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La guida di Noisey al Death Metal in Italia

Il death metal in Italia non ha mai trovato grande seguito, nemmeno nella prima metà degli anni ’90, quando per cinque minuti in Paesi evoluti come la Svezia o l’Inghilterra suonare il metallo della morte riuscì addirittura ad essere figo (per quanto incredibile, è un concetto ribadito anche da Albert Mudrian nel divertente Choosing Death). L’ambiente dello Stivale, palesemente derivativo e destrutturato, persino nel momento di maggior interesse globale verso il genere aveva avuto difficoltà a produrre degli album di valore e non aveva ricevuto grandi attenzioni da parte degli addetti ai lavori. Per capire l’interesse riservato al death metal dalle nostre parti basti sapere che il debutto degli Electrocution, Inside The Unreal, ça va sans dire uno dei lavori nostrani migliori del tempo e oggi titolo ricercatissimo dai collezionisti, uscì per una sussidiaria di Contempo, l’etichetta fiorentina che distribuiva Diaframma, Perigeo e le versioni italiane dei titoli 4AD; non certo una realtà radicata nell’humus estremo.

Fu per questo che, al cambiamento verificatosi intorno al 1995 e riassumibile sostanzialmente nella perdita di interesse da parte del mercato discografico in questo tipo di corrente, lo scalcagnato microcosmo italico non aveva assolutamente la forza sufficiente per sopportare lo scossone e rimanere in piedi.

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Così, questo passaggio di moda, se nel resto del mondo portò allo scioglimento di alcune ottime formazioni e lasciò indenni solo i gruppi più solidi, in Italia portò a un’interruzione delle attività pressoché totale, e anche i pochissimi che prima del ’95 erano arrivati a pubblicare un album nel giro di un attimo scomparvero o cambiarono radicalmente la propria line up. Qualcosa ricominciò a muoversi, molto piano, solamente a ridosso degli anni 2000, ed ecco perché in Italia non si può parlare di una scena death metal, ma ogni gruppo bene o male ha fatto, e fa ancora, storia a sé.

Allo stesso modo, dalle nostre parti è molto raro trovare una band che sia riuscita a mantenere un nucleo forte tra le proprie fila, tanto che sono numerosi i casi di formazioni completamente rivoluzionate tra un album e l’altro e ci sono addirittura situazioni in cui nell’organico attuale non è rimasto proprio nessuno dei fondatori. Nonostante queste premesse a dir poco traballanti, però, nel 2017 la penisola è comunque in grado di farsi valere grazie a diverse realtà interessanti e, in qualche caso, uniche anche nel panorama internazionale; da proposte più romantiche e impegnate, ad altre strafottenti e caciarone, senza dimenticare realtà più serie e per puristi o produzioni finemente cesellate per il mercato di massa, per quanto possa esserlo quello di un genere la cui poetica si fonda su doppia cassa, cantato tubercolotico, violenza, decomposizione, immaginari horror, blasfemia e amenità di sorta.

Proprio da chi dell’immaginario horror e della blasfemia fa volentieri a meno vale la pena cominciare: i parmigiani Dark Lunacy, che sono uno di quei gruppi che tanti in giro per il mondo ci invidiano. Concentrandosi su tematiche alte e ricercate, gli emiliani da sempre infondono nella loro musica una fortissima impronta emotiva, a tratti raffinata, mutuata dalla passione del frontman Mike per la cultura russa e per i suoi grandi scrittori classici. Nel 2006 trovarono la definitiva quadratura del proprio cerchio portando queste influenze al livello successivo nello splendido The Diarist, un concept album dedicato ai novecento giorni di assedio di Leningrado, creando un perfetto connubio tra storia, letteratura e death metal. Questioni personali portarono poco dopo all’allontanamento tra il suddetto Mike Lunacy ed Enomys, suo compagno sin dagli esordi e fino ad allora autore di tutte le musiche, ma ancora oggi la band, pur se completamente rinnovata nella sua lineup e senza aver mai più toccato le vette altissime di oltre dieci anni fa, continua a scrivere ottima musica (di recente ha tagliato il traguardo del sesto album con The Rain After The Snow) e riscuotere successi in giro per il mondo, soprattutto oltreoceano. Come sempre, nemo propheta in patria.

