Cosa ho capito dopo aver cambiato cinque terapeuti in dieci anni

A 17 anni ho cominciato a soffrire di giganteschi attacchi di panico. Avevo parestesie alle mani e l’impressione costante che tutto andasse a rallentatore, e che il mio cervello si sarebbe squagliato all’interno della calotta cranica isolandomi in quello stato per sempre. 

Così ho cominciato a vedere un terapeuta consigliatomi dal mio medico di base. È stato l’inizio di un’epopea piuttosto lunga, che continua ancora oggi. Ormai sono più di dieci anni che faccio terapia, e nel corso del tempo ho cambiato così tanti psicologi e approcci alla mia storia personale che sento di poter dire che questa sia la cosa con cui ho più dimestichezza nella vita. Ne ho avuti di ogni tipo: terapeuti relazionali, di scuola junghiana, terapeuti che apprezzavano l’approccio cognitivista, e anche strani figuri maldestri che hanno tentato di farmi il test di Rorschach nonostante ormai sia comunemente considerato una stronzata. Da qualche anno, finalmente, penso di aver trovato la persona giusta.

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Cambiare continuamente è piuttosto comune fra chi è entrato in terapia, perché come immaginerà anche chi non l’ha mai fatto, è complicato riuscire a capire se la persona nelle cui mani riponi la tua salute mentale e tutte le tue turbe più indegne sia quella giusta per riuscire a trovare un minimo di pace e di senso. Non è come avere dei problemi al pancreas: innanzitutto perché non esistono emissioni di positroni in grado di rilevare l’entità dei tuoi traumi infantili, ma soprattutto perché non siamo coscienti di quello che avviene nel nostro corpo, mentre lo siamo—o almeno in linea di massima pensiamo di esserlo—di quello che avviene nella nostra testa. Quindi è meno semplice abbandonarsi alla competenza di qualcuno che è stato abilitato da un esame di stato. 

Ma come fai a capire se la persona a cui stai raccontando che da piccolo venivi picchiato continuamente, o che hai sempre sognato di vedere la tua ragazza scopata da un altro, è in grado di aiutarti? Esiste un approccio o una scuola di terapia migliore di un’altra? È solamente questione di fiducia? E se non ne ho, di fiducia, è colpa mia che non riesco ad adattarmi e magari non ho il coraggio di vedere la realtà dei miei problemi, o è perché il terapeuta è scarso? Quando e come si capisce se è il caso di cambiare, o direttamente di mollare? La verità, come chi fa terapia sa, è che non esistono risposte totalmente univoche. Ma in questi anni credo di aver individuato alcuni indicatori che penso possano essere utili, almeno in parte, e posso parlare sulla base della mia esperienza personale (quindi non in quanto esperto, intendiamoci).

Vorrei innanzitutto specificare che mi rivolgo a coloro che sentono di dover fare questa benedetta terapia: non posso certo dire a nessuno se ne ha effettivamente bisogno, o come capirlo. Se pensate di non avere problemi, se avete un certo controllo sulla vostra vita, e andate avanti serenamente, buon per voi: aggiungetemi su Facebook e diventiamo amici, che i miei sono tutti in terapia e mi sono rotto le palle di parlarne. 

Il primo indicatore, per come la vedo, è quello dell’ego. Blandirlo è una tentazione piuttosto rassicurante e comune, specialmente fra quelli che intraprendono questo percorso durante l’adolescenza. 

Il mio primo psicologo era un uomo affascinante e carismatico, che vestiva sempre di nero e faceva ampi gesti con le mani mentre mi spiegava tutte le sue teorie. Aveva girato mezzo mondo, era pieno di aneddoti, e aveva letto tutti i libri che volevo leggere anche io. Bramavo la sua stima con tutto me stesso: e il fatto che mi comunicasse quanto fossi intelligente e profondo mi dava un senso di soddisfazione infinito, che mi spingeva a continuare. Durante una seduta dispose alcune sedie nella stanza, e mi chiese di occuparle a turno, cercando di impersonare di volta in volta un diverso membro della mia famiglia. Arrivati alla fine, dopo aver impersonato mia madre, batté le mani in cielo, quasi stupefatto, ed esclamò, “Hai capito tutto Niccolò.” Mi sentii felicissimo. 

Il problema era che i miei attacchi di panico non passavano, né si attenuavano. Per non parlare poi dei miei rapporti interpersonali, o delle mie prospettive sul futuro. Trascorrevo il tempo ad aspettare la seduta successiva, terrorizzato, per sentirmi di nuovo molto intelligente. Sentivo che le cose non stavano mutando in alcun modo, e avevo iniziato questo noviziato di stima reciproca che non capivo dove mi stesse portando. La terapia effettiva consisteva sommariamente nell’interpretare quelle che erano le miei dinamiche familiari, ma i risultati non mi convincevano. 

Ho passato due anni così. Poi—per un istinto di conservazione a cui sarò sempre grato (molto meglio rincorrere il benessere che l’approvazione)—decisi di cambiare. Non si fa terapia per sentirsi intelligenti, o trovare una figura di attaccamento sostitutiva: se avvertite che la stima per il vostro terapeuta è il motore principale che vi spinge a continuare, forse è il momento di analizzare bene i pro e i contro. 

