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La storia del Canaro della Magliana, il più efferato delitto di Roma

Il canaro della Magliana

Un uomo dal volto irriconoscibile cammina in mezzo a una terra desolata portando sulle spalle il corpo senza vita di un altro uomo. Intorno ci sono dei cani, sullo sfondo una chiesa e delle rovine, il cielo è rosso. È questa la locandina di Dogman, il film di Matteo Garrone.

La vicenda alla base del film, similmente a quanto fatto ne L’imbalsamatore, è un’atroce storia di cronaca romana. Per Dogman Garrone ha scelto la vendetta di Pietro De Negri—detto il Canaro della Magliana per via del negozio per cani che gestiva—ai danni dell’ex pugile Giancarlo Ricci, un piccolo criminale di periferia.

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Per chi non la conoscesse, si tratta di uno dei casi di cronaca più truci di Roma, un delitto completo di sevizie e cocaina entrato subito nell’immaginario collettivo. Sentendone parlare di nuovo, mi è tornato in mente il clima che si respirava all’epoca. Quando è successo ero un ragazzino, e della vicenda conservo alcuni flash. I titoli in prima pagina, anzitutto, e la sensazione di essere davanti a una storia senza alcuna pietà, senza alcun riparo—nemmeno la follia. Poi c’è un’intervista a Dario Argento sul Messaggero, in cui il regista diceva: “Questo è un mattatoio, non c’entra con i miei horror.” Infine, ricordo come il passaparola avesse trasformato la vicenda in un mito che metteva in guardia chiunque dal vessare un uomo dall’aspetto fragile e innocuo. Ovunque, infatti, poteva nascondersi un Canaro in via di esaurimento nervoso.

Il fattaccio, come l’ha definito il giornalista e scrittore Vincenzo Cerami in un libro del 1997, si apre in una spelacchiata radura dove sono scaricati materiali di risulta, all’interno dello spicchio di Portuense chiamato Villa Bonelli che degrada verso la popolatissima Magliana. Era la mattina del 19 febbraio 1988: un allevatore di cavalli al pascolo con suo figlio e le bestie si era accorto di un sacco fumante—che, aperto dalle forze dell’ordine accorse immediatamente sul posto, aveva rivelato un corpo bruciato e mutilato. Tramite le impronte digitali lasciate si era poi riusciti a risalire a Giancarlo Ricci. Qualcuno lo aveva scaricato lì, e visti i precedenti—tra cui una gambizzazione—la sua morte sembrava una punizione esemplare, un regolamento di conti della mala.

Il corpo, stando alle cronache, portava i segni di orribili torture: la testa spaccata; quattro dita amputate e ficcate negli occhi, in bocca, persino nell’ano; e infine naso, lingua, orecchie e genitali tagliati. Commentando in seguito il ritrovamento, gli agenti sostengono di averne “viste di tutti i colori, ma una storia come questa non ci era mai capitata.”

Nei primi momenti erano state interrogate 85 persone, tra cui un tale che—insieme a Ricci—era arrivato in macchina il giorno precedente davanti al negozio “Mambli, lavaggio cani” di De Negri. Quest’ultimo, come alibi, aveva inventato una rapina concordata con Ricci ai danni di uno spacciatore siciliano che tornava carico di soldi dal giro di tossici. Doveva essere un buon colpo, ma qualcosa era andato storto: il siciliano aveva reagito, c’era stata una rissa ed entrambi si erano dileguati.

Dalla prima pagina de Il Messaggero del 22 febbraio 1988.

In astratto, una versione del genere poteva pure reggere. La Magliana di quei tempi era una zona maltrattata e deprezzata, con percentuali altissime di droga tra i giovani e il corollario di bische clandestine e piccola delinquenza. In quel contesto, come racconta il poliziotto Antonio Del Greco in Città a mano armata, De Negri è “una di quelle figure tipiche della zona grigia, di quel mondo spurio a metà tra crimine a lavoro, che popola le borgate e le periferie romane.” Per arrotondare, infatti, era dedito a furtarelli e piccolo spaccio di cocaina.

Al momento del suo fermo, gli indizi erano pochi. Il toelettatore di cani continuava a ripetere la sua versione, cioè che fosse un affare della mala siciliana. Nel cuore della notte, stanchi del suo blaterare a vuoto, gli investigatori lo avevano poi pungolato sull’orgoglio: uno insignificante come lui non poteva aver fatto una cosa così orribile. È a quel punto che De Negri si trasforma nel Canaro. “Una voce bassa di gola, che ha poco di umano, la voce dell’inferno, inizia il racconto dell’orrore,” ricorda Del Greco.

A stordire e mettere dentro una gabbia per i cani l’ex pugile, racconta, era stato lui. Lo aveva torturato vivo per sette ore, concedendosi solo una pausa per andare a prendere la figlia a scuola. Mentre lo stereo copriva le urla gli aveva amputato varie parti del corpo con gli attrezzi da lavoro, cauterizzando le ferite per evitare il dissanguamento. All’apice delle sevizie, gli aveva pure aperto la scatola cranica e “lavato il cervello” con lo shampoo dei cani.

Il Canaro, inoltre, sostiene di aver commentato ogni violenza inflitta, per fare definitivamente a pezzi tutto ciò che Ricci rappresentava per lui: forza, prepotenza, virilità, persino i vizi. “Mamma mia, a Giancà stavolta t’hanno conciato proprio male,” racconta di aver detto De Negri. “A Giancà, ma quale uomo, ora sei un femminiello! Giancà, adesso non pipperai più.”