Il nostro underground però può venire in soccorso anche di chi si intende poco di letteratura classica e cerca ascolti leggermente meno impegnati, magari in chiave cialtrona. I Cadaveric Crematorium, da Brescia, rispondono a questa specifica esigenza: figli bastardi di grindcore e brutal death metal, dall’inizio degli anni Duemila hanno vomitato in modo più o meno (ir)regolare album uno più scemo dell’altro, sempre divertendosi come pazzi. Il miglior episodio è sicuramente Grindpeace (Punishment 18, 2008), un’accozzaglia di rutti, urla, blast-beat, cover dei Guns ‘n’ Roses, citazioni dell’opera, omaggi a Quake III Arena e altro ancora. Roba da far impallidire il miglior psichiatra, ma anche il più recente One Of Them (The Spew, 2012), per quanto meno vario e imprevedibile, regala dei momenti interessanti. Trattasi di un concept album (nientemeno) dalle premesse narrative di grande valore: l’umanità, controllata mentalmente dal cattivo di turno, in un dato giorno ad una data ora, molla una scoreggia collettiva che modifica l’angolazione dell’asse terrestre, allontanando il pianeta dal Sole e facendone un’infertile landa desolata pullulante di aberrazioni mutanti. Un’epopea di grande pathos, raccontata a suon di bestemmie e grida suine.

D’altro canto c’è anche chi, pur abbracciando i canoni del grindcore, in canzoni da due minuti scarsi imbottite di doppia cassa e riff al cardiopalma infila il nichilismo più oltranzista. Maestri di questo (dis)ordine sono gli astigiani Cripple Bastards, che guidati dal cantante Giulio The Bastard si sono via via spostati dal noise/hardcore degli esordi per spingersi in territori più metallosi, tanto da approdare addirittura su Relapse, una delle etichette più specializzate in ambito deathgrind, per il rilascio del loro ultimo Nero In Metastasi (2014), a testimonianza del livello qualitativo di un gruppo che non teme alcun confronto. Pietra angolare del combo piemontese è l’imperituro Misantropo A Senso Unico, che nel 2000 già conteneva importanti spunti di riflessione come Non Servire A Niente (È La Tua Sorte) o Sbocco Nichilista. Quando l’hardcore più antiumano incontra la velocità del death metal non possono che uscirne dei dischi felici, fedeli a un socialismo degno dei Napalm Death più radicali.

Un altro nome che fa dell’ibrido tra differenti generi (e del nichilismo) il proprio marchio di fabbrica è quello dei Fuoco Fatuo, trio recentemente diventato quartetto e dedito ad una delle deviazioni “classiche” del death metal, ossia la mescolanza al doom. Già noti ai lettori di Noisey per essere stati tirati in ballo quando fu il momento di decretare la provincia più metallara d’Italia, i Nostri hanno una ricetta magica a base di suoni asciutti, tempi dilatatissimi e canzoni da dieci, dodici minuti con sì e no settanta parole ciascuna. Coerentemente con l’immaginario sepolcrale che vogliono evocare, i Fuoco Fatuo tentano di mantenere attorno a sé un alone di mistero, ad esempio suonando interi concerti con un telo nero appeso davanti, impedendo al pubblico di vedere sul palco altro che sagome. La volta che ho osato chiedere la ragione di questa scelta al frontman mi sono sentito rispondere: “non si chiede perché, credo la cosa sia già alquanto nichilista di per sé”, appunto. Qualsiasi sia il significato da attribuire a queste parole, devono aver avuto un buon effetto su chi di dovere in Profound Lore, una delle label indipendenti più eminenti del panorama statunitense, visto che il nuovo Backwater, previsto per il prossimo aprile, uscirà sotto questa egida.

Qualora, al contrario, queste derive non dovessero essere di gradimento, si può sempre cercare rifugio tra chi il death metal lo interpreta ancora secondo i crismi di venticinque anni fa, tra l’altro sempre rimanendo a Varese.

Sarà l’aria particolarmente sporca di quelle parti, ma dalla provincia dei sette laghi arrivano anche i figli non riconosciuti, benché riconoscibili, di Carcass e At The Gates: i Soul Rape. Il quartetto fa di tutto per far scendere la lacrimuccia nostalgica degli anni ’90, tanto che per l’artwork di copertina del suo (per ora) unico album, Endless Reign (Punishment 18, 2015), ha chiesto gli illustrissimi servigi nientemeno che di Dan Seagrave, IL maestro indiscusso dell’illustrazione death metal in persona, artista il cui pennello ha dato un volto ai lavori di più o meno chiunque, dai Morbid Angel agli Edge Of Sanity, passando per Benediction, Suffocation, Entombed, Nocturnus, insomma, chiunque. E, a questo punto, anche dei Soul Rape. Peccato solo che la band sia poco attiva e pubblichi materiale col contagocce, ma è un problema logistico che devi mettere in conto quando il tuo batterista è entrato in pianta stabile nei Node (altra formazione storica del sottobosco lombardo), il tuo cantante e compositore principale è architetto in Svizzera tedesca e il tuo bassista è un violoncellista dell’Arena di Verona. Chi dice che il death metal è un genere ignorante?

