Questo è un approfondimento dell’undicesima puntata del podcast “Sulla Razza” dedicata al “femminismo intersezionale”, che guarda alle interconnessioni tra diverse oppressioni, come quelle di genere, razza, classe, orientamento sessuale, disabilità.
“Sulla Razza,” di Nadeesha Uyangoda, Nathasha Fernando e Maria Mancuso, vuole intavolare una conversazione sulla questione razziale in Italia, e vuole farlo utilizzando un linguaggio aggiornato. Puoi ascoltarlo su Spotify, Apple e Google Podcast. Intanto, segui “Sulla Razza” su Instagram, o vai in fondo all’articolo per avere più informazioni sulla nostra collaborazione col podcast.
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Intersezionalità è un termine coniato da Kimberlé Crenshaw nel 1989 e di cui negli ultimi anni si sente parlare parecchio. “In ogni bio di Instagram che si rispetti,” dice Nathasha Fernando all’inizio dell’undicesima puntata del podcast, “si legge intersezionale,” una definizione che è spesso al centro di dibattiti molto accesi.
Sviluppando questo termine, Crenshaw voleva far capire come la discriminazione di genere e quella di razza non fossero due binari paralleli che non si incontrano mai, ma categorie che possono incontrarsi—intersecarsi, appunto. Il potere del termine di rendere visibili i molteplici strati di oppressione possibili (di genere e di razza, certamente, ma anche di classe, orientamento sessuale, disabilità, religione) e di portarli al centro del dibattito ha influenzato enormemente il modo in cui oggi si parla di violenza di genere e di femminismo. In questo articolo—pubblicato anche in occasione del 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne—ne ho discusso con cinque persone legate all’attivismo, alla divulgazione e alla sensibilizzazione su tematiche razziali, di identità e di genere.
“L’intersezionalità per me è il denominatore comune di ogni lotta: non esiste lotta che non sia intersezionale,” mi racconta Leila Belhadj Mohamed, attivista transfemminista esperta di geopolitica e diritti umani. “Non si può portare avanti la lotta per l’uguaglianza di genere senza tener conto dei sottogruppi discriminati. Non si può parlare di parità salariale senza tener conto della lotta di classe, o del luogo del mondo a cui ci si sta riferendo, o ancora delle discriminazioni etnico-religiose. Come non possiamo non tener conto che le istanze di genere, e non solo, siano diverse in base al contesto in cui si vive.”
Il femminismo intersezionale serve anche a non privilegiare un pezzo della propria identità a scapito di un’altra. Per Selam Tesfai, attivista del Laboratorio politico Cantiere, con cui sviluppa e supporta pratiche intersezionali nelle scuole del quartiere San Siro a Milano, “il femminismo intersezionale è stato una chiave di lettura per tenere insieme le lotte che porto avanti, e in questo sforzo tenere insieme anche me stessa. Ho smesso di pensare, anche inconsciamente, di dover scegliere tra istanze antirazziste e femministe e ho iniziato a pensare a come praticare lotte che non mi facessero rinunciare a, o mettere in secondo piano, una parte di me.”
Il concetto di intersezionalità è servito a Claudia, conosciuta online come La Mala Fimmina, per riportare la cosiddetta “questione meridionale” all’interno del dibattito femminista: “Il mio particolare vissuto personale e politico mi ha condotto a quello che oggi definisco femminismo siculo. Nascere e crescere nel meridione di Italia e nelle isole—in Sicilia nello specifico—ha delle implicazioni all’interno del quadro nazionale. Viviamo una condizione di deprivazione economica importante che si traduce in assenza di servizi efficienti, criminalità urbana diffusa e bassa alfabetizzazione. Siamo storicamente soggette a una discriminazione sistemica legata alla nostra origine e ci portiamo dietro stereotipi secondo i quali siamo tendenzialmente ignoranti, in qualche modo legati al fenomeno mafioso e buoni solo come manodopera a basso costo.”
“Ognuno di noi è un potenziale concentrato di intersezionalità,” mi racconta Majid Capovani, attivista femminista intersezionale, transgender e queer: “Prendi me per esempio: della sigla LGBTQIA+ ho praticamente tutte le lettere ad eccezione di LG, + compreso. Sono bisessuale, trans non binary, queer, intersex, aromantico, anarchico relazionale (non-monogamie etiche) e kinkster. In più sono una persona razzializzata, nello spettro autistico, pagano-musulmano. Prima della transizione ho vissuto il sessismo, sono stato chiamato tr*ia, ho subito molestie e catcalling. Sono anche un survivor, sopravvissuto a uno stupro e a una relazione tossica. In una sola persona si può ritrovare l’appartenenza a ben più di una singola comunità, con tutte le lotte specifiche che questi vari gruppi devono affrontare.”
