È davvero possibile “mollare tutto”?

Foto via Flickr

Ogni mattina, appena sveglio, accendo il computer e senza nemmeno pensarci vado su Facebook—per abitudine, noia, riflesso incondizionato, quello che volete. E ogni mattina, la mia timeline viene assalita da articoli tutti molto simili tra loro, con titoli che recitano “La persona X ha lasciato il lavoro e una vita perfetta per fare il giro del mondo.” A forza di vederli, ho iniziato a riflettere e a chiedermi come avessero fatto, queste persone X, a mollare tutto senza battere ciglio. Io passo le mie giornate in un ufficio anonimo in cambio di uno stipendio modesto e di 40 ore di alienazione settimanale—ma non ho intenzione di mollare tutto da un giorno all’altro.

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Nonostante il mio apparente disinteresse ho la tendenza a drammatizzare un po’, quando si tratta di prendere decisioni che potrebbero farmi uscire dai binari su cui si è incanalata finora la mia esistenza. Dovendo lasciare il lavoro, la casa e la fidanzata per andare alla scoperta del mondo, sarebbero troppe le domande che finirebbero per paralizzarmi il cervello—a partire da quelle sui soldi. Sono un prodotto puro della mia epoca, e fatico a immaginare una vita senza un becco di quattrino, a dipendere dagli altri per sopravvivere.

Da qualche tempo—dalla “crisi”, diciamo—molti sembrano non voler più osare. Altri invece citano Brad Pitt in Fight Club (“È solo dopo aver perso tutto che siamo liberi di fare qualsiasi cosa”) come se Fincher fosse la reincarnazione contemporanea di Cioran. Così, mollare tutto è diventato “figo”, e pisciare in testa al nostro universo consumista un passaggio obbligato per chiunque abbia un po’ di buonsenso.

Di conseguenza, l’idea di chiamarmi fuori da questa nostra società nauseabonda—come ha fatto il capo del viaggio André Brugiroux—mi lascia sempre un po’ interdetto. Una volta passata l’eccitazione effimera della novità, come vivrei le mie giornate? Partire per conoscere il mondo, per me, sarebbe innanzitutto il rischio di rimanere solo. Se il viaggio è sempre sinonimo di nuove conoscenze, queste hanno una durata limitata, e si trasformano rapidamente in ricordi. Come un Erasmus senza fine, più o meno.

Nel mio spirito cartesiano, mollare tutto potrebbe riassumersi in queste parole: camminare molto, dormire in un fossato e finire a chiedere l’elemosina all’ingresso della metro. Eppure, ora come ora gli “avventurieri” sembrano condurre una vita molto più appetibile della mia. Foto di tramonti accompagnate dall’hashtag #Freedom, sorrisi enormi, corpi abbronzati: i social network instillano in me il dubbio, anche se so perfettamente che sono, per definizione, il contrario della vita reale.

In una situazione del genere, uno inizia a chiedersi se potrebbe perdersi qualcosa di più che la messa in onda per la decima volta di X-Files. Essere testimoni dell’esuberante gioia altrui quando la domanda più importante della tua giornata è “farò in tempo a comprare la carta igienica” è tanto gradevole quanto vedere un pitbull divorare un gattino.

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Ma potrei davvero essere felice senza i miei amici, il mio take away cinese preferito e le mie puntate domenicali al mercatino delle pulci? A sentire alcuni la risposta è sicuramente sì: come Nans e Mouts, due ragazzi che hanno deciso di girare il mondo senza soldi e senza vestiti e a cui France 5 sta dedicando or ora una serie. Vanno in giro per l’Europa con le chiappe di fuori e sembrano felici, ma non si accenna mai al fatto che la loro vita dipende in larga parte dalla benevolenza e la generosità di persone che, al contrario, vanno tutte le mattine a lavorare. Per poter mollare tutto, serve che qualcuno non molli affatto.

E sorge spontanea, a questo punto, una domanda: il viaggiatore intrepido è in realtà un egoista? Una persona che rifugge la “responsabilità” dicendo a se stessa che qualcun altro la eserciterà al posto suo? Vivere con un euro al giorno, oggi, è possibile perché ci sono persone che non hanno fatto quella stessa scelta. E un atteggiamento del genere non è forse la prova di una cupidigia dissimulata come libertà assoluta?

Dietro le foto perfettamente studiate di questi avventurieri del ventunesimo secolo si nascondono anche storie meno piacevoli. Come quella di Chanel Cartell e Stevo Dirnberger , due sudafricani che da qualche anno hanno deciso di mandare tutto al diavolo e partire. Su Instagram, dove hanno 120.000 follower, c’è spazio solo per foto magnifiche. Quello che non fotografano, però, è il tempo trascorso a lustrare i bagni delle stazioni di servizio turche per racimolare qualche soldo. Ed è un sacco di tempo.

Certo, non è una novità: mollare tutto ha un prezzo. “A noi piacciono le sfide, ci piace essere autonomi,” mi hanno spiegato i due. “Non vogliamo che la gente creda che facciamo una vita perfetta, soprattutto per chi ci segue col sogno di mollare tutto.” Allora perché non documentare anche questo lato dell’esperienza?

Molti di quelli che si lasciano alle spalle la routine spiegano quella scelta alludendo alla ricerca di una libertà perduta nella nostra società consumistica. Eppure, malgrado questa volontà di rigettare ogni possesso materiale, non esitano a mettere in scena la loro vita con una teatralità in cui sono contemporaneamente scenografi e protagonisti. In questo senso, allora, mollare tutto è un modo per uscire dall’anonimato—o, per eccesso, la dimostrazione di un egoismo senza limiti.

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Non sono sicuro di voler mollare tutto nella speranza di trovare il nirvana a migliaia di chilometri di distanza da dove sto ora. Come dice André Brugiroux, “viaggiare non è importante; essere felici, quello è importante.” E sono convinto che in fondo non ci sia niente di più gradevole della routine rassicurante e affettuosa—qualunque sia il luogo in cui vogliate esercitare questa routine.

Contrariamente all’opinione dominante, io promuovo una routine liberatrice, una monotonia che distrugge il bisogno di cambiamenti incessanti per poter, alla fine, approfittare della quotidianità. André Brugiroux l’ha detto così: “Mia moglie è la persona meno propensa al viaggio che conosca. Per farla uscire di casa serve una gru.”

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