Sempre per la serie “metallari colti”, i Soul Rape si attestano solo sul secondo gradino del podio, perché il primo è occupato dai bergamaschi Veratrum (che potete ammirare nella foto in copertina), alfieri di un ottimo ibrido tra black e death metal, sulla scia dei Behemoth più truzzi, ma con molte più tastiere, probabile retaggio del frontman, chitarrista e principale compositore Haiwas, che musicalmente nasce proprio come tastierista. “Metallari colti”, dicevo, perché il buon Haiwas, oltre ad essere studioso di Satana, è studioso in generale: appena terminato un dottorato di ricerca a Oxford, per festeggiare il trentesimo compleanno l’Università Statale di Milano ha deciso di offrirgli una cattedra. Spero che il ruolo di docente non lo distragga troppo dai suoi doveri musicali, visto che i Veratrum sono una delle band più divertenti e interessanti degli ultimi anni: oltre al tamarrissimo uso delle tastiere, i Nostri sono anche uno dei pochissimi gruppi a cantare in italiano e a sviluppare la propria musica secondo dei concept ben definiti. Nel caso di Sentieri Dimenticati (originariamente autoprodotto nel 2012) si parlava di città mitologiche, mentre Mondi Sospesi (Beyond, 2015) si concentra specificamente su Babilonia.

Una formazione che invece originariamente si proponeva affine ai Veratrum, o per meglio dire, un’altra band che voleva fare i Behemoth, erano i Death Heaven, che dall’alto vicentino se ne uscirono con il discreto Viral Apocalypse nel 2007. Evidentemente insoddisfatto del risultato, il quartetto sparì dalle scene per quasi dieci anni, per ripresentarsi nel 2015 sotto il nome di Ad Nauseam con un disco a dir poco fulminante. Nihil Quam Vacuitas Ordinatum Est, uscito per la piccola ma specializzatissima etichetta ceca Lavadome nel 2015 è stato accolto positivamente pressoché ovunque, tanto da portare il gruppo di Schio fin proprio in Repubblica Ceca, sul palco del Brutal Assault, uno dei festival estremi più rinomati in Europa. La loro musica, che già ai tempi dei Death Heaven partiva da un inconsueto grado di difficoltà, è davvero complessa, senza per questo perdere l’approccio diretto e incazzato tipico del death metal. La cifra stilistica degli Ad Nauseam rimane ancora derivativa, dovendo tantissimo da un lato agli Ulcerate quanto a organicità nella composizione e dall’altro ai Gorguts in termini di sound, ma il livello raggiunto da questi ragazzi è sbalorditivo se paragonato alla media delle formazioni “di genere”.

Di tutto possiamo rimproverare il metal italiano, specialmente il death, frammentato, sempre in ritardo e incapace di imporre un sound proprio e personale; c’è un elemento, però, che accomuna molte formazioni nostrane: la perizia tecnica. Gli Ad Nauseam sono infatti solo (tra) i più recenti di una lista particolarmente corposa di nomi che non teme confronti quanto a capacità di esecuzione e abilità allo strumento; tra i tanti, due nomi di punta sono i Gory Blister e i romani Hour Of Penance. I primi sono dei veri e propri alfieri del death italico, che ricadono in pieno nel discorso iniziale relativo alle difficoltà degli anni ’90: formatisi nel ’91, arrivarono al completamento del debutto Earth Bleeds solo nel 1999, ma per ragioni estranee alla band (Noise Records, l’etichetta con cui i nostri trovarono l’accordo, venne acquisita e la società acquirente scartò numerosi album già pronti e in procinto di pubblicazione, tra cui proprio Earth Bleeds) non vide la luce in modo compiuto fino al 2003. L’evento, comunque, non riuscì a fermare gli avvicendamenti interni alla lineup, da sempre molto instabile tolti il chitarrista Raff Sangiorgio e il battersita Joe La Viola, e per il secondo lavoro, l’ottimo Skymorphosis, si dovette aspettare fino al 2006. Sound asciuttissimo, ritmo frenetico e strutture articolate sono da sempre i tratti distintivi di una formazione che si formò a Taranto, ma si trasferì presto a Milano, dove con l’avvento degli anni ’10, tra una sostituzione e l’altra, sembra finalmente in grado di rilasciare materiale a cadenza regolare (di poche settimane fa l’annuncio di un sesto album previsto entro l’anno). Evidentemente ispirati agli esponenti più tecnici della scuola americana, ma senza mai scadere in sterili virtuosismi e con una forte propensione al concept fantascientifico, questi veterani della scena nazionale si sono ritagliati una nicchia di fedelissimi in giro per il mondo e possono vantare anche la partecipazione di Karl Sanders dei Nile come cantante ospite nel quarto album, Earth-Sick (Sliptrick, 2012).

