Attualità

Il nuovo film su Breivik ci ricorda quanto può essere letale l’estrema destra

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Anche se sono passati sette anni, l’attentato a Oslo e il massacro sull’isola di Utøya compiuti da Anders Behring Breivik il 22 luglio del 2011 rimangono qualcosa di inaudito. Ancora adesso si stenta a credere che un fatto del genere sia potuto accadere in Norvegia, e quindi nell’Europa del Ventunesimo secolo.

Con il passare del tempo, un altro aspetto ha iniziato a farsi strada—e probabilmente è un qualcosa di ancora più terrificante della preparazione maniacale della strage, del manifesto di 1500 pagine, e della scelta dei bersagli principali (i giovani socialisti, che lui considerava dei “traditori”). È l’inquietante sensazione che Utøya non sia stato un atto isolato; ma l’anticipazione della fase politica che stiamo vivendo ora.

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Di questo almeno ne è convinto il regista inglese Paul Greengrass, già autore di film come Bloody Sunday, United 93, e della trilogia di Jason Bourne. L’ultimo suo lavoro si chiama 22 luglio, racconta il massacro del 2011 e le sue conseguenze, ed è uscito il 10 ottobre su Netflix.

L’idea gli è venuta nell’autunno del 2016; una finestra temporale a sua volta significativa, perché si colloca tra Brexit e l’elezione di Trump. Originariamente Greengrass era intenzionato a girare un film su Lampedusa, salvo poi convincersi che “nonostante la tragedia umanitaria e i drammi personali, era solo una parte di una storia molto più grande.”

E quella storia è l’avanzata delle destre populiste e dell’estrema destra violenta in tutto il mondo occidentale (e non solo), che “rappresentano una minaccia alla democrazia per la cui affermazione e salvaguardia i nostri predecessori hanno combattuto.”

L’intento di Greengrass è dunque palese. E il film coerentemente si muove in quella direzione, con uno stile asciutto e senza divagazioni di sorta. I primi quaranta minuti mostrano il duplice attentato in tutta la sua brutalità e precisione chirurgica, ricostruendo l’intera dinamica con piglio quasi documentaristico—dopotutto, 22 luglio si basa su Uno di noi della giornalista norvegese Åsne Seierstad (il miglior libro mai scritto su Breivik).

La scelta non è casuale. Prima di girare, i familiari delle vittime avevano chiesto a Greengrass di non spettacolarizzare la violenza rendendola gratuita o troppo esplicita. E qui va riconosciuto che il regista ha fatto un lavoro molto equilibrato, tenendo fede alla promessa.

22 luglio non è però un film sugli attacchi—a differenza di Utøya: July 22, uscito sempre in questo periodo. Il resto della pellicola (che dura circa due ore e mezza) si concentra, citando sempre il regista, “su quanto è successo dopo: ossia su come la Norvegia, che è una società democratica esemplare, ha affrontato questo ciclone di violenza politica e su come l’ha combattuto.”

Fissarsi solo su Breivik presentava il concreto rischio di “glorificarlo”; di dargli, cioè, troppo spazio senza un contesto adeguato. Greengrass ha così deciso di controbilanciare le rivendicazioni dell’assassino—tra cui la pretesa di essere un “soldato” impegnato nella guerra contro “marxisti, liberali e figli delle élite”—con l’unica voce possibile: quella delle vittime.

Come Vilijar Hanssen. In 22 luglio—come nella vita reale—l’allora 17enne è sopravvissuto per miracolo alla mattanza, con pesantissime ripercussioni: oltre ad aver perso un occhio e una mano, deve convivere con dei frammenti di proiettile nel cervello che possono spostarsi da un momento all’altro e ucciderlo.

Il film segue le difficili fasi della riabilitazione, l’adattamento a una nuova vita e la preparazione fisica e psicologica in vista del confronto in tribunale con il terrorista. In parallelo agli sforzi di Hanssen, 22 luglio si concentra sul vero avvocato di Breivik Geir Lippestad e sulle lacerazioni interiori causato dal suo ruolo. Scelto personalmente dall’assassino per aver difeso nei primi anni duemila un neo-nazista norvegese accusato di omicidio, Lippestad non ha simpatie di estrema destra. Al contrario: politicamente è un socialista di cultura fortemente garantista.

Sebbene in un primo momento sia restio ad accettare l’offerta, alla fine l’avvocato si convince che difendere Breivik equivalga a difendere i valori in cui crede—soprattutto in un momento in cui si chiede a gran voce una riforma radicale del sistema penale norvegese, che tra le varie cose prevede 21 anni di carcere come pena massima.

In un’intervista alla Reuters del 2012, Lippestad ha detto che “se cambiamo le regole per una sola persona, miniamo le fondamenta della democrazia. Le persone hanno gli stessi diritti e devono essere punite in base alle stesse leggi.” Difendere l’autore di uno dei peggiori crimini nella storia norvegese non è però una passeggiata: “Sento di aver perso l’anima nel seguire questo caso.”

