Il 2 marzo—dopo un iter di quattro anni e ricorrendo al voto di fiducia—è stata approvata la legge sull’omicidio stradale, che introduce l’omonimo reato e quello di lesioni personali stradali: il primo prevede da due a sette anni di reclusione per chiunque compia un omicidio per infrazione del codice della strada, con aggravanti per guida sotto l’effetto di alcol e droga, e in caso di fuga; il secondo, invece, pene da tre mesi a un anno a chi violando il codice della strada provochi lesioni personali, con le stesse aggravanti.
Mentre il premier Renzi ha dedicato la legge ad alcune vittime per poi, la settimana scorsa, firmarla contornato da associazioni di familiari, la politica ha elogiato trasversalmente il testo. Scavando sotto il velo di elogi e consensi, però, emerge che la realtà di questa legge potrebbe apparire meno lodevole di come è stata presentata.
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Nonostante infatti le uniche polemiche su cui la politica si è soffermata siano quelle riguardanti il ricorso al voto di fiducia, le critiche mosse da alcuni esperti e politici vanno ben oltre le modalità dell’approvazione, e riguardano direttamente il suo contenuto e ciò che rappresenta.
Tra le voci più critiche, quella dell’Unione delle Camere Penali che ha attaccato duramente la legge definendola una “vera e propria mistificazione,” e “frutto di cecità politico-criminale e di un assoluto disprezzo per i canoni più elementari della ‘grammatica’ del diritto penale.” Toni simili erano stati usati a riguardo da Luigi Manconi lo scorso giugno. Il senatore aveva evidenziato come la legge fosse completamente scissa dalla realtà, definendola “un pessimo esempio di populismo penale.”
Se in Italia questo concetto non suggerisce niente è probabilmente perché di populismo penale si parla molto poco. A provare a introdurre il concetto nel dibattito pubblico sono stati recentemente Manuel Anselmi, Stefano Anastasia e Daniela Falcinelli con il libro Populismo Penale: una prospettiva italiana. Per capire di cosa si tratta e perché dovremmo iniziare a interessarcene, ho parlato con due degli autori.
“Con ‘populismo penale’,” mi dice Manuel Anselmi, autore del libro e politologo, “ci si riferisce a tutte quelle forme di condizionamento sul sistema giustizia e sul dibattito sulla giustizia che hanno una finalità mediatica e di consensi, piuttosto che razionale ed oggettiva.” In altre parole, si tratta di leggi che non tengono conto dello stato giuridico, ma che vengono presentate con uno scopo propagandistico e sull’onda di scie emotive.
Nonostante quello del populismo penale, mi spiega Anselmi, sia un metodo scientifico di cui nei paesi anglosassoni si parla da decenni, in Italia siamo in ritardo sul tema: un paradosso, dato che in quanto a populismo il nostro paese, aggiunge il politologo, rappresenta un’anomalia studiata a livello internazionale.
“A differenza di altri tipi di populismo—come quello politico o mediatico—il populismo penale non prevede l’esistenza di un leader, ma solo una mentalità giustizialista, che chiede una soluzione breve a problemi complessi. Ovviamente, la soluzione breve non può che sfociare nell’assegnazione della colpa.” Un concetto, quest’ultimo, di certo non estraneo all’Italia, e la cui criticità era già stata evidenziata da diverse voci in riferimento al caso Scattone.
Quando il populismo riguarda la giustizia il rischio di applicare questo tipo di ragionamento nelle decisioni, mi spiega Anselmi, è quello di mettere in discussione il giusto funzionamento dello stato di diritto, con uno spostamento irrazionale dei meccanismi di responsabilità.
È in questo contesto che si va a inserire, secondo i suoi critici, la legge sull’omicidio stradale: una legge che non tiene conto della realtà ma che usa la giustizia a scopo propagandistico. A pensarla così è anche Stefano Anastasia, altro autore del libro, docente e tra i fondatori dell’associazione Antigone. “Dal modo in cui è stata approvata al suo contenuto giuridico, questa legge è un palese esempio del populismo penale,” mi dice.
ll decreto nasce infatti da un’iniziativa popolare di tre associazioni per le vittime di omicidi stradali, l’Associazione Lorenzo Guarnieri, l”Asaps e l’Associazione Gabriele Borgogne, che hanno avuto un ruolo fondamentale nella promozione e nell’approvazione della legge—della quale Matteo Renzi Premier si era fatto portavoce fin dai tempi in cui era sindaco di Firenze.
