Ghaman ha 29 anni (o almeno così sostiene) ed è originario della zona di Pokhara, in Nepal. Il violentissimo terremoto del 25 aprile 2015 ha arrecato seri danni alla sua abitazione e ha sconvolto l’economia del Paese, colpita poi ulteriormente dall’embargo non ufficiale dell’India sulle esportazioni. Quando la situazione è diventata insostenibile, Ghaman ha deciso di lasciare la moglie e i figli per tentare la fortuna in Italia, dov’è giunto lo scorso luglio.
Shahadat, 24 anni, è arrivato invece un mese dopo, ad agosto, dal Bangladesh, dove monsoni e alluvioni sono frequenti e spesso spazzano via interi villaggi. “Shahadat viveva nella regione di Naria, a ridosso del fiume Padma (il principale canale del Gange nel Paese), e dai video che mi ha mostrato è evidente come il suolo stia letteralmente cedendo sotto i piedi della gente,” racconta a Motherboard Giulia Bacchiega, volontaria di Legambiente Rovigo.
Videos by VICE
“Mi ha detto che quando si verificano questi fenomeni le persone tendono a raggiungere i parenti in giro per il Paese e a condividere, per necessità, lo stesso tetto. Non mancano i furti e i piccoli episodi di criminalità, dettati principalmente dalla fame e da uno stato di estrema povertà.”
I due ragazzi sono ospiti di una struttura di prima accoglienza nel Comune di Arquà Polesine, in provincia di Rovigo, in attesa di notizie riguardo alla loro richiesta di asilo. Non sanno di rientrare nella categoria dei cosiddetti migranti ambientali né che, in quanto tali, possono sperare al massimo nella protezione umanitaria.
In base alla Convenzione di Ginevra del 1951, infatti, non rispettano i requisiti necessari per essere riconosciuti come rifugiati. Vale a dire, come persone che “nel giustificato timore d’essere perseguitate per la loro razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le loro opinioni politiche, si trovano fuori dello Stato di cui possiedono la cittadinanza e non possono o, per tale timore, non vogliono domandare la protezione di detto Stato”.
A introdurre per la prima volta il termine “rifugiati ambientali” (espressione a cui si preferisce ora quella di “migranti ambientali”, proprio perché questa tipologia di migranti non gode dello status di rifugiato) è stato, negli anni Settanta, l’attuale presidente dell’Earth Policy Institute, Lester Brown, all’interno di un dibattito riguardante la pressione della crescita demografica sugli ecosistemi naturali e la loro capacità di rigenerarsi.
Il Lago d’Aral era uno dei laghi salati di origine oceanica più grandi al mondo, situato al confine tra Uzbekistan e Kazakistan. La sua scomparsa è considerata uno dei più gravi disastri ambientali causati dall’uomo. Le immagini satellitari presenti nel video sono state raccolte dal progetto Google Timelapse.
La formula è diventata però di uso comune solo in seguito alla pubblicazione, nel 1985, di un policy paper di Essam El-Hinnawi per l’UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente).
Il primo tentativo di inquadrare in maniera chiara i migranti ambientali risale invece al 2007, quando l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) ha coniato la seguente definizione operativa: “Migranti ambientali sono persone o gruppi di persone che, per motivi impellenti legati a rapidi o progressivi cambiamenti ambientali che pregiudicano le loro vite o condizioni di vita, sono costrette ad abbandonare le loro dimore abituali, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e che si spostano dentro o fuori i confini del proprio paese.”
Il fenomeno in questione è estremamente complesso, imputabile a un intreccio di cause tra loro complementari che ha reso molte terre inabitabili: guerre, cambiamenti climatici e disastri ambientali, fame, povertà, disuguaglianze sociali, dittature e persecuzioni — con un ruolo decisivo della lotta per l’accaparramento delle fonti energetiche, delle risorse idriche e delle terre fertili.
“Non è semplice stabilire quando le cause naturali comportino una condizione di migrazione forzata o meno,” spiega Federico Fossi, portavoce dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) in Italia.”Sicuramente i cambiamenti climatici possono far aumentare indirettamente i rischi di conflitti violenti e guerre civili, amplificandone i fattori scatenanti come la povertà e gli shock economici.”
Il rapporto dell’UNEP From conflict to peacebuilding. The role of natural resources and the environment, pubblicato nel 2009, ha identificato a partire dal 1990 almeno 18 conflitti violenti generati dallo sfruttamento delle risorse naturali, sottolineando che il 40 per cento delle guerre civili (come quelle in Angola, Congo, Darfur, Medio Oriente) degli ultimi 60 anni si collega alla gestione, all’accesso e allo sfruttamento delle risorse naturali.
“Basti pensare alle guerre per il petrolio, come quella in corso in Siria,” puntualizza Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente. Più in generale, le migrazioni ambientali sono in larga parte migrazioni interne.
Secondo l’OIM la probabilità di essere sfollati a causa di un disastro sono triplicate rispetto a 30 anni fa, e il fenomeno riguarderebbe sempre di più anche l’occidente sviluppato. Norman Myers, uno dei maggiori studiosi di migrazioni, prevede 200 milioni di potenziali migranti ambientali entro il 2050.
