Identità

La vita di una detenuta transessuale nel carcere maschile di Poggioreale

Basta fermarsi un attimo e pensarci, per capire quanto la transessualità in carcere sia un un vero e proprio nodo in cui si accavallano diverse e delicate problematiche, relative alla questione di genere, ai diritti dei detenuti e delle detenute, ai diritti LGBTQ, alla sessualità, alla funzione stessa della detenzione carceraria. Eppure, in Italia così come praticamente ovunque nel mondo, davanti a una tale complessità si è deciso per una sola, granitica risposta: le transessuali condannate a una pena di reclusione sono destinate ai carceri maschili.

Nel nostro paese, inoltre, l’argomento si sovrappone a una situazione di sovraffollamento e inadeguatezza del sistema carcerario. La casa circondariale di Poggioreale, a Napoli, è tristemente nota per condizioni detentive particolarmente degradanti. Qui, nel 2014, la popolazione detenuta transessuale ammontava a nove persone (nel 2013, stando agli ultimi dati forniti forniti dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, le detenute transessuali erano 69 in tutta Italia).

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Abbiamo chiesto a una ex detenuta transessuale, che a Poggioreale ha scontato due volte la sua pena, di raccontarci cosa vuol dire avere un corpo femminile all’interno di un carcere maschile.

Adesso ho 40 anni… quando ho cominciato? Mi prostituisco da quando ne avevo 13, all’incirca. Sono finita in carcere per tre volte. La prima perché ero minorenne, mi presero e mi portarono al riformatorio di Nisida [il carcere minorile che si trova sull’omonima piccola isola, a poche centinaia di metri dalle coste di Napoli]. Anche lì ero isolata, perché ero già transgender. Non potevo fare nulla con gli altri, dalla refezione alle docce ero sempre sola.

Una volta uscita ho continuato a lavorare sulla strada e poi ho intrapreso un percorso di droga. A quel punto i soldi non bastavano più e, oltre a lavorare, all’epoca ho fatto anche dei casini con qualche cliente, rubando e altro. Così sono tornata in prigione per due volte. La prima volta con una mia amica, per un furto a un cliente. Scontai quattro anni di reclusione, senza sconti di pena.

Quando arrivi al carcere di Poggioreale e sei una transessuale ti portano su al padiglione Roma [la struttura si divide in 12 di questi reparti, che contengono in totale 530 stanze di detenzione]. Nelle prime quattro celle ci sono i pedofili e i colpevoli di violenza sessuale. Le ultime sono riservate alle transessuali, con un grande cancello che divide il settore dagli altri.

All’epoca—a fine anni Novanta—gli ormoni non li potevi richiedere, figuriamoci pinzette, molle per capelli, reggiseni. Praticamente tutto quello che la tua famiglia ti mandava per pacco tornava indietro. La seconda volta a Poggioreale è stata tre anni fa, ho dovuto scontare un anno. Dal 1999 sono cambiate tantissime cose. Adesso gli ormoni puoi farteli arrivare, c’è un sessuologo, vengono gli assistenti sociali. C’è anche più vigilanza: vengono a controllare, fanno domande e si assicurano che non avvengano soprusi. Ma rimane comunque quella sensazione di discriminazione, quando, per esempio, c’è sempre la squadra di persone che non te la fa passare liscia: se deve farti sentire quella che sei lo fa senza nessun problema.

Insomma, l’ultima mia volta è stato molto più facile a livello materiale (la pinzetta ce l’avevi, potevi farti una tinta, avevi reggiseni, mutandine, addirittura scarpe con un tacco basso) ma a livello personale non c’è niente che sia migliorato.

Perché la vita carceraria di una transessuale, oggi come ieri, è strettamente limitata. Sei veramente costretta a stare zitta e a essere umiliata giorno per giorno. Già dal primo momento, quando ti portano in matricola, devi spogliarti davanti ad agenti che, per l’amor di Dio, fanno il loro lavoro, però sono uomini. Quindi devi stare nuda, fare flessioni e queste cose qua. E poi c’è quel rivolgersi a te col genere maschile, fin dal primo momento. Il continuo violentarti psicologicamente. Ti fanno pesare il maschile che c’è in te.

La cosa che più ti fa star male, comunque, è che quando anche un’altra persona, un altro detenuto, ti insulta o ti prende in giro e l’assistente che è lì presente non dice nulla. Non ti danno modo di difenderti e di farlo stare al posto suo. Quindi subisci anche da parte dei detenuti, soprattutto quando vai a fare i colloqui. Capita che durante i colloqui familiari i novellini, gli assistenti giovani, ti inseriscano assieme ad altri ragazzi. Per cui ti lascio immaginare, una trans in mezzo a 22-23 persone. Sai benissimo che già quando sono soli sono cretini, poi quando c’è il bulletto diventano tutti bulli. Quindi hai paura che ti possano fare del male.