In 22 luglio il processo ricopre un posto assolutamente cruciale. Non solo per dirimere la questione della sanità mentale di Breivik—la corte l’ha infine ritenuto capace di intendere e volere—e quella di farlo parlare, ma soprattutto per far emergere i collegamenti (nemmeno troppo metaforici) con la politica e l’attualità.

Parlando con la rivista americana The Atlantic, Greengrass ha detto di essere rimasto molto colpito da un monologo in aula in cui Breivik giustificava la strage come un “atto di resistenza” contro il “marxismo culturale” che aveva infiltrato “le scuole e i media” e imposto “il femminismo, le quote rosa, la rivoluzione sessuale, la decostruzioni delle norme sociali,” la “sostituzione etnica” degli europei con i musulmani, e così via. Il terrorista norvegese, sostiene il regista, può pertanto essere considerato uno dei precursori dell’alt-right.

Credo che sul punto sia difficile dargli torto; anche perché rileggere nel 2018 gli articoli che parlano della sua radicalizzazione fa davvero impressione. Il killer sosteneva di far parte di un “contro-jihad,” ossia di una rete islamofoba di blogger e attivisti politici—tra cui il fondatore della English Defence League, Tommy Robinson. Come emerge poi dal suo manifesto, le maggiori influenze di Breivik sono state alcuni siti dell’estrema destra americana e gli scritti di Fjordman, un blogger norvegese che scriveva per Gates of Vienna ed è citato ben 111 volte.

Nel film, a un certo punto, appare un esponente di estrema destra che è un incrocio tra Fjordman, Steve Bannon e Richard Spencer. È presentato come l’unico testimone “politico” della difesa, ma invece di difendere Breivik lo disconosce pubblicamente: i suoi atti atroci mettono in difficoltà un movimento (“chiamatelo destra radicale, alt-right, come volete”) destinato comunque a vincere, perché “ci sono un sacco di rabbia e paura” e dunque “il futuro ci appartiene.”

Con questa scena, 22 luglio riflette in modo molto sottile la realtà: prima di passare all’atto, Breivik aveva ricevuto un sacco di porte in faccia dalla “sua” gente. Secondo Åsne Seierstad, “la pianificazione dell’attentato” cominciò solo “quando ricevette l’ultimo rifiuto dal Partito del Progresso [partito norvegese di destra populista radicale, che alle ultime elezioni ha preso il 15 percento] e nessuna risposta dai suoi eroi dell’antijihadismo online.”

Al di là di questo isolamento, Greengrass—parlando sempre con The Atlantic—fa notare come le opinioni di Breivik fossero relativamente marginali nel 2011, mentre ora “fanno parte della retorica della destra populista” e sono ormai sdoganate. Naturalmente, nessuno si è mai sognato di approvare i suoi metodi; ma non è quello il punto. “Il punto,” dice il regista, “è che la visione del mondo, l’impianto intellettuale è lo stesso e si è spostato al centro della scena politica.”

In Italia ne abbiamo avuto un esempio clamoroso. Quattro giorni dopo gli attentati, Mario Borghezio—l’uomo di collegamento tra Lega e fascisti di mezza Europa—disse che “molte sue idee [di Breivik] sono buone, alcune ottime. È per colpa dell’invasione degli immigrati se poi sono sfociate nella violenza.”

All’epoca, quelle frasi suscitarono l’orrore generalizzato. Persino Roberto Calderoli si sentì in dovere di definire “terribili e inqualificabili” le “considerazioni” di Borghezio, chiedendo ufficialmente scusa alla Norvegia per conto della Lega. Alla fine, però, Borghezio aveva solo sbagliato il tempismo; tant’è che negli anni a venire è stata una delle figure centrali nella nuova Lega di Matteo Salvini.

Il risultato di questa evoluzione è che l’attuale ministro dell’interno ha più volte rilanciato teorie del complotto come il piano Kalergi, e dopo l’attentato razzista a Macerata si è spinto a dire che la colpa andava addossata all’“immigrazione fuori controllo” e all’“invasione organizzata, voluta e finanziata.”

Il finale di 22 luglio rimane in qualche modo aperto. Del resto, è davvero impossibile finire quelle due ore e mezza e non pensare al clima politico mefitico che si respira in tutta Europa, a quanto sia difficile difendere una democrazia liberale in tempi sempre più estremi, e all’ombra che Breivik ha gettato sul continente. Come ha detto Viljar Hanssen dopo aver visto il film: “Mi rendo conto che sia stato sconfitto, ma mi rendo anche conto che in qualche modo è ancora lì fuori. E sta diventando sempre più forte.”

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