A disastri e calamità naturali vanno poi aggiunte le migrazioni forzate per cause ambientali connesse a fattori di origine antropica (come siccità, dighe, progetti di sviluppo urbano e mega-eventi), le quali rimangono spesso fuori dai radar perché si tratta di migrazioni forzate, difficili da quantificare, dovute a più cause interagenti e a lenta insorgenza.
In proposito, tra i problemi più seri c’è senza dubbio l’innalzamento della temperatura media globale (che i firmatari del protocollo di Kyoto si sono impegnati a limitare a meno di 2°C rispetto ai livelli preindustriali), al centro degli accordi sul clima di Parigi (Cop21) siglati nel 2015 da 196 Paesi con l’obiettivo di abbattere l’emissione dei gas serra.
“Diversi studi e rapporti autorevoli indicano che i cambiamenti climatici, in combinazione con altri fattori, provocheranno in futuro sempre più movimenti forzati di popolazione”
Con l’esclusione degli Stati Uniti, l’impegno è stato confermato da parte dei membri del G7 e dall’Unione Europea durante il G7 energia che si è svolto a Roma il 10 aprile. Ma con le attuali politiche economiche ed energetiche, la possibilità che lʼinnalzamento delle temperature superi i 4°C entro il 2100 sono del 40 percento, con un 10 percento di probabilità che si arrivi addirittura a oltrepassare i 4,8°C.
In base a quanto riferisce UN Water, agenzia per il diritto all’acqua delle Nazioni Unite, entro il 2025 1,8 milioni di persone vivranno in condizioni di scarsità idrica assoluta, mentre due terzi della popolazione globale potrebbe soffrire tensioni cagionate dall’accesso all’acqua.
Il Desertification Report 2014 della Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione (UNCCD) stima invece che da qui al 2020 60 milioni di persone potrebbero spostarsi dalle aree desertificate dell’Africa Sub-Sahariana verso il Nord Africa e l’Europa.
Proprio l’Africa Sub-Sahariana, e specialmente il Senegal, è una delle aree da cui provengono moltissimi migranti ambientali oggi.
Secondo le Nazioni Unite i senegalesi fuori dai confini nazionali sono complessivamente 500.000, mentre per il Ministero dei Senegalesi all’Estero si arriva a oltre 2.500.000 persone, distribuite prevalentemente in Gambia, Francia e Italia. Non a caso, il primo progetto italiano dedicato al fenomeno delle migrazioni ambientali si è concentrato sui migranti senegalesi.
Si tratta del BASE (Bureau D’appuis Aux Senegalais De L’Exterieur), promosso e sostenuto dall’OIM e dall’UNCCD in partenariato con l’Ambasciata senegalese e il Comune di Milano, che si pone come obiettivo primario quello di informare i cittadini senegalesi in Italia sulle opportunità di investimento nel loro Paese d’origine, con particolare riferimento all’agricoltura sostenibile e alla riabilitazione delle terre.
“Da gennaio il BASE ha un ufficio a Milano in cui lavorano quattro collaboratori senegalesi e una consulente italiana,” afferma Giulia Castro, consulente dell’OIM Italia. “L’idea è partita dal Senegal. Si tratta di un progetto pilota che si vorrebbe replicare in Spagna e Francia.”
Secondo quanto riferisce Flavio Di Giacomo, portavoce dell’OIM Italia, l’anno scorso sono arrivati in Italia 10.327 migranti senegalesi, circa il doppio rispetto al 2015. I migranti di nazionalità senegalese rappresentano il 26 percento dei migranti presenti in Italia.
“Ma è impossibile stimare quanti abbiano deciso di lasciare la propria terra per motivi ambientali,” precisa Di Giacomo.”Sia perché tutti coloro che non hanno diritto alla protezione internazionale sono genericamente definiti migranti economici, sia per motivi statistici — dal momento che in Italia manca una specifica raccolta dati.”
Secondo l’OIM la probabilità di essere sfollati a causa di un disastro sono triplicate rispetto a 30 anni fa
“Diversi studi e rapporti autorevoli indicano che i cambiamenti climatici, in combinazione con altri fattori, provocheranno in futuro sempre più movimenti forzati di popolazione. Gli stati hanno quindi cominciato a prendere in considerazione le lacune legislative riguardanti queste migrazioni forzate, che non sono disciplinate dalla Convenzione di Ginevra del 1951,” dichiara Federico Fossi dell’UNHCR.
“In questo contesto, l’Agenzia ONU per i Rifugiati, piuttosto che appellarsi a una nuova convenzione internazionale sui movimenti transfrontalieri dovuti a calamità naturali, sostiene l’integrazione nelle legislazioni nazionali dei singoli Paesi o delle regioni di pratiche effettive che si adattino alle situazioni specifiche e alle sfide locali.”
Considerato come il riscaldamento globale e le calamità naturali stanno sconvolgendo interi ecosistemi e costringendo i loro abitanti alla fuga già ora, e come questa realtà potrebbe presto riguardare anche i paesi occidentali, la messa a punto di politiche mirate a contrastare queste situazioni — e ad accogliere chi è costretto a lasciare la propria terra — dovrebbe essere una priorità assoluta. Eppure, il dibattito internazionale sul cambiamento climatico continua a fare passi indietro. Indubbiamente, la sfida deve ancora iniziare.