Health

Essere dipendente dall’ago significava bucarmi anche quando finivo l’eroina

Questa è una storia che non mi piace raccontare.

Vivevo in uno squallido monolocale con mio marito a Longmont, la periferia più povera e lurida di Boulder, in Colorado. Eravamo entrambi a rota. Iniziava un nuovo fine settimana “di pulizia”, come se bastassero due giorni per cancellare anni di dipendenza dall’eroina. Il nostro appartamento era talmente minuscolo da sembrare una cella, il bagno era incastrato tra il lavandino della cucina e il letto, nascosto solo da una sottile parete di cartongesso.

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Quando litigavamo, mio marito e io urlavamo talmente tanto che alla fine il padrone di casa ci aveva offerto un appartamento più grande alla metà del prezzo, perché ognuno di noi potesse avere il suo spazio. Quel giorno, però, eravamo silenziosi. Stavamo davvero male. Zero droga, zero soldi—ci eravamo fatti tutto intenzionalmente in un’ultima dose. Non ci rimaneva altro che cotone usato, cucchiai e un pacco di siringhe.

Non ricordo di chi fu quell’idea disgustosa. Poco importa. L’abbiamo fatto entrambi. Abbiamo recuperato le siringhe vecchie, le abbiamo aperte e abbiamo raschiato ogni residuo, recuperato ogni singola goccia dallo stantuffo e dall’ago. Controllavamo entrambi, mettendo l’ago in controluce quando non eravamo sicuri se erano residui rossi o marroni—“Ti sembra sangue o roba?” Alla fine, abbiamo ottenuto un orrendo miscuglio.

Quando ci ripenso, mi viene voglia di strozzarmi. “Ti stai per iniettare del sangue sporco!” vorrei urlarmi, e vorrei lasciar andare quel cucchiaio lurido. Ma è solo un ricordo, indelebile e irrimediabile. Non mi resta che osservare me e mio marito versare il composto nelle siringhe più appuntite che avevamo trovato, e iniettarci una cosa che, avremmo dovuto immaginarlo, ci avrebbe fatto solo male, tanto male.

Non so come abbiamo fatto a sopravvivere. Abbiamo passato le ore successive a contorcerci nel letto, gemendo in un bagno di sudore, trafitti da un dolore che sembrava letale. Non mi spiego come non sia durato più a lungo o perché non ci abbia davvero ucciso. Qualsiasi cosa ci fosse in quelle siringhe—sangue vecchio, sporcizia, batteri—di sicuro non era stata una buona idea iniettarsela in vena.

Quella è stata la sostanza non oppiacea più pericolosa che mi sia mai iniettata, ma non è certo stata l’unica. A volte mi bucavo con l’acqua in cui avevo intinto un batuffolo di cotone usato e pregno d’eroina. Mi sono iniettata delle pillole pestate. Mi sono quasi iniettata benzodiazepine non idrosolubili. Mio marito una volta ha usato dello Xanax mischiato ad alcol (ero davvero gelosa, anche se poi gli aveva soltanto bruciato la vena). Al di fuori della comunità tossicodipendente questi comportamenti possono essere percepiti come un’insaziabile voglia di sballarsi, ma chi ci è passato sa che è pura ossessione per l’ago.

La dipendenza dall’ago—cioè il desiderio compulsivo di bucarsi—non sembra essere molto riconosciuta dai tradizionali modelli di assistenza. “Non è generalmente considerato un fattore influente nello sviluppo di un problema di tossicodipendenza,” spiega Mary Jeanne Kreek, direttrice del laboratorio per la cura delle dipendenze della Rockefeller University.

Eppure il rito dell’iniezione aveva qualcosa di affascinante. Far roteare la roba sul cucchiaio. Vederla scendere nella siringa. Il pizzico della puntura. Quella goccia di sangue che entra nella siringa quando controlli di aver beccato la vena. Il movimento lento con cui spingi la droga dentro il tuo corpo, e un attimo dopo, l’effetto.

Mi guardavo allo specchio mentre scaldavo la droga con una siringa in bocca e pensavo, “Questa è la me che amo di più.” Non era solo l’eroina a creare dipendenza, ma anche l’iniezione in sé.