“Essenziale del populismo penale è il ruolo che la vittima evoca nella sua costruzione, quindi l’intervento penalistico si giustifica sempre a favore di vittime innocenti.” Questa legge rappresenterebbe, secondo Anastasia, un caso importante nel nostro paese in quanto andrebbe a riprendere la tradizione statunitense e di alcuni stati federali di denominare le leggi a partire dalle vittime, “in qualche modo per risarcire, quasi come una forma di espiazione della colpa della comunità.”
Ma entrando nel merito del decreto, “Il suo aspetto populista si riflette nella natura giuridica della proposta, perché come è stato detto dai critici sul piano giuridico delle scelte che sono state fatte si tratta di una legge che ha come dimensione preponderante una funzione propagandistica.”
Il primo punto toccato da Manconi nella sua critica riguarda infatti la mancanza di relazione tra questa legge e i dati. Come fatto notare dal Senatore, il problema che è stato presentato come un’emergenza dalla politica non si rivela tale nella realtà, dove i dati degli omicidi stradali sono nettamente diminuiti rispetto al 1990 e in costante diminuzione dal 2001. Allo stesso modo, la relazione al parlamento del 2015 parla di una percentuale dell’1,28 percento di persone coinvolte in incidenti stradali sotto effetto di alcol, e uno 0,08 sotto effetto di droghe.
A questo dato, si va ad aggiungere il fatto che la legge sia stata promossa e commentata spesso come una necessità per sopperire a pene troppo morbide. “Questo non è assolutamente vero e ne acuisce la funzione propagandistica, ” mi spiega Anastasia. “Tutti sanno che già esistevano delle pene, anche abbastanza severe e in alcuni casi gravissime—fino alla contestazione dell’eventuale dolo che poteva portare a condanne fino a 21 anni di carcere.”
Il fatto che in Italia non esistesse il reato di omicidio stradale, infatti, non vuol dire che questo non fosse punito penalmente: semplicemente si ricorreva al reato di omicidio colposo per violazione di norme del codice stradale. Ciò che cambia con questa legge sono principalmente gli automatismi legati allo stato di ebbrezza, per cui le pene vengono acuite.
Nonostante le persone che finiranno effettivamente in carcere potrebbero essere una piccola minoranza di chi compie il reato, questa legge dovrebbe essere guardata con particolare attenzione, conferma Anastasia, per gli effetti che potrebbe scaturire e per ciò che rappresenta.
Il primo punto riguarda il funzionamento del sistema giuridico nel nostro paese. “Dobbiamo tener presente che dentro il sistema, così com’è, queste sono tutte cose che potrebbero poi riprodursi in altre migliaia di casi,” spiega Anastasia. “I precedenti nel diritto sono precedenti che tornano: se per un reato non volontario uno può essere punito con fino a 20 anni di pena, cosa facciamo a uno che compie un omicidio?”
L’altro segnale preoccupante ha a che fare invece con lo stato delle nostre istituzioni. “Questa legge dieci anni fa avrebbe incontrato resistenze molto più decise. Dimostra un certo scadimento delle nostre istituzioni, che non hanno più le capacità di opporsi a sentimenti popolari,” conclude Anastasia.
Tenendo assolutamente conto del sentimento di compassione verso le vittime e le loro famiglie, conclude Anastasia, questo non deve sorpassare i limiti della razionalità politica e giuridica. Allo stesso modo, la giustizia non può rinunciare alla sua razionalità per farsi mezzo propagandistico, o diventa populismo penale. E in un paese come il nostro, questa prospettiva non può che preoccupare.
Thumbnail via Associazione Gabriele Borgogni Onlus – Facebook. Segui Flavia su Twitter
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