A me non è mai successo nulla, ma un paio di volte qualcosa è successo ad altre detenute, e infatti gli assistenti in quel caso sono stati chiamati al consiglio disciplinare. A differenza di prima, però, adesso non sono tutti così. Ora c’è l’assistente che si ferma, parla, ti fa domande anche incuriosite, tipo, “Come ti sei fatta il naso, quanto hai rifatto questo, come hai fatto quello.” C’è questo scambio di informazioni che prima mancava assolutamente… prima era “Ricchiò tras int a’ cella e muori là,” basta.

Negli anni, insomma, è cambiata un po’ la cultura. Ma hanno contribuito anche le denunce che sono state fatte in passato, anche per molestie. Perché c’era la transessuale che ci stava, così come quella che non ci stava.

L’unica cosa che non è mai successa davanti ai miei occhi è la violenza fisica. Quello no, perché hanno paura, soprattutto con le transessuali, visto che hanno gli impianti lasciati dagli interventi di chirurgia estetica. Se mi dai un calcio in petto c’è la possibilità che una protesi mi si sposti. Cosa dovrei dire poi al giudice di sorveglianza? Allora loro evitano proprio.

Ci sono tante altre cose che si evitano, per le transessuali rinchiuse in un carcere maschile. Non potevamo partecipare alle attività previste per i detenuti, per esempio. A volte non venivamo chiamate neanche per le celebrazioni in chiesa. Le richieste di seguire i corsi venivano bocciate, a scuola non potevamo andare, ci tenevano davvero recluse. Loro dicevano che era per tutelarci, ora vallo a capire se ci tutelavano davvero o se non ci volevano ai corsi, se avevano paura che potessimo fare sesso con qualche altra persona. Non lo so. Ero reclusa al cento percento, un carcere nel carcere.

E tutto ciò avveniva per di più in un carcere come quello di Poggioreale, noto per le condizioni di sovraffollamento, di degrado, in cui anche le ore di passeggio sono un lusso che non tutti possono permettersi.

Quando ci sono stata l’ultima volta le ore d’aria erano due, una alle otto del mattino e un’altra a mezzogiorno. Avevamo un passeggio a parte, piccolissimo. I ragazzi hanno un passeggio enorme, con le reti di calcio per fare le partite, a noi invece rimane giusto lo spazio per fare avanti e indietro. Ed anche questo ti fa sentire diversa. Allora, come ti ho detto, facevamo le richieste per accedere ai corsi a cui partecipavano tutti gli altri. Se eri omosessuale e non avevi tratti particolarmente femminili qualche richiesta te la facevano passare, ma a noi non hanno mai consentito di fare nulla, restavamo in cella. Io facevo richieste per tutto: la scuola, il corso di pittura, il corso di informatica, catechesi, ma veniva respinto tutto.

Ora: so che bisognerebbe innanzitutto non trovarsi in una situazione del genere e fare il cittadino come si deve, ma a volte si cresce stando in certe situazioni. La mia opinione, comunque, è che ci dovrebbe essere una struttura diversa. A Rebibbia ad esempio c’è un padiglione intero riservato alle transessuali, che quindi tengono le celle aperte dalla mattina fino al pomeriggio—cosa che a Poggioreale non poteva succedere, perché se le nostre celle stavano aperte rischiavamo di incontrarci con le altre persone del nostro settore.

A Poggioreale anche altre sezioni restano chiuse, proprio perché al piano di sotto ci sono le transessuali. Quando viene un lavorante a portare la spesa, oppure un idraulico, un elettricista, deve sempre essere seguito da un assistente carcerario, che entra prima di lui nella cella manco fosse il domatore nella gabbia dei leoni.

Questa esperienza mi ha lasciato il terrore di ritornarci, mi ha fatto crescere e mi ha fatto diventare molto dura su certi tratti della mia persona. E tanta rabbia, esci con tanta rabbia. Quando sei fuori pensi alle ragazze che restano dentro… già non è bello, ma lì la senti doppiamente la diversità. Fortunatamente io non ho più nulla da scontare con la legge.

Sempre la prostituta faccio, ma la faccio dignitosamente. Siamo sotto al cielo, può succedere di tutto e di più, però sì, avrei il terrore di tornare dentro. Preferirei perdere una gamba.

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