Cosa ho imparato fingendomi ‘povera’ in una scuola di periferia

Foto di Hayley Hatton

Sono cresciuta nelle periferia piuttosto tranquilla di una città operaia inglese che affaccia sul mare—il genere di posto dove l’attrazione più grande è il prezzo scandalosamente basso del minigolf e in spiaggia gli unici a divertirsi sono quelli che ci vanno col metal detector. Il classico luogo dove le nonnette vanno a morire.

È stato strano crescere in quel contesto, visto che i miei genitori appartengono a quella categoria di persone che sono abbastanza snob da usare paroloni a me ignoti ma abbastanza povere da non potersi permettere di mandare i propri figli in una scuola privata. In più, i miei vengono dalla Norvegia, dove l’aria pulita, il pesce fresco e anni di politiche progressiste hanno fatto sì che l’unica classe sociale esistente sia il ceto medio. Non che loro se ne rendano conto—i miei sono così profondamente scandinavi e di sinistra da non riuscire nemmeno a concepire il sistema delle classi sociali inglesi.

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Per cui, agli occhi dei miei genitori, tutte le scuole del Regno Unito sarebbero andate bene. Cosa che in effetti è vera, ma solo se stai alle regole del suddetto classismo britannico: i ragazzini con i pony e i doppi cognomi nelle scuole private, quelli con i vestiti in tessuti non traspiranti nelle scuole pubbliche.

La scuola dell’autrice. Foto via Wiki Commons



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I problemi nascono quando ti trovi in mezzo a questi due gruppi, come è successo a me—che facevo la spesa nel supermercato di quartiere ma ero al corrente dell’esistenza di diversi tipi di mostarda. In pratica ero una mezzosangue, una condizione noiosa che mi faceva sentire terribilmente sola. Non vivevo in uno di quei quartieri dove tutti avevano Sky e dove c’erano un sacco di panchine su cui sedersi a chiacchierare con altri ragazzi con i capelli unti di gel effetto bagnato. Ma non potevo nemmeno andare alle feste in campagna dove si ritrovavano i ragazzini che frequentavano le scuole private—perché non mi invitavano per timore che rubassi l’argenteria o dicessi qualcosa di sinistra, e perché mia madre non mi avrebbe mai pagato il taxi per arrivarci, dato che avevo 13 anni.

Per cui, di fronte alla prospettiva di rimanere per sempre senza amici, ho deciso di fare la brava immigrata e di assimilare i comportamenti delle persone che avevo intorno. Ho iniziato a indossare pantaloni corti e felpe con la zip, ho sostituito l’insalata con il fish and chips e gli hot dog e sono riuscita a convincere due ciocche dei miei capelli a starsene appiccicate alla fronte, dove le avrei poi ricoperte di fondotinta color sabbia. Ho dovuto disimparare l’inglese che avevo imparato dai libri e adattarmi a parlare il linguaggio della gente della mia zona.

Dopo qualche iniziale difficoltà—non avete idea di cosa sia la vergogna se per sette anni non avete aperto il vostro pranzo al sacco di avanzi in mezzo a un gruppo di ragazzini intenti a divorarsi barrette di cioccolata—alla fine ci son riuscita. Bevevo lattine di bevande alla frutta e dominavo la mensa con il mio gruppetto in cerca di ragazzi da limonare.

Perché avevo imparato che il modo migliore per integrarsi in un ambiente sconosciuto è legare coi personaggi più duri che lo abitano. Il mio primo ragazzo era un vagabondo pelle e ossa che una notte mi ha chiamata dicendomi che aveva paura di aver ucciso un tizio con un mattone—alla fine non era così—e che nel suo tempo libero si allenava a tirare calci e mangiava fagioli direttamente dal barattolo. Nel privato era un romanticone: mi scriveva poesie—con rime come “sposa” e “rosa”—e mi faceva il tè al termine di lunghi pomeriggi passati a masturbarmi con foga. Dopo avergli fatto il primo pompino della mia vita in uno dei camper della sua famiglia, abbiamo cementato il nostro amore con lo sperma e con il sudore dei nostri genitali intrappolati nei jeans.

Foto via Flickr.

