In seguito ai recenti fatti di cronaca e al modo in cui talvolta sono stati e vengono affrontati, abbiamo deciso di riproporre questo post, pubblicato originariamente a gennaio del 2017
Questo articolo nasce dal fatto che un paio di giorni fa mi sono trovata ancora una volta in una situazione molto familiare. Dopo aver twittato due screenshot che riportavano i casi di Noemi Durini e Laura Pirri con allegata la didascalia tristemente ironica “il femminicidio non esiste”, ho ricevuto sia pubblicamente che privatamente i commenti che spuntano ogni volta che si pronuncia la parola “femminicidio”.
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Si tratta di episodi che ne ricordano molti altri: penso soprattutto ai recenti casi di Gessica Notaro, sfigurata dall’acido lanciatole dal suo ex, e di Ylenia Bonavera, una 22enne di Messina ustionata dall’ex che ha provato a darle fuoco cospargendola di benzina.
In quel caso, aveva fatto particolarmente discutere un intervento della ragazza a Pomeriggio Cinque. A prescindere dal giudizio che inevitabilmente si lega alla scelta di intervistare in quel contesto una vittima in pieno disturbo da stress post traumatico, Barbara d’Urso aveva pronunciato tra le altre una frase come: “Ci sono uomini che per troppo amore o per troppa gelosia fanno cose che non vorrebbero fare.”
Così, dopo che nel giro di 48 ore mi sono sentita dire che il femminicidio non esiste, ho deciso di raccogliere e commentare alcuni degli argomenti che vengono puntualmente proposti a sostegno della tesi che il fenomeno del femminicidio, così come il termine stesso, è del tutto campato per aria e manipolato dai media per oscuri scopi politici.
“Percentualmente il femmincidio non esiste”
Questa è la mia preferita. Mi affascina molto perché mi fa sentire in Alice nel Paese delle Meraviglie pieno di nonsense.
Nessuna persona dotata di un QI nella media può aver detto che il femminicidio è il tipo più diffuso di omicidio, né che le donne vengano uccise più degli uomini in assoluto. Quindi è proprio la tesi a non aver senso a priori. Eppure è una delle più tirate in ballo, come se evocando un mondo fatto di dati e numeri le argomentazioni diventassero automaticamente incontestabili.
Quello che evidentemente non risulta chiaro è che quando si parla di femminicidio si parla di un fenomeno legato alla società, al genere e, in particolare, al movente. Una donna che viene uccisa in una rapina non è una vittima di femminicidio, così come non lo è una uccisa per motivi legati all’eredità. Sara di Pietrantonio, la ragazza romana incendiata dall’ex, lo è. È cruciale che questa distinzione sia resa cristallina.
Penso che molte persone fatichino a capire la particolare connotazione del femminicidio perché il sessismo, ossia la discriminazione basata sul genere, è molto più sottile di altre discriminazioni.
Nel 1980 Laurence Thomas, filosofo e sociologo americano, scriveva un bellissimo articolo che delineava le differenze tra le discriminazioni basate sulla razza e quelle basate sul genere (lo trovate qui, è pieno di spunti ancora sorprendentemente attuali). In questo breve saggio l’autore sottolineava, tra le tante, una questione a mio parere molto importante per il tema specifico, ossia che il sessismo, a differenza del razzismo, ha alcune facce apparentemente positive.
Storicamente l’uomo, all’interno della società patriarcale, è stato investito del ruolo di benefattore della donna. Attraverso i secoli si è sacrificato in guerra, ha lavorato, ha mantenuto economicamente la donna. In questo senso la donna è in qualche misura sua debitrice, e accoglie il sacrificio maschile sostenendo il partner e diventando, in maniera più o meno sottile, di sua proprietà.
Cosa c’entra questo con il femminicidio? Nel momento in cui la donna si sottrae ai compiti e al ruolo tradizionale che le è stato assegnato—quindi tradendo o lasciando il partner nella gran parte dei casi—rifiuta implicitamente tutto ciò di cui sopra, e per questo viene punita e la sua autonomia brutalmente annichilita.
Ora, uno dei problemi più concreti di tutta questa faccenda è l’inconsapevolezza. Sono piuttosto certa che nella maggior parte dei casi nessuno sa (uomo o donna che sia) che le proprie azioni possono essere lette in uno schema più ampio e articolato. Agendo individualmente, il colpevole non dirà mai di aver ucciso l’ex leggendo il suo atto all’interno di dinamiche sociali, ma probabilmente la scusa addotta sarà più una cosa del tipo: “Era una stronza, come si è permessa, ben le sta.” Questo mi rende più semplice passare alla seconda argomentazione.
“Ma lei cosa aveva fatto?”
Questa è la risposta di getto. Se anche la partner avesse partecipato a una gang bang da Guinness dei Primati, la provocazione percepita non giustifica l’annientamento della persona perché quest’ultima è, per sua natura, libera.
Si ricollega direttamente a quanto detto prima sulla proprietà. La donna, in una coppia, non è di nessuno (così come non lo è l’uomo). Nessuno la può rubare in quanto non è mai stata di nessuno se non di se stessa.
