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Abbiamo parlato di ‘Doom’, ‘Red Dead Redemption 2’ e nostalgia con John Romero

John Romero intervista 25 anni anniversario Doom

Il 10 dicembre 1993 i server FTP dell’Università del Wisconsin-Madison crollavano sotto il peso di migliaia di utenti che cercavano di fare tutti la stessa cosa: scaricare la prima versione shareware di Doom. Dopo neanche cinque mesi i download ufficiali erano 1,5 milioni — e chissà quante volte il gioco era stato copiato e condiviso su un disco, come se fosse la cassettina del gruppo del momento.

La chiave musicale è forse quella più sensata per comprendere ciò che Doom rappresentava nel 1993: un fenomeno underground pronto a esplodere, l’urlo di una generazione che era cresciuta tra metal, Dungeon & Dragons e videogiochi e adesso reclamava il proprio spazio, il proprio posto nel mondo dell’intrattenimento.

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Doom è stato il calderone in cui tutte queste influenze si sono mescolate insieme, ma anche un piccolo capolavoro di tecnica, che ha — di fatto — lanciato il genere degli FPS, fino a quel momento rimasto a languire ai margini del settore, nonostante i buoni risultati di Wolfenstein 3D.

Per continuare il paragone musicale, John Romero — autore di Doom e ora CEO di Romero Games Ltd. — è stato forse uno dei primi sviluppatori a diventare una rockstar, a sfoggiare un atteggiamento meno schivo e più anticonformista, lontano dagli stereotipi del geek chino sul computer. A 18 anni era già un programmatore di buon livello, in grado di farsi notare sulla scena dell’Apple II; ha iniziato a lavorare per la Origin solo quattro anni più tardi e Doom arriva quando ne ha 27, dopo una lunghissima lista di titoli pubblicati a getto continuo, e con quello arrivano le Ferrari, la fama e la gloria in un settore che proprio negli anni Novanta è esploso definitivamente.

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Doom (1993). Immagine via: Wikimedia Commons

Romero ha trascorso la propria vita cercando sempre qualcosa di nuovo, di spingere il limite dell’hardware un centimetro più in là — una scelta che a volte ha pagato, a volte decisamente meno, portandolo col tempo anche a scontrarsi con la parte peggiore dello sviluppo.

Il 29 novembre scorso, Romero è stato ospite alla sesta edizione di Codemotion Milan — un evento dedicato a personalità, aziende e innovatori del mondo tech —, dove lo sviluppatore ha ripercorso in una conferenza la propria carriera e i fondamenti del suo game design fino a Doom, per poi sfidare alcuni dei presenti a un deathmatch di Doom. Motherboard lo ha incontrato in quell’occasione, per parlare un po’ del presente e del passato, a un passo dai 25 anni dall’uscita del gioco che ha fatto la storia.

MOTHERBOARD: Qual è secondo te, al di là di aver lanciato il genere FPS, la più grande eredità di Doom?
John Romero: Beh il genere è già una cosa enorme, senza dubbio, ma ci sono un sacco di cose che sono collegate all’uscita di Doom. La nascita del multiplayer, del deathmatch e soprattutto del modding.

“Credo che oggi gli sviluppatori non siano più interessanti a tracciare la rotta del settore come facevamo noi.”

Riguardo al modding, forse è stata una delle intuizioni più interessanti, ma non del tutto recepite dai giochi moderni che, tolte alcune eccezioni, sono dei recinti chiusi.
E lo erano anche prima dell’arrivo di Doom! Li abbiamo aperti noi, abbiamo addirittura dato accesso al source code, una cosa impensabile per chiunque altro.

Perché secondo te oggi è molto più difficile che succeda?
Credo che oggi gli sviluppatori non siano più interessanti a tracciare la rotta del settore come facevamo noi. Noi volevamo mostrare a tutti come avevamo fatto e dare loro gli strumenti per capire, per imparare. Poi, quando idSoftware è stata venduta a un gruppo più grande, tutto questo è sparito. Le grandi aziende non apprezzano questo genere di cose, quindi addio server dedicati, addio diffusione del codice sorgente, addio open software. C’è ancora un sacco di modding oggi, ovviamente, ma quasi nessuno è disposto a condividere il codice sorgente, la differenza sta tutta là!