Gli Hour Of Penance d’altra parte sono, oltre che un altro consolidatissimo nome del panorama nazionale, lo spunto per aprire forse l’unica digressione plausibile in cui racchiudere più di un gruppo alla volta. Per quanto anche in questo caso diretta emanazione di una scena altra, quella statunitense capitanata dai primi Cannibal Corpse, Dying Fetus, Devourment e compagnia, l’Italia ha sparato più di una cartuccia in ambito brutal death metal, la corrente più animalesca e bestiale dell’intero genere. Antropofagus, Septycal Gorge e proprio Hour Of Penance sono ottimi esempi di brutallo alla mediterranea, poco noti alle grandi folle perché da questo Paese è difficile uscire, ma che nulla invidiano ad altre formazioni pur provenienti da nazioni improbabili, che però vantano ben più magnanimi riscontri di critica e pubblico. Prendete i Disgorge: perché dei Messicani che suonano brutal death metal (dei Messicani che suonano brutal death metal) devono “farcela” e degli italiani no? Mah. Sarà per questo che il quartetto di Roma, nell’arco della sua lunga e rocambolesca vita, si è pian piano allontanato dai suoni esordi, per avvicinarsi ad una forma sempre più orecchiabile e user friendly. Anche per loro, il progressivo ammorbidimento rispetto agli inizi coincide con un ugualmente progressivo ricambio dei musicisti, tanto che oggi nessuno dei membri originali fa più parte del gruppo. Questo non ha impedito al nome Hour Of Penance di continuare a produrre musica, e anzi di divenire via via più riconosciuto man mano che l’evoluzione procedeva. Freschissimi del lancio di Cast The First Stone (2017, Prosthetic), i quattro hanno appena tagliato il traguardo del settimo disco in studio e sono uno dei nomi più affermati del death metal italiano nel mondo.

Parte del gruppo ha alle spalle una formazione musicale di estrazione classica, il che ha portato ad una particolarissima quanto originale proposta musicale: orchestrazioni sinfoniche da un lato, growl e blast-beat dall’altro. Dopo l’ottima accoglienza riservata al primo album e un ep sintomaticamente chiamato Mafia, il gruppo ha fatto il grande salto ed è approdato su Nuclear Blast, l’etichetta specializzata in metal estremo più grande al mondo. Nei bassifondi metallari girano molte voci sulle modalità di perfezionamento di questo contratto di collaborazione, ma resta il fatto che da allora per i Fleshgod Apocalypse il percorso è stato di crescita continua. Via via sempre più levigati, lavorati ed elaborati, i loro dischi sono passati da un brutal con inserti classici a un vero e proprio ibrido tra un’anima classica e una estrema, arrivando fino ad inserti di soprano femminile. Tanti accusano il gruppo della capitale di essersi venduto alle logiche di mercato, snaturando il proprio sound e rendendolo via via sempre più schiavo di se stesso, e confrontando il recente King (2016) con i primi due album il cambiamento è netto ed evidente.

Dove stia il confine tra evoluzione e commercializzazione è difficile dirlo, ma il dato incontestabile è che oggi il seguito di Paoli e compagni è amplissimo, tra date che registrano il tutto esaurito (fuori dall’Italia, chiaramente) e oltre trecentomila follower su Facebook.

In un’ipotetica classifica, dove i Cannibal Corpse sfiorano i due milioni di like, gli in Flames superano di poco il milione e i Carcass non arrivano a seicentocinquantamila, un’esposizione e notorietà del genere da parte di un gruppo metal estremo italiano sono una grande notizia. Al netto di tutti i nostri limiti culturali e infrastrutturali, se qualche riflettore in più venisse puntato sul death metal del Bel Paese, potrebbero crearsi condizioni utili a far venire alla luce una situazione che, viste le premesse, si rivela decisamente florida, pur rimanendo continuamente segregata a un’esposizione commerciale inesistente, a festival organizzati col culo (anzi, ormai non se ne organizzano praticamente più), a locali assolutamente inadeguati in cui esibirsi.

Disclaimer: come tutti gli elenconi, il manipolo di gruppi nominati fino a qui è ben lontano dall’esaurire tutti i nomi che meriterebbero attenzione, ma sicuramente è una buona lista da cui cominciare.

Andrea è uno dei Lord di Aristocrazia Webzine.
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