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A Roma c’è un cocktail bar che ti serve un Negroni trasparente

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Il Negroni di Patrick è trasparente, servito in un bicchiere ghiacciato e non ha orpelli. Ti mette davanti a una nuova forma, ha tolto quello che la tua mente aveva registrato di un Negroni fino ad allora. Ed è strano, profondissimo.

Blade Runner e Giappone tradizionale. Immaginatevi i colori cupi, le luci al neon e una stanza con una porta scorrevole di legno e carta di riso accanto a dei videogiochi di Street Fighter anni ’80.

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Se siete riusciti a immaginarvi tutto questo, allora benvenuti da Drink Kong, il nuovo cocktail bar di Roma che nessuno aveva mai visto e nemmeno immaginato. Firmato da Patrick Pistolesi.

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Drink Kong. Tutte le foto di Alberto Blasetti.

La piazza su cui si affaccia è una delle più intime, mistiche, belle e avvolgenti che ci siano nella Capitale. Nella strada in basso c’è la vecchia Suburra, quello che oggi è il delizioso quartiere di Monti. Nella piazza convivono un bar vecchio stampo e una torre medievale altissima senza senso.

Con le poche finestre illuminate facendoti sognare che lì dentro ci abiti qualcuno. C’è oscurità, c’è la bellezza di una Roma che ti racconta più di 2000 anni di storia sotto i piedi, davanti agli occhi. E su un lato le flebili luci di Drink Kong che sembrano guardarti e dirti “entra, lo so che è stata una giornata lunga, sono qui per coccolarti”.

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Patrick, un po’ romano, un po’ irlandese.

Dietro al bancone, dietro al pensiero di tutto questo c’è Patrick Pistolesi, uno dei barman migliori di Roma e non solo. Alto, imponente, un po’ romano, un po’ irlandese. Tempo fa l’avevo incontrato per fare due chiacchiere su di lui, sulla sua storia. E ne sono uscite fuori a decine, di storie, che parlavano di adolescenza, fascino, Irlanda, la prima scena romana della mixology. Quella sera di quasi un anno fa già mi parlava di questo nuovo locale senza far trapelare nulla.

“La gente viene per avere del coraggio liquido. Che sia per provarci o per dimenticare. Viene perché questa roba fa effetto.

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Mentre tutti noi ci chiedevamo cosa avrebbe creato Patrick di così sensazionale, quando avrebbe aperto, lui in silenzio stava costruendo un cocktail bar che aveva TUTTO al suo interno.

Dopo anni passati a gestire i bar degli altri, era infatti arrivato il momento di aprire un posto tutto suo. “Arrivato a questo punto avevo due scelte. O cominciavo a fare una grossa consulenza che mi avrebbe portato un sacco di soldi. O mi dovevo aprire un bar tutto mio. E il mio bar doveva essere l’essenza di quello che sono”, mi ha detto mentre stavamo seduti al bancone, io con un Manhattan, lui con dell’acqua frizzante.

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Uno scimmione al neon ti guarda un po’ ovunque, ti segue persino in bagno; il nero delle pareti non rappresenta il soffocamento dell’oscurità, ma l’eleganza come viene concepita in Giappone. Si sta nel 1987, ma senza la nostalgia di quei locali che tentano di riprodurre pateticamente un’epoca.

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Il Manhattan. Non c’è ghiaccio, non ci sono scorze, non ci sono cannucce. Da Drink Kong si riduce all’osso.

E i cocktail sono minimalisti, a volte destrutturati e la cosa più buona che può capitarti dopo tutta la giornata.

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“Ci sono sempre dei preconcetti. A Roma, per esempio, si è spesso pieni di preconcetti”, mi dice Patrick. “Allora quello che ho voluto fare qui è stato di abbatterli. Prendi un’immagine semplice come un ponte. Ogni cosa ha un suo punto di vista. Se sei italiano, è facile che lo descrivi come forte, potente. Se sei un tedesco il ponte è addirittura femminile e ti sentirai dire che è armonioso, sospeso“. Questa storia del ponte penso sia la sua preferita, perché in effetti incarna perfettamente l’idea del suo cocktail bar. “Quindi, se vieni al mio bancone, mi ordini un Negroni e ti aspetti un bel cocktail forte, rosso, pieno di ghiaccio, io invece te lo faccio senza niente. Ti tolgo ogni sovrastruttura, ogni appiglio, per tirare fuori la tua essenza.”

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Il Negroni di Patrick è trasparente, servito in un bicchiere ghiacciato – non con ghiaccio dentro – e non ha alcun orpello o cannuccia. Ti mette davvero davanti a una nuova forma, sa davvero spiazzarti: è un Negroni, ma molto più elegante, O forse no, ma poco importa, perché ti ha appena tolto quello che la tua mente aveva registrato di un Negroni fino ad allora. Riparti da zero. Ed è strano, profondissimo.

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Il Negroni bianco. Fatto con Tanqueray Ten Gin.

C’è perfino un ‘Omakase Bar’, piccola stanza giapponese in cui ti affidi completamente al barman. Qui comanda lui. Il sinonimo di Omakase è “ce penso io”.

