Ieri sera la premier britannica Theresa May si è salvata dalla ribellione interna del suo partito, riuscendo a superare la mozione di sfiducia contro la sua leadership promossa dai Tory ribelli.
La fiducia le è stata confermata con un voto segreto da 200 deputati su 317. I dissidenti, guidati dall’ala più oltranzista dei brexiteer, non hanno raggiunto la maggioranza assoluta di 159 voti necessaria a togliere May di mezzo come leader di partito e come capo del governo. In poche parole, continuerà lei a trattare sulla Brexit.
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Ma cosa significa tutto ciò, e come siamo arrivati a uno scenario simile? Per capirci qualcosa ho parlato con Leonardo Clausi, giornalista italiano specializzato in politica inglese che vive a Londra da più di vent’anni.
VICE: Per quanto non sia facile da sintetizzare, come si è arrivati al voto di sfiducia di ieri sera nei confronti di May?
Leonardo Clausi: Posto che si trattava di sfiducia “interna” a lei come leader del partito, il voto sulla sua leadership è stato il risultato di un malcontento crescente nei suoi confronti da varie fazioni del partito. Questo è dovuto alla sua scelta di convocare elezioni anticipate nel 2017—che hanno consolidato il Labour di Corbyn e ridotto la maggioranza dei Tories, obbligandoli ad allearsi con il Dup (Partito Unionista Democratico)—e poi, naturalmente, al fatto che il deal che lei ha negoziato con l’Europa su Brexit non piace a nessuno.
Cosa prevede questo accordo?
Il suo è un accordo di uscita dall’Unione Europea che traccia una linea mediana tra i prerequisiti di Bruxelles (per cui se sei fuori, sei fuori da mercato unico e Unione) e quelli di Londra (fine di libertà di movimento delle persone in UK).
Ci sono però nodi da sciogliere sul backstop (la “soluzione di sicurezza” sul confine tra Irlanda e Irlanda del Nord), e sulla subordinazione del paese alla Corte di Giustizia europea nel cosiddetto periodo di transizione—fino al dicembre 2020—necessario alla ridefinizione dei rapporti commerciali fra le parti in cui il paese resterà di fatto nell’Unione Europea.
E questa mediazione scontenta sia chi vorrebbe a destra un’uscita “dura” (la cosiddetta hard Brexit) e chi dei remainer ovviamente non vuole uscire affatto. Entrambe le fazioni sono unite sul punto, nel senso che l’accordo—così com’è—limiterebbe parecchio la sovranità britannica.
Cosa succederà nelle prossime ore a Westminster, e quali saranno le conseguenze per per May e i Tory?
May rimane in carica un altro anno, visto che dall’interno del suo partito non possono più sfiduciarla e ne risulta politicamente rafforzata. Ma, come si diceva prima, rimangono tutti i problemi che hanno portato a questo clima.
Il partito laburista è da mesi in bilico, perché Corbyn finora non ha preso una posizione chiara. L’ala più liberal del partito, essendo filo-europeista, si è da subito schierata per un secondo referendum; mentre Corbyn, da vecchio socialista, è sempre stato diffidente verso l’Europa. L’attuale statuto europeo vieta infatti le nazionalizzazione proposte dai laburisti di Corbyn (acqua, gas, banche), che per questo sono scomparse dall’agenda. In pratica, esiste una parte operaia dell’elettorato laburista—scomparsa con Blair e recuperata da Corbyn—che è anti-europeista quanto gli elettori conservatori.
Corbyn non si è dunque speso per un secondo referendum perché sostanzialmente punta ad andare al governo. Ricordiamo pure che i nazionalisti scozzesi, con una significativa rappresentanza a Westminster, hanno fatto pressioni affinché Corbyn (capo dell’opposizione) presentasse una mozione di sfiducia, cosa che lui non ha fatto in quanto non sicuro dei numeri laburisti in caso di elezioni anticipate.
In sostanza abbiamo un partito laburista che temporeggia, e un partito conservatore dilaniato da faide interne. In uno scenario del genere, c’è la possibilità che si tenga un secondo referendum?
Il referendum è altamente improbabile, nonostante una larga fetta di opinione pubblica lo voglia. E questo per una serie di ragioni: anzitutto, spaccherebbe il paese ancora più profondamente, dal momento che il 52 percento ha votato per uscire e vedrebbe disattesa la propria volontà, alimentando il giudizio di inaffidabilità sulla rappresentanza politica.
Mentre per altri paesi europei è successo che l’Unione Europea sia riuscita a introdurre alcuni aspetti della sua costituzione, semplicemente riproponendo i referendum o prendendoli per sfinimento, in questo caso una seconda consultazione popolare è da ritenersi improbabile; anche per l’orgoglio degli inglesi, che da sempre vogliono distinguersi dall’Europa.
Inoltre, credo che dopo due anni di negoziati nemmeno l’Europa voglia una retromarcia. Ora iniziano le trattative in merito ai rapporti politici e commerciali, e riaprire la trattativa significherebbe per l’Europa dare un segnale di scarsa credibilità, specie agli occhi degli altri paesi.
D’altro canto, l’Europa ha già fatto un favore ai remainer stabilendo che l’Inghilterra può cancellare la Brexit e tornare alla condizione esistente di paese membro, senza il benestare degli altri paesi membri.
Quali sono, a livello pratico, i cambiamenti già emersi nelle vite delle persone a seguito del voto per la Brexit?
Io vivo a Londra, una specie di superstato multietnico, dove la popolazione si è espressa al 60 percento per il remain. Tuttavia, nel resto del paese si respira un’aria incattivita nei confronti dell’Europa.
All’atto pratico, invece, ti faccio un esempio: l’insulina passa soprattutto attraverso Dover (il porto sulla Manica, nda), e le farmacie hanno iniziato a stoccarla per paura di una hard Brexit che ne interrompa l’approvvigionamento.
Dato che tu stesso sei lì, come vedi la vita dei nostri connazionali, e cosa diresti a un italiano che vuole trasferirsi?
Gli italiani sono stressati pure loro, preoccupati dall’incertezza sul loro futuro; molti hanno cominciato la procedura di cosiddetto settled status [il documento che dimostra la permanenza legale nel Paese e che andrebbe a sostituire il permesso comunitario]. A chi vuole venire qui inseguendo i sogni di una swinging London morta e sepolta o che fugge da quello che avverte come sottosviluppo economico e culturale italiano direi di tenere conto che comunque Londra non è un posto da vivere, ma da usare per un periodo. Non può diventare “casa” nel senso compiuto del termine, Brexit o non Brexit.
Si legge e si sente parlare anche di Brexodus per molte aziende, che si stanno guardando intorno.
Certo, c’è il malcontento dei banchieri che stanno vedendo scomparire il primato di Londra come capitale della finanza mondiale; e c’è il malcontento degli imprenditori, che intravedono lo svanire delle condizioni economiche e bancarie che hanno reso Londra un vero e proprio paradiso fiscale. In soldoni, temono il timore di un aumento di controlli e tassazioni, e la conseguente fuga verso altre destinazioni europee quali Lussemburgo o Dublino.
Insomma, sembra quasi un film di J.J. Abrams.
Ci si sta avvicinando a un salto nel vuoto, quello che tutti volevano evitare. A quel punto ci sarebbero davvero problemi di approvvigionamento, problemi legati bisogni primari, eccetera. Sembra effettivamente uno scenario apocalittico, ma almeno posso risparmiare sull’abbonamento di Netflix. Il problema è che le tragiche conseguenze di questa farsa non le puoi spegnere come un monitor.
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