Aggiornamento del 28 marzo 2019: ieri, ai David di Donatello, Alessandro Borghi è stato premiato come miglior attore. Accettando il premio ha detto, “[questo] è di Stefano Cucchi e va all’importanza di restare umani e di essere riconosciuti come tali a prescindere da tutto.” Per l’occasione, riproponiamo la nostra recensione del film.
Sulla mia pelle ricostruisce una vicenda in cui sono tanti gli eventi che fanno la differenza per interpretare quello che è realmente successo. “Abbiamo studiato diecimila pagine di verbali,” ha dichiarato in proposito il regista Alessio Cremonini. “Siamo stati come archeologi che lavorano per cercare di capire lo stato d’animo dei testimoni, di chi parla in un verbale che magari risulta molto freddo.”
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Dal pomeriggio in palestra prima dell’arresto fino alla richiesta del permesso per l’autopsia consegnato alla famiglia ignara, il film racconta gli ultimi sette giorni di vita di Stefano Cucchi. C’è soltanto un momento che viene “oscurato”—anche per prevedibili ragioni legali, essendo il processo tuttora in corso—ma anche così il film non avrebbe potuto essere più potente.
La prima cosa da dire è che la violenza non è mai manifesta in Sulla mia pelle. È tradotta attraverso due costanti: il progressivo decadimento e dolore fisico di Cucchi, che lo porta alla morte (Alessandro Borghi, che interpreta Stefano, è mostruosamente bravo a incarnarlo) e il freddo motore dell’apparato burocratico penitenziario e medico che gli cammina affianco.
A tutto questo fa da contraltare la linea narrativa della famiglia Cucchi. Che rimane isolata dagli eventi, nel mondo reale, con tutta la fiducia possibile nelle istituzioni che comincia a farsi più oscura soltanto alla fine: quando per interi giorni vengono negati, attraverso un labirinto di scartoffie, una singola visita in ospedale o anche solo aggiornamenti sui motivi del ricovero.
Subito dopo la conferma dello stato di fermo per la notte—dopo la perquisizione in casa dei genitori—e il vuoto narrativo che gli succede, in Sulla mia pelle Cucchi entra in una spirale di dolore e burocrazia che sembra uscita da un racconto di Kafka.
È un continuo limbo di stanze e celle provvisorie, passaggi di consegna con fogli prestampati, soste prima delle udienze, cambi di guardia, visite mediche ufficiali e ufficiose, certificati, richieste di visita da inoltrare al giudice.
Questo sovrapporsi di formalità si ripete ininterrotto mentre la sofferenza fisica avanza. Mentre aumentano il gonfiore e il lividore della faccia, mentre Cucchi perde la possibilità di deambulare senza aiuto, mentre i suoi organi smettono di funzionare ed è costretto a farsi mettere un catetere per urinare, mentre il dolore alle vertebre e alle costole è così forte da impedirgli di nutrirsi normalmente.
Sembra una banalità, ma anche se avete letto l’intera ricostruzione della vicenda Cucchi, fa comunque impressione vederlo nelle immagini. Vedere l’intero processo assistito della morte di Stefano Cucchi.
La via crucis di dolore e burocrazia attraverso cui passa il 31enne, infatti, è costellata da incontri: carabinieri, guardie penitenziarie, volontari del Pronto Soccorso, avvocati d’ufficio, giudici, addetti alla registrazione nei vari istituti, compagni di cella, medici, infermieri. C’è chi lo maltratta, chi cerca di offrirgli un minimo di aiuto—una sigaretta, una parola di conforto, un consiglio, un flebile accenno alla confessione e alla denuncia—e chi lo ignora.
È una specie di terra di nessuno in cui quello che è veramente successo viene quasi sempre volutamente ignorato, o al limite “alluso”. E le poche volte in cui la verità viene pronunciata, per rabbia o sfinimento, ci si appresta subito a rintuzzarla in una formula burocratica.
Nessuno degli addetti alla cura o alla detenzione di Cucchi sembra volerla ascoltare da solo. Si invocano altri testimoni, denunce ufficiali, accuse fatte con chiarezza. O un certificato medico, per non addossarsi la responsabilità diretta delle sue condizioni. Ottenuto quello, tutto a posto. Il corpo di Cucchi in questo senso è completamente ignorato nonostante la prova della violenza sia lì, sulla sua pelle: a parte i compagni di cella, nessuno si prende la responsabilità di esprimere verbalmente quello che vede.
E osservando il tutto da spettatori, stavolta quelli veri, del film, sarà difficile non ritrovarsi con rabbia, incredulità e frustrazione. Per l’ottusità di tutta la prima parte della vicenda, e per la desolante apatia e omertà della seconda. Man a mano che si va avanti, che si sommano i personaggi che tentano di scaricare la responsabilità di Cucchi se qualcun altro, o direttamente su di lui, cresce l’indignazione. Fino a diventare una completa assurdità.
Per questo la mancanza della “scena cardine” non fa alcuna differenza. A colpire è soprattutto il dilatarsi del tempo in cui sarebbe stato possibile fare chiarezza. Al di là del dolore e della violenza allusa, in questo film l’antagonista reale sono la freddezza e la distopia che può raggiungere un sistema in determinate condizioni. Cucchi con il procedere del film diventa sempre di più un ingombro: un problema che sarebbe meglio non vedere.
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