Lo stesso principio si applica a tutti i cocktail sul menù. Ognuno di loro è servito in un bicchiere ghiacciato, senza niente. Al massimo con un grande cubo di ghiaccio. E quando riduci all’osso, quando abbracci il minimalismo più completo, cosa ti rimane? L’istinto. Non hai difese, sei davanti a un concetto liquido studiato apposta per darti quello che ti serve a fine giornata. In fondo c’è qualcuno a cui frega qualcosa della fetta di limone o di arancia? “Diciamo le cose come stanno: uno va in un cocktail bar perché la giornata è andata bene o male.”, mi dice Patrick con la schiettezza che piace a me.

“La gente viene per avere del coraggio liquido. Che sia per provarci con una ragazza, un ragazzo, o per dimenticare. Viene perché questa roba fa effetto, deve fare effetto. E quando arrivi qui, che hai tutto sulle spalle, io uso il tuo istinto primordiale per coccolare la tua guardia abbassata nel modo migliore possibile.”

Il menù qui a Drink Kong è basato sui colori e su una brevissima didascalia fatta di tre aggettivi suggestivi. Devi scegliere il colore secondo l’istinto. Io l’ho fatto prima che mi dicesse tutto questo e quel Manhattan era esattamente l’intruglio di cui avevo bisogno. “Il bello è che devi essere sincero con te stesso.”

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Oltre al minimalismo, c’è un altro motivo per cui non si usa nulla per la presentazione. Le cannucce ci sono, ma le devi chiedere. E sono completamente biodegradabili. Patrick non voleva rifiuti nel suo locale, né tantomeno plastica inutile. “Aderiamo a questo progetto di Hong Kong, ‘No Straw Campaign’ (Campagna Anti-Cannucce, ndt.). Perché basta, abbiamo rotto il cazzo con sta storia: se possiamo fare un briciolo per i nostri nipoti facciamolo senza rompere troppo le palle, non ci vuole niente”.

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Kinza Room. Il primo Omakase Bar dove degustare e imparare ad affinare il palato.

Quando dico che Drink Kong ha tutto, intendo che ha davvero tutto, legato da una coerenza di fondo ad incastri non visibili, ma una volta scoperti, perfetti. I videogiochi sono a disposizione, free play, il sogno di ogni ragazzino al lido d’estate. E c’è perfino un Omakase Bar’, piccola stanza giapponese in cui ti affidi completamente al barman. Il sinonimo di Omakase è “ce penso io”.

“Come si fa con il sushi, nella Kinza Room ti affidi a me. Si faranno delle degustazioni di grandi whisky, dei seminari uniti al laboratorio che abbiamo di sotto dove facciamo fermentazioni e distillazioni e delle lezioni di un’ora e mezza in cui si allena il palato”, continua Patrick Pistolesi. “Facci caso, quanti ti chiedono qualcosa di torbato senza sapere nemmeno che cosa sia? Magari lo ordinano per non fare brutta figura. Queste lezioni servono al neofita per conoscere, per ordinare il prossimo drink sapendo quello che si chiede secondo i propri gusti. E poi dopo un’ora e mezza si esce più uniti, si crea un gruppo.”

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Nella parte ristorante ci sono piatti etnici come i gua bao.

Ad accompagnare il tutto ci saranno anche i piatti, rigorosamente contaminati, fatti dallo chef Marco Morello. Dumpling, sopra ogni cosa, che si possono prendere anche nella parte ristorante. “La difficoltà qui è stata far passare la cucina in secondo piano”, mi dice Marco. “Non devo mai dimenticare che il protagonista rimane il bere, deve essere un buon accompagnamento a quello, i ruoli si ribaltano, per una volta.”

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Il locale si riempie ogni minuto di più, la gente chiacchiera, si conosce, ride, ci prova. “Ecco quello che volevo. Volevo un bar vivo, volevo il sesso, la gente che ci prova, che parla, che si consola con l’alcol, un bordello. Sono tantissimi, che vengono, spesso se la prendono perché non li facciamo entrare, ma preferisco così che doverti fare aspettare con lo scontrino in mano come un cretino. C’è un Rinascimento in corso, stanno nascendo i nuovi bar.”

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Con quel Blade Runner come punto di riferimento romantico, dove i Replicanti vogliono vincere la morte a tutti i costi, trasportato in un luogo dove la livella dei pub che frequentava in Irlanda da ragazzino porta a un’infinito di materiale umano. Insieme al Giappone, con le sue contraddizioni. Quel luogo che quasi non esiste dove convivono perversioni, tradizioni, remissività e innovazione. “Quando sono stato in Giappone non volevo crederci. Era un mondo completamente impensabile fatto da gente che non poteva esistere. Li amo.”

E senza che me ne fossi reso conto, la chiacchiera era finita. Il colore che ho scelto stavolta era il nero, una bella dose di whisky al bancone, con dei piselli disidratati ricoperti di wasabi come snack. Il whisky per buttare via la fatica della giornata, un libro per stare un po’ da solo. Il dialogo con una persona appena conosciuta, il ritorno a casa.

Nel buio di un orario indefinito, i consueti duemila anni di storia passo dopo passo, con la scoperta che in quel bar da cui ero appena uscito, la faccia di King Kong non voleva spaventarmi. Voleva farmi capire che la bestia dovrei essere io, dovremmo essere noi.

Non guardando all’oscurità del locale come un male, ma come a un luogo dove poter finalmente abbassare la guardia.

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