“Il problema è che oggi troppe persone stanno lavorando alle idee di qualcun altro invece di fare i propri giochi.”

idSoftware è stata in quegli anni un monumento al cosiddetto “crunch time” al creare giochi ignorando gli orari e i normali ritmi di lavoro. Una dedizione che vi ha permesso di lanciare qualcosa come 19 giochi dal ’90 al ’95. Oggi però il crunch time è diventato oggetto di discussione e polemica in quanto sfruttamento. Cosa è cambiato nella cultura degli sviluppatori?
È solo una definizione del modo in cui impieghi il tuo tempo. “Crunch time” vuol dire “sto lavorando e non voglio farlo.” Se stai lavorando fino a tardi a una cosa che ami e vuoi farlo non è crunch time. Stai semplicemente passando del tempo con la tua passione. Ma se stai lavorando al gioco di qualcun altro, non una tua idea in cui non hai voce in capitolo allora diventa crunch time. Il problema è che oggi troppe persone stanno lavorando alle idee di qualcun altro invece di fare i propri giochi. Pensa a una roba tipo Assassin’s Creed con centinaia di persone che ci lavorano, ma solo una manciata di queste hanno avuto l’idea e sono effettivamente contente di ciò che hanno creato e che sta per uscire. Gli altri sono là per far sì che succeda. È una situazione completamente diversa rispetto al nostro gioco. All’epoca eravamo in quattro o cinque e lavoravamo a qualcosa che era nostro e che ci appassionava, non avevamo centinaia di persone sotto di noi.

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John Romero alla conferenza di Codemotion Milan 2018. Immagine per gentile concessione di Codemotion.

Parlami un po’ delle influenze di Doom, hai citato Non aprite quella porta, Aliens, ma soprattutto Dungeons & Dragons.
D&D è stata la base di quasi tutto ciò che è scaturito poi nei videogiochi moderni. Anzi, di molti giochi in generale. La parte più interessante, oltre alla narrazione, è che tutto ha una statistica, ogni oggetto, azione, arma o personaggio è fatto di numeri e il gioco si basa sul calcolare i risultati di quei numeri. D&D è esattamente questo: prendere un’avventura e scomporla in numeri, passaggi e formule per far funzionare il combattimento, gli incontri casuali, la narrazione. D&D ha scomposto Il Signore degli anelli in numeri.

Un po’ come la fisica scompone la realtà.
Esatto, ed è stata un’invenzione utilissima quella di “matematizzare l’avventura.” Oggi ogni gioco è fatto di mappe, di numeri di statistiche, abbiamo elementi RPG in ogni gioco. Tutto ciò che facciamo è prendere qualcosa, scomporlo in numeri e utilizzare quei numeri per creare divertimento. Più specificatamente, Doom ha preso elementi dalla nostra campagna di D&D. Carmack era il master e io adoravo il suo mondo, ma lo distrussi aprendo un portale sull’inferno e facendo entrare un esercito di demoni. Ricorda qualcosa?

C’è qualcosa che ti piace particolarmente o che non ti piace del game design moderno?
Non so se c’è qualcosa che non amo particolarmente, di sicuro mi piace Red Dead Redemption 2, l’idea di un mondo enorme pieno di storie tra cui scegliere, lasciando che sia il giocatore a decidere dove andare e quanto farsi coinvolgere nella narrazione. E poi l’intrico di differenti sistemi di gameplay che ruotano attorno al cuore centrale: quello dei cavalli, come in Breath of the Wild, che decide di che colore sono, quanto sono forti, come domarli, il tuo rapporto con loro, è affascinante e, per tornare al discorso di prima, alla fine è solo una evoluzione di Dungeons & Dragons.

“Penso che sia questo aspetto ad aver stancato molte persone: essere uccisi subito, nascere e morire, nascere e morire, senza poter fare nulla.”