È stato con lui che ho scoperto per la prima volta la gioia di passare una serata sulle panchine delle case popolari, tirando le patatine ai passanti e bevendo vodka prima di sorriderci a vicenda e vomitare. Un pomeriggio, dopo essere stati al funerale di suo cugino, ho dovuto guidare fino a casa perché ogni singolo membro della sua famiglia era troppo sbronzo, mentre lui sedeva sul sedile posteriore impegnato a tenere a bada la nuova ragazza del padre.

Quando sono arrivata a casa, mia madre stava cucinando dell’aioli con Kate Bush in sottofondo. In quel momento ho deciso che era meglio non invitare mai a casa mia nessuna di quelle persone.

Nonostante questo, mi divertivo molto quando andavo in casa d’altri. Una volta il mio amico Dan ha avuto casa libera per un’intera settimana. Avevamo appena scoperto che farci le canne era un passatempo piacevole, e nel giro di qualche mese ogni membro della mia compagnia avrebbe sostituito i propri problemi psicologici con una passione per le patatine fritte e il collasso sul divano.

Il primo giorno di quella settimana l’abbiamo passato tutto in camera di Dan, in silenzio, aprendo bocca solo per borbottare frasi a caso che iniziavano con “tua madre” e non erano rivolte a nessuno in particolare. Del secondo giorno ho solo pochi ricordi sfocati, ma so di essermi svegliata con i piedi infilati in un cartone della pizza del giorno prima e di aver capito che era arrivato il momento di tornare a casa—dove mi sono assicurata l’amore eterno di mia madre mangiando circa otto porzioni di stufato.

Immagine via.

Ma se ai miei genitori tutto sommato non dava fastidio il fatto che mi facessi le canne, non tolleravano per nulla il modo in cui mi comportavo a scuola. A 14 anni ho deciso che ero stata già troppe volte in vacanza in Francia, così ho smesso di frequentare francese. Invece che entrare in classe, stavo seduta sul pavimento del bagno delle ragazze, a fumare e tirare delle palline di carta igienica bagnata contro il soffitto per farcele appiccicare. Per via di una delle peggiori decisioni della storia dell’architettura, nella mia scuola—frequentata da circa duemila studenti—c’era solo uno specchio per tutta la popolazione femminile, che all’epoca era piena di acne e ciglia finte. Il che ovviamente voleva dire che ogni giorno almeno una ragazza perdeva una ciocca di extension nelle tremende lotte che si scatenavano per l’utilizzo dello specchio.

Anche se non ho imparato un sacco di cose che avrei potuto imparare, tutto sommato aver deciso di non frequentare i pochi altri ragazzi snob del mio anno mi ha reso la vita migliore. Questi passavano le giornate a cercare i loro iPod “smarriti”—in realtà un ragazzo di un anno più grande aveva messo su un giro d’affari: li rubava, cambiava le cover e li rivendeva—o nell’aula di informatica. Aula che, per inciso, era il posto dove mi nascondevo per ripassare dopo aver detto alle mie amiche che ero con il mio (immaginario) fidanzato. “È più grande,” spiegavo orgogliosa. “Ha la macchina.”

Quando quella bugia ha dato i suoi frutti e io ho passato gli esami, i miei genitori si sono finalmente accorti della mia ignoranza e mi hanno spedita in collegio—dove ho imparato che la gente veramente snob dice cose tipo, “era in splendida forma” e pensa che tirare carta igienica bagnata sul soffitto “possa rovinare l’intonaco.”

Con il tempo sono cambiata molto. Lavoro in un posto abbastanza snob, un ambiente in cui molti non apprezzeranno che io abbia condiviso queste storie su internet. Molte delle mie amiche di allora hanno case, fidanzati e figli. Sugli stessi social network dove qualche anno prima cercavamo di distruggerci l’autostima a vicenda, ora postano le foto delle loro vacanze in Turchia. Quando vado a trovarle, passo la maggior parte del tempo a capire come tenere in braccio i loro figli senza farli cadere.

Oggi, quando mi ritrovo incastrata in qualche squallido appuntamento in cui un uomo di mezza età che ha frequentato una costosa università privata cerca di conquistarmi correggendomi la grammatica, è bello sapere che mi basterebbe fare una telefonata perché si ritrovi con testa nel cesso.