Due giorni dopo il ritrovamento del sacco fumante, il Canaro è entrato in cella a Rebibbia. La confessione non gli era però bastata: il 2 marzo consegna alla giudice Olga Capasso un memoriale di 30 pagine, in cui veniva riepilogata tutta la ferocia consumata contro Ricci e spiegato nel dettaglio il motivo del suo gesto.

“Il Canaro si sforza di essere il più preciso possibile nel descrivere nei minimi particolari la progressione delle mutilazioni, lo scambio di frasi tra vittima e carnefice, lo scempio del cadavere,” ha dichiarato poi il magistrato. “L’ansia di dire tutto, non per liberarsi di un peso troppo grande, ma per fare capire a chi l’ascolta che lui, l’inoffensivo Canaro era stato il giustiziere di tanti piccoli delinquenti della Magliana vessati dalle prepotenze del Ricci, traspare da ogni rigo di quel verbale.”

Il memoriale costruisce la leggenda dell’uomo leale e generoso, amante degli animali e lavoratore infaticabile, ma pure esasperato fino all’inverosimile, costretto a trasformarsi in aguzzino armato di forbici e tronchesi che voleva far assomigliare la faccia della sua vittima “a quella di un cane.”

Solo che, appunto, è una leggenda—una sorta di delirante autofiction in cui il Canaro si era dipinto infinitamente più feroce di quello che era in realtà. Come mi dice Massimo Lugli, il decano della cronaca nera di Roma, “oggi sappiamo che la dinamica vera è diversa da quella che il Canaro volle raccontare: le mutilazioni avvennero tutte post mortem, e i segni di cauterizzazione col fuoco sono pochissimi. Non c’è nessuna traccia di shampoo nella scatola cranica.” Sostanzialmente, dunque, De Negri “fece un transfert su se stesso, così come avrebbe voluto essere il braccio destro di Ricci.”

Nel saggio Sangue sul Tevere, gli autori Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani ricostruiscono—atti giudiziari alla mano—come l’ex pugile, seppure indebolito dalle droghe, probabilmente non entrò mai nelle gabbie per i cani; fu invece steso subito con dei colpi alla testa che gli sfondarono il cranio. Insomma: nessuna bastonata sul corpo, nessuna lite, nessuna resistenza. Dall’inizio dell’aggressione fino alla fine delle mutilazioni il Canaro ha infierito al massimo per 40 minuti, molto meno delle epiche sette ore decantate nel memoriale. La cocaina avrebbe dilatato tutta la messa in scena.

Per condannare definitivamente il Canaro ci sono voluti quattro anni: la sentenza di primo grado optava per 27 anni di reclusione; quella d’appello, confermata dalla Cassazione, 24 e dieci mesi. In un primo momento, la vicenda giudiziaria non era così lineare.

Dopo 14 mesi di custodia cautelare, il Canaro era stato scarcerato perché giudicato incapace di intendere e volere e non più socialmente pericoloso. Una foto che campeggia sulla prima pagina de Il Messaggero lo ritrae fuori da Rebibbia, con occhiali da sole e grandi sorrisi mentre accarezza il cane del vicedirettore del carcere e gli dice: “Bella bestia, me la porti in negozio.”

La prima pagina de Il Messaggero del 13 maggio 1989.

Nessuno era andato a prenderlo, e così ci aveva pensato la giornalista Mariella Regoli del Messaggero a dargli un passaggio a casa. Il risultato è un’intervista folle dove il Canaro dice che rifarebbe tutto—”Ho fatto a lui quello che lui fece agli altri—e al termine “carnefice” preferisce “giustiziere.” È sicuro che alla Magliana lo considerino un benefattore—sebbene la gente la pensi in maniera diversa, come traspare da una cronaca di Repubblica.

La libertà provvisoria era durata sei giorni, dopodiché il giudice istruttore aveva riportato in galera il Canaro. Con la nuova perizia la parziale infermità mentale scongiurava l’ergastolo, ma la droga assunta lucidamente per farsi forza diventava un’aggravante. Gli esami sulla cocaina, in realtà, non vennero mai fatti. Il gioco sulle perizie era diventato una questione di avvocati, mentre il Canaro resisteva al suo memoriale: volevo passare per un uomo normale e non per un folle. Uno come tutti, che aveva reagito da uomo.

Inghiottito dal carcere, il Canaro è poi scomparsi dai radar. Giusto un cenno sulla sua condotta modello—ha fatto anche il barbiere in prigione, col consenso degli altri detenuti—ma niente più. Dopo aver scontato 17 anni è tornato in libertà nel 2005, per andare a vivere con moglie e figli in un’altra zona di Roma, sempre sotto sorveglianza, ma con un impiego part-time.

Ogni tanto, qualche giornalista lo va a cercare disseminando indizi di riconoscibilità nel pezzo. Il sessantunenne Pietro De Negri, però, è restio a parlare: ha paura di essere travisato, dice di temere per la sua famiglia e non vuole offendere quella di Ricci.

Eppure, per l’autore del più feroce memoriale negli annales di Roma è impossibile farsi dimenticare. Per il Canaro della Magliana non c’è alcuna damnatio memoriae.

“Resta una storia sempre troppo truce da raccontare,” dice Lugli. “Mi ha sempre ricordato il racconto di Poe Il barile di Amontillado, in cui un personaggio viene murato vivo per motivi analoghi. Se fosse stata una vendetta lampo non ne avremmo parlato così a lungo; è il come è avvenuto che rende il delitto del Canaro un caso eterno, altrimenti sarebbe una storia di un Barabba contro un altro Barabba.”