Però oggi i videogiochi sono anche Fortnite e altri battle royale.
Beh, alla fine i battle royale sono solo una leggera variazione sul classico tema del deathmatch: un sacco di gente, un sacco di armi, una mappa che si restringe e chi resta in piedi vince. Già all’epoca di Doom avevamo King of the Hill che è la stessa cosa, più o meno. L’aspetto più interessante del gioco è che ha un tempo fisso massimo, così che il giocatore sa già quanto sarà impegnato nel migliore dei casi. È una caratteristica emersa più o meno ai tempi di Starcraft, quando sulla scena competitiva i match erano tarati per durare intorno ai 45 minuti. A dire il vero sono riuscito anche a giocare per otto ore di fila a Age of Empires, una sola partita, ed è per questo che devi prevedere una fine per i tuoi giochi online. Da questo punto di vista i battle royale sono molto efficienti, perché non ti puoi nascondere più di tanto, nonostante la mappa sia enorme.

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John Romero durante il deathmatch a ‘Doom’ durante Codemotion Milan 2018. Immagine per gentile concessione di Codemotion.

Quindi ti piacciono?
Li amo! Non sono il miglior genere del mondo ma mi piacciono, mi piace l’idea di una mappa gigante che dà a tutti il tempo di ambientarsi senza qualcuno che ti spari subito in testa con un fucile da cecchino. Penso che sia questo aspetto ad aver stancato molte persone in Call of Duty o Counter Strike: essere uccisi subito, nascere e morire, nascere e morire, senza poter fare nulla. I battle royale sono all’opposto e tutti possono gustare un assaggio del gameplay e raccontare la loro storia personale prima di venire colpiti in testa.

Doom ha 25 anni e il mondo dei videogiochi trabocca di nostalgia. Tu la vedi come un recupero importante o come qualcosa che ci frena?
Non tutti sono nostalgici per fortuna, ma in tanti lo sono. Nel passato di ognuno ci sono cose che hanno suscitato emozioni forti e ovviamente hanno creato dei legami interiori. L’altra sera ho conosciuto un tizio qua in Italia che è il più grande collezionista di oggetti legati alla serie di Ultima, ha roba molto più rara di quella che ho io! Oggi non sono poi così tanti a ricordarsi di Ultima, non sanno quanto ha influito sul settore e ignorano che esista questa collezione, ma io ho iniziato a fare questo lavoro perché volevo lavorare per Origin e il lascito di Richard Garriot è incredibile ancora oggi. Quindi no, non è solo nostalgia, comprendere certe cose è importante. In fondo, i musei non ci impediscono certo di innovare no? Ci mostrano ciò che è stato e le bellissime opere del passato che hanno influenzato il presente.

“Ciò che mi piace della nostalgia è che esalta il buon game design.”

D’altronde ormai i videogiochi sono abbastanza vecchi da guardarsi indietro e celebrare il proprio passato in modo artistico, no?
Ciò che mi piace della nostalgia, soprattutto con le nuove generazioni che riscoprono il passato, è che esalta il buon game design. Dimostra che non è una questione di grafica, ma di divertimento e di progettazione. Se un gioco è uscito trent’anni fa ed è ancora divertente, be’, quello è buon game design. Prendi Mario per Super Nintendo: il suono, le meccaniche di salto, i livelli, è perfetto — e non cambierà in 20, 30, 40 o 50 anni.

Anche Doom è invecchiato bene!
È un titolo più complesso, ma è comunque semplice, la sua complessità è interna, non nel gameplay. Alla base c’è semplicemente ciò che conta nel muoversi e nello sparare, interagendo in maniera sensata con l’ambiente. Wolfenstein 3D sotto questo punto di vista era molto più primitivo. Era pensato come un titolo di vent’anni prima, come un vecchio gioco di labirinti in soggettiva, c’erano già cose così. Ma Doom ti permetteva di guardarti in giro con maggiore libertà e questo ha cambiato tutto, era un gioco più avanti rispetto a ciò che c’era all’epoca.

E mentre oggi su Instagram Romero fa gli auguri al Doom Guy chiamandolo “figlio,” in queste ore il designer potrebbe sorprendere tutti, svelando i dettagli del prossimo progetto di Romero Games.