Salute

Perché meno esco più ho paura di uscire?

L'idea di varcare la soglia di casa da quando sto in quarantena mi fa stare malissimo, e non capisco bene perché. Un esperto mi ha dato una spiegazione.
Vincenzo Ligresti
Milan, IT
paura uscire coronavirus
Illustrazione di Matteo Dang Minh.

Durante questa quarantena abbiamo un sacco di domande su cosa sta capitando al nostro modo di rapportarci con noi stessi, col mondo e con gli altri. Per questo abbiamo pensato a un appuntamento periodico, una specie di angolo in cui raccogliere i nostri pensieri, metterli sotto forma di domanda e lasciare che sia un esperto a rispondere. Questa è la prima puntata. Se avete dei temi da sottoporci per i prossimi episodi, scriveteci in DM su Instagram.

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Domanda: In questi giorni di quarantena il mio umore cambia spesso. Alterno fasi in cui credo di poter spaccare tutto, ad altre in cui mi sento completamente inerme. Il momento peggiore è arrivato l’altra sera, quando ho sperimentato il secondo attacco di panico in meno di un mese. Non mi succedeva da anni di averne, e così ravvicinati.

Cosa stavo facendo? Scrivendo la lista della spesa, ma l’idea di uscire di casa per la seconda volta dall’inizio della quarantena mi ha agitato tantissimo. Il tempo sembra essersi dilatato, e il timore di essere giudicato perché magari compro cose che sembrano inutili mi tormenta. In sostanza, meno esco più ho paura di uscire. Me ne vergogno—a maggior ragione se penso che a casa prima non ci stavo mai. Perché succede?

Risposta di Laura Guaglio, psicologa e psicoterapeuta specializzata in gestione e superamento di eventi traumatici ed emotivamente stressanti: L’idea di sentirsi a disagio in una situazione che prima era percepita come la normalità può creare in noi un senso di inadeguatezza. Ci si domanda "Come mai prima riuscivo (a uscire) e adesso no?" La differenza sostanziale è che adesso la persona è stata sottoposta a un evento stressante che, nel bene o nel male, ha modificato il suo modo di comportarsi, di vedere le cose. Probabilmente è una modifica temporanea, ma bisogna prenderne atto.

Messe in conto casistiche specifiche, come chi è agorafobico o ha ansia sociale, o persone che soffrono di disturbi d’ansia o ne hanno sofferto, la situazione che stiamo vivendo è talmente eccezionale e collettiva che il comprensibile timore, più o meno accentuato, di uscire di casa può essere una delle più comuni reazioni, anche da parte di quelle persone che potremmo definire ‘più equilibrate emotivamente’. Chiunque, infatti, in questo momento può sentire il peso del distress, la componente negativa dello stress, che se permane può diventare avvilente. In questo caso non stiamo parlando di uno stress dettato da un esame che una volta superato farà calare l’adrenalina, è qualcosa di molto meno definito, conseguente all’incertezza della situazione e la sua conclusione.

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Ci sono diversi fattori che a livello individuale, in questo specifico caso, entrano in gioco ed alimentano la voglia di rimanere tra le mura di casa. Innanzitutto, il rifiutarsi di vedere o accettare che i propri riferimenti siano mutati sensibilmente. Se esco mi rendo conto di com’è cambiato il mondo che conoscevo. Vedo la città deserta, i negozi chiusi, le persone che incontro sono munite di mascherina, guanti. La nuova realtà è impattante, può sconcertare, disorientare, potremmo rigettarla. A questo, poi, si unisce un fattore molto più prosaico: a livello neurobiologico e fisico, meno movimento faccio, meno esco di casa, meno avrò voglia di uscire. A cui, ancora, si sommano le paure sulle probabilità di un contagio. Ti dici: “Okay, se devo fare la spesa mi devo muovere coi mezzi pubblici, ma poi dovrò anche prendere il carrello. Sarà un carrello toccato da chiunque. Sicuro. Chi lo avrà toccato? E se per sbaglio entro in contatto con un asintomatico? E se fossi io l’asintomatico e mettessi a rischio gli altri?” Sto facendo un esempio di flusso di coscienza che credo sia passato in testa un po’ a tutti—e a chi non lo ha ripetuto ad alta voce, consiglio di farlo. È sempre un bene parlare di ciò che si prova.

Tra l’altro questo flusso è stato probabilmente maturato dopo lo “shock” delle prime uscite, e dopo una presa di coscienza dei propri comportamenti. Del resto siamo nel campo della psicologia dell’emergenza: nelle persone che stanno attraversando o hanno attraversato un evento catastrofico, anche se non hanno subito dei reali danni, si possono innescare comportamenti, dettati dalla tensione emotiva, che non si aspettavano potessero sperimentare.

Proprio per questo, anche giudicare a caldo il comportamento degli altri, senza conoscere le loro motivazioni, è sempre un rischio e ne può risultare un’analisi superficiale. Per esempio, sulla quantità di cibo che le persone hanno acquistato al supermercato. Se fare in una volta la spesa che in altre condizioni avresti fatto tre volte per coprire lo stesso periodo di tempo—ovviamente evitando gli sprechi, senza accumulare inutilmente o rubare dai carrelli degli altri—ritieni sia la tua strategia di coping più efficace [ovvero quei meccanismi psicologici che ognuno di noi mette in atto per fronteggiare dei problemi emotivi e interpersonali], non è il caso di sentirsi in colpa.

In definitiva, la vergogna, l’ansia, l’alternanza di stati d’animo che stai provando, o ancora l’apatia, la depressione sono tutti sintomi che in questo periodo possono essere sperimentati, e che quando tutto questo sarà finito potrebbero avere degli strascichi—ma che se poi non svaniscono dopo tre/sei mesi è consigliabile affrontare con un esperto.

La paura adesso è giustificata, ma dobbiamo anche cercare un modo per valutarla oggettivamente, di non farci travolgere, rimpicciolirla. La paura è legittima, ma bisogna sempre trasformarla in nostra alleata.

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