“Nessuno, men che meno Alan Vega e Martin Rev, può dire con esattezza il giorno, la settimana o il mese in cui l’entità Suicide si fuse fino a prendere vita…”
Kris Needs
I Suicide sono una band senza tempo: per questo motivo, senza nessun tipo di specifica ricorrenza, ho chiuso da poco il libro di cui vi sto per parlare e che li vede assoluti protagonisti. Trattasi di Dream Baby Dream di Kris Needs, conosciuto come uno dei principali biografi di George Clinton, Joe Strummer, Blondie, Cramps, New York Dolls e mille altri. Uno che, insomma, sguazza da sempre nel mare delle star-outsider, occupandosi di personaggi che rappresentano in particolare le contraddizioni della cultura pop.
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La biografia è uscita nella sua versione italiana il 2 dicembre scorso, licenziato dalla premiata ditta Spittle in collaborazione con Goodfellas, e non mi frega niente di averla letta in ritardo; poiché il contenuto è particolarmente frizzante e avvincente, quasi fosse una storia d’azione. Si tratta di un excursus della storia dei Suicide che va dagli albori fino all’ultimo respiro, con dettagliati episodi che fanno luce sulla formazione individuale di entrambi i membri della band e sui primi esperimenti musicali solisti. Il culmine si raggiunge nel momento in cui i Suicide si trasformano finalmente in un simbolo, un’icona di una fetta di umanità che cerca di liberarsi dalle catene con cui il mondo turbocapitalista l’ha legata.
Dopo i difficili inizi, la fama del duo è aumentata esponenzialmente col passare degli anni e con l’inasprirsi di un certo tipo di conflitti; la loro musica è diventata talmente aderente alla situazione, quasi una spietata colonna sonora, che il primo album Suicide potrebbe essere tranquillamente uscito nel 2000 invece che nel 1977, e American Supreme era già proiettato in una profetica junk era del 2020 (per questo, probabilmente, meno capito).
Come tutto ciò sia stato possibile è ben spiegato nel libro: soprattutto nell’analisi del contorno in cui Martin Rev e Alan Vega operavano. A differenza di molti altri scritti del genere, Needs approfondisce in modo chirurgico, fino a dilungarsi, non solo le bio degli artisti in questione, ma anche degli amici, dei manager, finanche delle mura in cui operavano (il leggendario CBGB, il Max’s, passando per il Palladium e gallerie d’arte connesse) in quanto personaggi e luoghi principali e non semplici comprimari nell’evoluzione della band. E, inevitabilmente, c’è un’analisi al vetrino degli artisti e musicisti che gravitavano nella loro orbita, che poi era l’orbita di New York.
In effetti, la biografia dei Suicide sembra la biografia di un’intera città. New York, negli anni Settanta/Ottanta abbandonata al degrado e molto lontana dal luogo hip che è oggi, rispondeva alle politiche oppressive dei conservatori con un potenziato senso di sperimentazione e libertà espressiva, e con il coraggio di chi non ha nulla da perdere. E i Suicide non avevano veramente nulla da perdere, se pensiamo che il primo album uscirà ben sette anni dopo la loro effettiva fondazione: una “gavetta” che tale non fu, visto che il ragionamento dei due si sviluppava più in termini di happening a lungo termine, se non permanente, che verso il mero successo discografico. Ricordiamo le esibizioni al limite dello scontro frontale e dell’autolesionismo stile tragedia greca dell’età industriale, cosa per la quale i Throbbing Gristle, probabilmente, sono loro debitori.
Nei primi anni Settanta tutto ciò sembrava qualcosa di alieno, e, direi, grazie al cazzo: gli unici che all’epoca smanettavano con circuiti auto costruiti e drum machine erano i Kingdom Come e i Silver Apples, e nemmeno loro, pur non essendo estremi quanto i Suicide, venivano considerati dal mercato mondiale. Figurarsi che impressione dovevano fare Vega e Rev, che all’inizio al posto delle batterie usavano i feedback degli amplificatori!
D’altronde i Suicide furono in anticipo su tutto: a parte il synthpop, il post punk e la new wave, i nostri traghettarono tutti direttamente verso il power noise, cosa che può confermare chi li ha visti negli ultimi gig in cui era ancora viva la buonanima di Vega. Ma l’attitudine era chiaramente rock, quindi non solo legata alla musica elettronica e contemporanea che pure masticavano (il bazzicare di Rev con i dischi di Stockhausen e compagnia bella è ben documentato). La passione dei due per il feticcio del juke box, per il doo wop, per i generi che in qualche modo venivano dalla strada e portavano all’integrazione razziale, romanticamente idealizzando un riscatto possibile dalla povertà con l’amore non disdegnando anche messaggi subliminali, è quella che ritroviamo in ogni produzione dei nostri. Produzione che, tesa fra l’apocalisse e una sensualità quasi sacrale, aveva a sua volta dei padri: il discorso performativo che elimina la barriera fra pubblico e artista sul palco è mutuato da Iggy Pop e dagli Stooges, lo straniamento iterativo da band come Question Mark and the Mysterians, la cui “96 Tears” non fece impazzire solo i Suicide ma anche, ad esempio, gli Stranglers moltissimi anni dopo. Per non parlare poi della scuffia per la musica classica nell’ultimo periodo, in cui Martin Rev s’ingozzava le orecchie di Pergolesi e Vivaldi.