In merito a ciò, Diana Russell, una scrittrice tra le prime a occuparsi del fenomeno, riporta nel suo libro Femicide: The Politics of Woman Killing del 1992 un elemento molto inquietante dei casi giudiziari americani che riguardano questi delitti: i giudici sono più inclini ad ascoltare le testimonianze degli uomini che spiegano come siano stati provocati dalle donne—e quindi spinti a ucciderle—rispetto alla situazione inversa.
“E allora tutte le donne che maltrattano gli uomini psicologicamente, li torturano e poi li lasciano e si fanno pagare gli alimenti senza permettergli di vedere i figli?”
Questa è l’argomentazione “mischione”. Esistono le persone sadiche, esistono le relazioni disfunzionali ed esiste una profonda ingiustizia quando si tratta di affidamento e alimenti. Ma cosa c’entra questo con il femminicidio? Niente. Il termine e il fenomeno non svalutano automaticamente i problemi che incontrano gli uomini all’interno della coppia.
Dato per assodato che le ingiustizie esistono per entrambi i sessi e che quest’argomentazione non è pertinente a una discussione sul femminicidio, vale la pena spendere due parole su un fenomeno più ampio e che da cui credo scaturiscano parte di queste affermazioni. Attualmente si sta dispiegando davanti ai nostri occhi la dinamica per cui la maggioranza privilegiata si sente minoranza schiacciata. Il caso più eclatante, come già sottolineato da più parti, è quello di Trump, che ha basato la sua campagna su una retorica di rivalsa popolare contro l’establishment. Al livello locale abbiamo più di un politico che non smette di ricordarci quanto l’italiano medio sia una specie a rischio.
Se siete uomini bianchi e del primo mondo, la vostra condizione non è quella di minoranza oppressa, al netto sia delle bugie sugli immigrati che vivono in resort a quattro stelle, sia dell’argomentazione da cretini per cui le donne, grazie al magico potere della figa, conquistano il mondo senza sforzo. Al massimo entriamo gratis in discoteca mentre veniamo pagate meno di voi per fare lo stesso lavoro.
“È un termine che serve a far sì che legalmente la vita della donna abbia più valore di quella di un uomo”
No, non è così. Le leggi (e questo è più evidente nel sistema giudiziario anglosassone che si avvale del common law, il meccanismo per cui le leggi non sono codificate a priori ma vengono modellate dalle sentenze stesse) non sono un semplice strumento di punizione o di svalutazione di qualcosa. Semmai il contrario. La vita di ogni essere umano ha pari valore. Qui si tratta di riconoscere e far affiorare alla coscienza collettiva un fenomeno che è una rappresentazione di un problema più grande del singolo (vedi punto uno). Nel momento in cui viene riconosciuto un movente discriminatorio e quindi una particolare categoria di delitto, le vittime vengono tutelate e le loro vite investite di valore. Così la consapevolezza dei singoli aumenta generando effetti benefici per la collettività: da una parte il sintomo—il femminicidio, in questo caso—dovrebbe lentamente scomparire; dall’altro le altre manifestazioni delle discriminazioni basate sul genere potrebbero giovarne, dal momento che il problema viene messo in luce e discusso apertamente.
In ogni caso, per rendere più chiaro ciò che intendo, basti pensare a un parallelismo con i crimini razziali o omofobi, mantenendo sempre a mente la natura subdola del sessismo. Pochi si sognerebbero di dire con la stessa leggerezza riservata al femminicidio che i crimini motivati da odio razziale non esistono, e lo stesso vale per quelli legati all’omofobia.
“Gli uomini non uccidono le donne in quanto donne ma le uccidono perché gli sono vicine. Gli uomini sono violenti di natura”
Questa affermazione la trovo lombrosiana e offensiva per tutto il genere maschile. Il determinismo biologico è stato usato troppe volte per giustificare la violenza. Provengo da studi scientifici, motivo per cui sono molto cauta nell’addossare alla natura e alla biologia un qualsivoglia tratto umano. Nella scienza ormai vige la linea interazionista, dove geni, ambienti e società si intrecciano apportando ognuno il suo peso nella vita psicologica individuale. Gli uomini non sono violenti perché sono fatti così. Le donne non sono dolcemente complicate.
Ma poi scusate, se ci fosse stato un gatto al posto della fidanzata, avrebbero dato fuoco al gatto?
“È discriminatorio contro le donne”
Questa credo se la siano inventata gli stessi che dicono che le quote rosa sono ipocrite e discriminatorie. Gli esseri umani sono animali abitudinari: ci piace seguire lo status quo. La normativa sulle quote rosa—che all’inizio può sembrare una forzatura—dopo tot generazioni ci si augura che diventi quasi inutile. Perché? Perché ci saremo tutti abituati al fatto che le donne e gli uomini sono rappresentati parimenti nelle istituzioni.
Per il femminicidio e per le altre leggi che cercano di tutelare delle categorie che allo stato attuale sono minoranza o classi deboli, vale lo stesso discorso.
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In conclusione il femminicidio esiste. È il tipo di omicidio più comune? No. Sta diminuendo negli anni? Sembrerebbe di sì. È sovrarappresentato dai media? Può essere, ma ciò potrebbe essere legato positivamente alla domanda precedente. La sua definizione sminuisce il valore della vita maschile? No. È legato a un amore troppo impetuoso? NO.
Riconoscere l’esistenza del femminicidio in quanto tale investe di valore la vita delle donne come esseri umani liberi e indipendenti. Nel 2017 mi pare il minimo.
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