Il potere dell’approccio intersezionale è anche di creare solidarietà tra diverse categorie oppresse che per lungo tempo non si sono parlate e di contrastare la segmentazione della società che è invece funzionale allo status quo. Lo sottolinea Jada Bai, mediatrice linguistica e culturale sinoitaliana: “Quando sono diventata madre ho scoperto quanto avessi interiorizzato il patriarcato e dalla mia esperienza ho provato a vedere le esperienze delle altre madri cinesi meno privilegiate di me. Tra minoranze non sempre ci si incontra o si riesce a collaborare e a me fa senso che ad esempio alcune femministe siano contro il ddl Zan. È come se si dicesse ‘la mia istanza è più importante’. No invece, puoi dire ‘per me è prioritaria, e la porto avanti,’ ma non è più importante di quella di qualcun altro. Tutte le lotte sono legittime e dobbiamo portarle avanti insieme. Alla maggioranza non conviene farti capire che potresti vincere, se tutte le minoranze si mettessero insieme.”
“Le lotte non le fanno i singoli,” continua Majid, “ma anche e soprattutto le comunità—e queste ultime non sono mai scollegate le une dalle altre, sono come insiemi che si intersecano in mille modi.” Per avere un approccio intersezionale è però essenziale essere consapevoli dei propri privilegi: “Anche nei gruppi marginalizzati ci sono persone più privilegiate di altre che hanno più spazio, basti pensare agli uomini cis gay nella comunità LGBTQIA+. Avere dei privilegi non è di per sé una colpa, ma diventa un problema quando questi non vengono utilizzati in favore dell’intersezionalità della lotta.”
E qui sta un punto chiave: anche chi si definisce intersezionale può a sua volta di marginalizzare. “Il femminismo intersezionale parte dai margini, e chi non è al margine non può sostituirsi a queste persone, deve semmai cercarle e ascoltarle,” dice Selam. Un esempio eclatante è quello dei gruppi femministi che escludono le persone trans o le donne migranti. Anche qui entrano in gioco dinamiche di potere e il rischio è che ciò che viene messo in pratica non sia del tutto coerente con la teoria.
Per Leila, “In Italia siamo di fronte a un movimento femminista bianco, borghese e liberale che ha occupato lo spazio a disposizione e si spaccia per femminismo intersezionale. Ormai è diventato di moda definirsi ‘intersezionali’ senza, nei fatti, esserlo o comprendere cosa ciò significhi.”
Come spiega Majid, “Spesso c’è una discrepanza anche piuttosto evidente tra la teoria e la pratica. Vedo persone, associazioni e collettivi che a parole portano avanti istanze e lotte intersezionali, ma che poi nei fatti non applicano quei principi o non creano spazi davvero safer per le persone. Basti pensare a tutte quelle volte in cui si parla di tematiche trans con una maggioranza di voci cisgender.”
Selam aggiunge un particolare molto importante: “Credo che le lotte che più rappresentano il femminismo intersezionale spesso non si definiscano lotte femministe o siano comunque lontane da un modo di intendere il femminismo come la lotta per l’emancipazione del corpo femminile. Sono le lotte contro sfratti e sgomberi nei quartieri a edilizia pubblica, sono le lotte per l’accesso al welfare, sono lotte sul lavoro che partono dal tutelare i diritti delle persone invisibili.”
Jada invece ricorda che in alcuni ambienti termini come “femminismo intersezionale” fanno fatica ad arrivare. Proprio per questo, sostiene, “Bisogna far arrivare la teoria alle persone e bisogna che arrivi il messaggio, perché è molto semplice: è non pensare solo a te, è capire quali sono i punti in comune con le altre minoranze e fare le cose assieme.”
Vale ancora la pena continuare a usare questo termine, allora? Lo chiedo a Leila: “Non so se sia arrivato il momento di coniare un nuovo termine o se sia il momento di riappropriarsi di questo, quello che so è che è urgente riprendere il discorso in un’ottica che vada oltre il genere.” Majid non ha dubbi: “Certo. È la base da cui dobbiamo partire per andare alla radice delle oppressioni ed eradicarla. Solo insieme possiamo essere marea.”
Il 27 novembre, a Roma, è stato organizzato il corteo nazionale contro la violenza maschile sulle donne e di genere.
Per 30 minuti, due volte al mese, Sulla Razza traduce concetti e parole provenienti dalla cultura angloamericana, ma che ci si ostina ad applicare, così come sono, alla realtà italiana—BAME, colourism, fair skin privilege. In ogni episodio si cerca di capire come questi concetti vivono, circolano e si fanno spazio nella nella nostra società. Sulla Razza è anche una newsletter, e qui su VICE pubblicheremo periodicamente contenuti di approfondimento sulle singole puntate.
Nadeesha Uyangoda, Nathasha Fernando e Maria Mancuso, grazie anche alle voci e ai punti di vista degli italiani non bianchi, parleranno di come queste parole impattano le vite di chi è marginalizzato e sottorappresentato da molto tempo.
Sulla Razza è un podcast prodotto da Undermedia grazie al supporto di Juventus.