invenzione del colonnello), che friggono più velocemente, ma senza alterare il risultato finale.

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A campione viene verificato con un termometro che il pollo sia cotto uniformemente, dopodiché i pezzi cotti vengono spostati nelle holding cabinet: contenitori che mantengono il prodotto caldo e fragrante fino alla vendita finale. Il pollo qui può essere conservato per un tempo prestabilito che va dai 30 ai 90 minuti massimo, superata questa soglia il prodotto è ancora sicuro e commestibile, ma inevitabilmente non rispecchia più gli standard di brand per la vendita al cliente finale.

Quello che fanno è evitare che arrivi alla scadenza, togliendolo un pochino prima dalle holding cabinet. In questo modo, essendo ancora commestibile, riescono a donarlo a delle associazioni di beneficienza. Ad oggi la legge italiana prevede parecchi limiti al riguardo e permette di distribuire scarti alimentari ad enti benefici solo con determinate condizioni: per motivi estetici o di mercato (ad esempio packaging rovinati o bassa domanda da parte del mercato), oppure se il prodotto è prossimo alla scadenza ed è ancora commestibile. In quest’ultimo caso, si tratta di togliere gli alimenti un pochino prima dalla vendita e donarli. Sono in pochi ad essere riusciti a trovare un modo per rendere questa cosa possibile, per questo, chapeau mr KFC.

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Fino ad ora abbiamo parlato di come vengono preparati i prodotti, di come viene conservata la carne e della pulizia delle cucine. Tutto importantissimo, ma la provenienza del pollo?
Mentre facciamo il giro della cucina, subito dopo aver passato la zona frittura-pesante, in un momento di distrazione generale, mi avvicino al manager della sede KFC Bicocca per chiedergli da dove venissero i polli e dove si trovassero gli allevamenti. Lui si impiccia un po’, forse non se lo ricorda. Poi mi risponde “Olanda, tutti dall’Olanda”. Non fa in tempo a finire che viene interrotto: ci dicono di proseguire il giro. Una volta fuori dalla cucina siamo nella zona ristorante e ci sediamo ai tavoli. Ci portano un sacco di pollo, tantissimo pollo fritto, che un po’ mi distrae, vi dirò la verità, ma poi mi ricordo di voler capire meglio. Così, chiacchierando del più e del meno, mi rivolgo a Corrado Cagnola, AD di KFC, e gli chiedo la provenienza dei polli. Mi risponde “vengono dall’Europa, da diversi paesi europei”. Cala il sipario, applausi, fine. Vedo che qualcuno si scambia qualche sguardo, e non so bene cosa pensare.

Arrivata in redazione cerco sul sito di KFC un modo per rintracciare o trovare gli allevamenti che riforniscono i franchising in Italia, ma non trovo nulla, eccetto frasi tipo “è tutto tracciato” o “nessun antibiotico”, che però rimangono solo frasi e chissà, forse marketing. Queste informazioni dovrebbero essere reperibili nell’immediato, dal sito direttamente. Continuando le mie ricerche, mi imbatto in un’intervista interessante. Si tratta di alcune domande fatte sempre a Corrado Cagnola e pubblicate da un giornale di settore chiamato Mark Up. Nell’intervista l’AD di KFC parla di come la società si impegna nel voler rifornirsi unicamente da allevamenti di polli italiani entro due anni (si parla di ottobre 2019). Tutto positivo, se non fosse che poi continua con “oggi la materia prima arriva dalla Polonia”. Momento momento momento.

Quindi Olanda, vari paesi europei o Polonia? Nella mia testa vedo aree geografiche randomiche e mi sento confusa.

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Foto dell’autrice

KFC sta cercando di ribaltare il pensiero comune circa la bassa qualità offerta dai fast food, o perlomeno distaccarsi da questa visione, e lo sta facendo investendo sulla qualità, sulla freschezza e, a quanto pare, sulla sostenibilità. La provenienza, però, è un aspetto che, in questo capovolgimento, non può essere trascurato, o perlomeno non può essere trattato con distrazione e vaghezza. Non sto dicendo che i polli arrivino da allevamenti “sbagliati” o che la carne sia di bassa qualità, non ne avrei le prove; ma di sicuro non hanno placato i miei dubbi.

Tra grandi cambiamenti in positivo e altre cose invece non chiarissime, tiro le somme di questa giornata e realizzo che non deve essere facile vestire i panni di un fast food. KFC dal canto suo si è difeso bene, o comunque sta iniziando. Poteva farlo meglio, e può fare di meglio, questo è certo.

Sono stata sincera in tutto quello che ho scritto e, per questo, non posso esimermi dal dire un’ultima grande verità. Prima parlavo di quando ci hanno fatto assaggiare i vari piatti, e c’è una cosa che ho omesso sul loro prodotto di punta, il COB: porca miseria quanto è buono.

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