In effetti, la storia dei Suicide è una storia, come già detto, di musicisti che s’incontrano e si scontrano, di personalità che bene o male vengono a contatto come mosse da un destino superiore. La cosa assurda, infatti, è che i Suicide divideranno il palco e avranno contatti con personaggi diversissimi tra di loro: da Elvis Costello (il quale li incitava sempre a scatenare rivolte quando loro aprivano per lui di modo che, personaggio singolare, non dovesse suonare) ai Ramones, cui l’etichetta di “punk” mal si addiceva una volta al cospetto dei nostri due eroi. I Suicide, infatti, si autoproclamavano punk molto prima del tempo (nel 1970, quando la parola non significava altro che “codardo”, “femminuccia” o veniva usata come epiteto offensivo verso gli uomini gay), come documentano i flyer con scritte tipo “punk mass” di cui si facevano fieramente vanto.
Quindi vediamo come in un caleidoscopio i Suicide passare per mode e modi, da un genere musicale all’altro e da un personaggio all’altro. Basti pensare a Peter Crowley, che passerà dal ruolo di VJ dei Velvet Underground a promoter dei Suicide stessi, o a Tony Williams, leggendario batterista di Miles Davis, al quale Martin Rev chiederà lezioni di musica intrufolandosi direttamente in casa sua avendo scoperto che erano vicini di casa. Ecco, il jazz in tutte le sue forme, da Monk al free passando dallo stesso Miles (che si vocifera fosse in platea durante qualche loro concerto), sarà una delle grandi passioni dei Suicide. Rev jammerà continuamente con alcuni dei migliori musicisti jazz della città affinando quelle capacità di composizione “al volo” che renderanno celebre il modus operandi dei Suicide, oscillante fra la composizione di getto e le registrazioni fatte in mezzo secondo, mantenendo però il perfezionismo e la cura del dettaglio di brani che crescono e si arricchiscono di pathos e trovate sonore a ogni nuova esecuzione, tanto che nell’ultimo periodo i nostri avevano direttamente abbandonato le prove.
L’attitudine street dei due era talmente radicata che nulla poteva scalfirli anche durante quello che poteva essere il “boom delle stranezze”: in piena no wave furono letteralmente i mentori di Lydia Lunch, ma non entrarono a far parte della storica No New York, troppo estremi anche per una simile operazione. In piena era punk furono avvicinati da Malcom McLaren che voleva prenderli sotto la sua ala, ma i due lo allontanarono con gentilezza. Con i camerini pieni di ragazzini tipo i Soft Cell (quindi tutta la nuova generazione del tecnopop), non goderono però dei frutti economici di quella moda, anzi ebbero i proverbiali problemi di distribuzione all’uscita di quello che è il loro capolavoro di accessibilità mista a disturbo ovvero Suicide: Alan Vega and Martin Rev.
Come già detto in altre occasioni, i Suicide avevano fan apparentemente impensabili come ad esempio Rick Ocasek dei super mainstream Cars, loro produttore dal secondo disco in poi, che appunto nei Cars porterà quel gusto per la provocazione e per le voci recitate e cariche di erotismo che erano il marchio di fabbrica di Alan Vega. O ad esempio Bruce Springsteen, con il quale condivisero ascolti gomito a gomito (gomito alto, perché il Boss sgattaiolava via dal suo management con i due teppisti armati di bottiglie di whisky) nello stesso studio, talmente fanatico che nei suoi concerti è sempre rimasta fissa la cover di “Dream Baby Dream” (ma addirittura nella reiterazione di “Born in the USA” possiamo intuire ripetuti ascolti di “Rocket USA”).
Un discorso di strada che è influenzato anche dall’architettura, che sia quella di Soho o di qualche altra zona della Grande Mela in cui trasuda il vissuto dei corpi che ci abitano: lo stesso crollo delle torri gemelle dell’11 settembre diventa un discorso in cui è la città in quanto tale a urlare il suo dramma. Dice Alan: “I resti degli edifici erano forse la cosa più orribile che io abbia mai visto nella mia vita. Era come una scultura che nessun essere umano al mondo avrebbe potuto concepire”. Una simbiosi urbano/umana insomma, un po’ come il binomio guerra/arte in cui l’una è incorporata e poi sputata dall’altra, in un battesimo del fuoco atto a scongiurare il ritorno di qualsiasi Vietnam, che è appunto uno dei primi concept alla Taxi Driver che ha da sempre accompagnato il duo.
Lo stesso discorso della “performance noise che diventa opera d’arte”, della guerra dei suoni ora sdoganata in tutte le gallerie d’arte, è in un certo senso una loro idea: se poi pensiamo che le sculture fatte di rifiuti postatomici di Alan Vega adesso magari le vediamo fare da qualche pischello con alle spalle il gallerista paraculo che poi le infila nella Biennale di Venezia, allora capiamo quanto fossero avanti. Se non se lo sono inventato, è indubbio che abbiano annusato l’aria risultando contemporanei in tutte le ere: basti citare anche i Pansonic, che senza i Suicide avrebbero sicuramente problemi d’identità—tanto numerose sono le loro collaborazioni con Vega da diventare quasi un’altra band, a parte. Insomma, la lettura di questo libro ci consegna una storia avvincente che potremmo citare per ore, fatta anche d’incredibili sofferenze come la morte di Mari, compagna di Martin Rev e collaboratrice fissa nelle sue ultime opere e la malattia di Alan Vega, che purtroppo lo porterà a lasciare questa valle di lacrime.
Certo, a volte si rasenta l’agiografia, soprattutto verso le ultime pagine: ma è un difetto che concediamo a un libro che ci ricorda ancora una volta come i veri loser alla fine sono quelli che indicano la strada. Perché la strada, loro, la conoscono bene. Buona lettura e “sognate, baby, sognate”.
Demented è su Twitter: @DementedThement.