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Stanton Peele, creatore del Life Process Program e tra le voci più controverse nella ricerca sulle dipendenze, sostiene che le persone non sviluppino una dipendenza dalle sostanze, ma dalle esperienze. Il rito ha un ruolo estremamente importante. Per questo paragona l’atto dell’iniezione a fumare una sigaretta.

“Nessuno dice, ‘Sono dipendente dalla nicotina.’ Anche fumare, però, è un rito. È un’attività,” spiega. Proprio come succede col fumo, l’utilizzo delle droghe è tanto importante quanto il loro effetto sul corpo. Stanton sottolinea, quindi, la forte necessità di luoghi sicuri per la riduzione del danno, ambienti protetti e sterili dove le persone possano assumere sostanze stupefacenti sotto la supervisione di infermieri qualificati.

È chiaro che, ad oggi, la dipendenza dall’ago non è riconosciuta come patologia. Non condivido, però, la posizione di Peele secondo cui la dipendenza da eroina sarebbe principalmente causata dall’esperienza in sé—nella realtà, le terapie a base di metadone e buprenorfina hanno aiutato moltissime persone, me compresa. D’altro canto, non sono nemmeno d’accordo con chi dice che la dipendenza dall’ago sia del tutto irrilevante.

Capire la dipendenza dagli aghi è fondamentale per fare passi avanti nella cura della dipendenza, dice Richard Pates, psicologo clinico e professore all’Università di Worcester. Pates racconta di aver incontrato diversi pazienti che utilizzavano acqua o altre sostanze per bucarsi, senza ottenere gli effetti stupefacenti dell’eroina. Nelle sue ricerche, Pates sottolinea come il fenomeno sia stato oggetto di dibattito negli anni e sia stato anche trattato da autori come William Burroughs, nonché presente in diverse lingue che hanno coniato termini specifici per parlarne, senza che però questa patologia fosse realmente considerata tale. Grazie a uno studio che ha condotto nel 2001, Pates ha scoperto inoltre che gli individui traggono un secondo piacere dall’atto dell’iniezione, superiore a quello dell’effetto della droga stessa. Il piacere predominante è infatti quello sessuale.

“L’iniezione è un atto profondamente intimo.” Dice Pates, “Se pensiamo al sesso, si tratta di un atto estremamente personale. Non voglio sfociare nell’analisi freudiana, ma anche qui c’è una sorta di penetrazione.”

Quando Pates descrive la similitudine tra l’atto sessuale e la dipendenza dall’ago, d’istinto ripenso ai primi mesi della relazione con mio marito—al modo in cui stringevo forte il suo braccio, affondando le dita nella carne pallida dell’avambraccio, cercando la vena. Poi lo bucavo. E in quei primi mesi spesso dopo esserci fatti continuavamo a toccarci, a starci attaccati.”

“[La dipendenza dall’ago] è complessa,” mi dice Pates. “E colpisce una minoranza di consumatori. Tra gli individui che fanno uso di sostanze da più tempo, forse solo il dieci percento. Forse anche meno.” Ma se consideriamo quante persone nel mondo consumano droghe per via endovenosa, è comunque un numero che non si può ignorare.

Scott Hinton, psicologo australiano che si occupa di tossicodipendenza da più di dieci anni, sostiene che l’ossessione per l’ago dipende dall’impulsività. La sua ricerca, che prende le mosse dallo studio di Pates, ha rilevato che chi fa uso di sostanze stupefacenti ed è dipendente dall’ago ha meno controllo dei propri impulsi rispetto a chi fa solo uso di droghe—pur essendo anche i tossicodipendenti in generale individui più impulsivi della media.

Hinton raccomanda la terapia cognitivo-comportamentale. Sottolinea, inoltre, l’importanza di strategie di riduzione del danno per coloro che non sono ancora pronti a smettere. “Le persone devono avere accesso a materiale sterile, e alle necessarie informazioni su malattie trasmissibili attraverso il sangue e sulle iniezioni sicure,” spiega.

Ve lo dico perché ci sono passata, l’ossessione per l’ago è una delle componenti più orribili della dipendenza da eroina. Ma è proprio per questo che bisogna essere più attenti al problema, e favorire iniziative mirate alla cura psicologica e alla riduzione del danno.

Questo articolo è tratto da Tonic.