Così per me è cominciata una lunga diaspora, che mi ha portato negli studi professionali di mezza Toscana. La mia seconda terapeuta era una cognitivista corpulenta e sonnacchiosa che mi spingeva a mettere in atto comportamenti che avrebbero dovuto spezzare il circolo dei miei problemi: ogni cosa che mi creava disagio doveva essere affrontata direttamente. Avevo paura dei luoghi affollati? Bene, allora mi diceva di andare ai concerti, e di mettermi in mezzo alla calca. Io lo facevo in modo quasi militare: dopo due anni di teorie fumose, sentivo di aver bisogno di qualcosa di concreto. 

Ma non raggiungevo ancora nessun effetto. È stato uno dei periodi più frustranti e avvilenti di sempre: lei continuava a dirmi che ci voleva tempo, e ogni seduta era identica a quella precedente. La verità è che facevo quello che mi diceva perché ero disperato, ma fondamentalmente la ritenevo una stupida e sentivo che nemmeno lei sapeva di cosa stesse parlando. E quindi arriviamo al secondo indicatore: se è vero che la terapia non si può fare per ottenere legittimazione, è altrettanto vero che un certo gradiente di autorevolezza esercitata dal terapeuta, sempre nella mia esperienza, è basilare. Se non vi fidate di quello che dice, non è facile andare avanti.

Il terzo terapeuta alla prima seduta tentò di farmi il test di Rorschach, e mi fece sentire come un personaggio di Watchman. “Mmm, mi sembra un apparato riproduttivo femminile. O forse è un albero di pere in frutto,” dissi. Non tornai mai a verificare quali fossero stati i risultati del mio test: certe cose capisci che sono sbagliate e inutili da subito. 

Fino ad ora ho parlato solo delle risposte che si ottengono dal terapeuta, ma c’è un altro aspetto piuttosto importante da valutare: la propria recalcitranza. Non sempre siamo disposti ad ammettere i lati più negativi o spaventosi di noi stessi e della nostra vita, anzi. Mettere in conto che una parte dei motivi per cui un percorso terapeutico sta andando nel modo sbagliato sia dovuto alla propria predisposizione è di vitale importanza. E, almeno per quanto riguarda la mia esperienza personale, se vi sentite troppo a vostro agio mentre fate terapia—se non siete mai sotto pressione e in difficoltà, seduta dopo seduta—forse state intraprendendo un’analisi superficiale. 

Così mi rivolsi a un nuovo specialista: una persona piuttosto tranquilla e pacata, molto materna in un certo senso, che mi tranquillizzava. Io lo stavo a sentire, e di volta in volta riusciva a darmi serenità: mi diceva che tutto va accettato, che l’unica soluzione è una presa di coscienza zen. I conflitti interpersonali, la rabbia che mi portavo dietro da una vita, l’invidia, il senso di oppressione: erano tutti fattori da elidere, in favore di un senso di coesione con quello che mi circondava. Il che in soldoni, almeno per come io lo interpretavo, significava che le cose sbagliate che pensavo di avere dentro dovevo ignorarle: che dovevo andare da lui, che mi avrebbe detto che ero una persona buona e vittima di una serie di eventi che non potevo controllare, e poi mi sarei sentito meglio.

Gli attacchi di panico cominciarono a placarsi: mi sentii più sereno, avevo una ragazza di cui ero innamorato, e per certi versi tutto sembrava andare finalmente per il verso giusto. Ma in fondo sentivo che in realtà mi stavo semplicemente rinchiudendo in una bolla di autoindulgenza senza sbocchi, e che presto o tardi tutte le questioni che accantonavo mi sarebbero arrivate nel viso come una sassata. Ed ecco quindi la cosa più importante che penso di aver capito dopo tutti questi anni: la terapia non è mai un processo passivo. Pensare che ci sia un luogo, nel mondo, in cui è possibile rifugiarsi e affidare il proprio cervello nella mani di qualcun altro, è un istinto assimilabile alla suzione neonatale. 

Per una serie di circostanze fortuite, e grazie a una persona a cui sarò grato per tutta la vita, un giorno capitai nello studio di una nuova terapeuta. Venivo da questo periodo di isolamento amniotico, e pensavo di non aver bisogno di ricominciare nuovamente un ciclo di terapia. Fu come un cazzotto nello stomaco: in un’ora scarsa tutta quelle protezioni fittizie vennero fatte a pezzi, e mi ritrovai completamente nudo. Tutto il disagio, la paura, e la rabbia che avevo accantonato furono messe nuovamente sul tavolo. 

Non voglio scendere troppo nel particolare del tipo di approccio terapeutico che seguo—in parte perché ritengo che non ce ne sia necessariamente uno che va bene per tutti, in parte perché non sono nessuno per poter sostenere il contrario—ma credo che il senso di disagio, di difficoltà e di paura che provai inizialmente nell’intraprenderlo sia una componente vitale all’inizio di un processo terapeutico. Perché il motivo per cui ci si rivolge a un terapeuta è per forza di cose dovuto a un bisogno: e prendersi la responsabilità—aiutati dalla persona giusta—di affrontalo non può essere semplice e indolore. 

Questo almeno nel mondo degli adulti che vogliono esercitare quel poco di controllo che gli è concesso dall’esistenza sulla propria vita. Mettere in conto che una parte di noi sarà sempre portata a dubitare di quello che ci trasmette un’altra persona è importante, perché ti aiuta a ricordare che non sempre si capisce tutto di quello che ci riguarda. E che a volte le persone che paghi per capirti si sbagliano.

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