Nel 2013, James Hansen, ex capo delle ricerche sul clima alla NASA, ha pubblicato un breve articolo in cui spiegava che se gli esseri umani bruciassero tutte le risorse fossili della Terra, “non solo il pianeta rimarrebbe senza ghiaccio, ma anche senza persone.” Proseguiva descrivendo la “sindrome di Venere”—scenario possibile per il nostro futuro, in cui l’atmosfera sarebbe talmente carica di diossido di carbonio, da trasformare la Terra in un clone del pianeta che dista un secondo dal Sole. Prima, però, tutti gli oceani evaporerebbero.
Non succederà a breve, e si tratta comunque di un’ipotesi radicale. Hansen concludeva scrivendo che, anche se ci vorranno milioni di anni, “la Terra potrà ‘raggiungere’ condizioni simili a quelle di Venere, con una pressione di superficie di ~90 bar, solo dopo aver perso tutta l’acqua dei suoi oceani per colpa della fuga atmosferica dell’idrogeno.” Dovremmo, in pratica, surriscaldare la Terra al punto di bollirne gli oceani—un’ipotesi che, secondo un altro scienziato, Max Popp del NOAA’s Geophysical Fluid Dynamics Laboratory di Princeton, rientra assolutamente nel regno della possibilità. Una possibilità distante ed eventuale, ma pur sempre una possibilità.
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Gli scienziati hanno da tempo capito che il Sole, la cui luminosità continua ad aumentare, diventerà prima o poi abbastanza caldo da rendere instabile l’acqua allo stato liquido sulla Terra—laghi, oceani, fiumi e rigagnoli evaporeranno nell’atmosfera e, come ha specificato Hansen, si disperderanno nello spazio. (Si pensa che sarà questo processo a rendere inabitabili tutti i pianeti a base di acqua dell’universo.) Ma non è ancora chiaro se il nostro contributo possa effettivamente accelerare gli eventi.
“In pratica, un’atmosfera satura di CO2 potrebbe portare all’evaporazione dell’acqua e alla sua dipersione,” mi ha detto Popp. “Il processo della fuga atmosferica dell’acqua durerebbe però milioni—se non centinaia di milioni—di anni (a seconda di diversi fattori). Per quanto questi siano tempi lunghi da un punto di vista umano, su scala geologica sono in realtà piuttosto rapidi.” Il sole (e con lui la Terra), spiega, ha un’aspettativa di vita che va dai 10 ai 12 miliardi di anni.
“Un aumento considerevole della concentrazione atmosferica dei gas serra come la CO2 potrebbe distruggere l’abitabilità di pianeti ricchi di acqua.”
Popp chiama questo processo una transizione alla Moist Greenhouse, che è anche il titolo dell’articolo che ha pubblicato su Nature Communications. Questa trasformazione e la potenziale sindrome di Venere non saranno magari un problema tangibile per la nostra generazione o quella dei nostri figli o quella dei nostri pro-pro-pro-pro-nipoti, ma sono degne di nota perché dimostrano che c’è più di un modo per prosciugare l’acqua su un pianeta abitabile. Popp conclude dicendo che sì, “anche un aumento considerevole della concentrazione atmosferica dei gas serra come la CO2 potrebbe distruggere l’abitabilità di pianeti ricchi di acqua.”
Popp e il suo team hanno progettato un modello climatico applicato a un pianeta simulato e interamente ricoperto di acqua, per capire cosa potrebbe succedere a un pianeta come la Terra se fosse abbastanza saturo di gas serra per abbastanza tempo. Hanno scoperto che, una volta che la concentrazione di carbonio raggiunge le 1520 parti per milione nell’atmosfera del loro pianeta simulato, e le temperature di superficie arrivano ai 57°C, succedono cose interessanti al clima.
Secondo Nature, “gli effetti di feedback delle nuvole destabilizzano il clima del pianeta, rendendo umida la parte più alta dell’atmosfera, dove l’acqua si disperde nello spazio molto più velocemente di quanto accada nell’atmosfera più secca che ha la Terra oggi.” E così, piano piano, gli oceani si disperderebbero del tutto nello spazio.
Ora, il clima della Terra è molto più complesso, e sarebbe molto più difficile scatenare una transizione Moist Greenhouse su Venere.
“Per ottenere lo stesso clima sulla Terra, le concentrazioni di CO2 dovrebbero già essere tre o quattro volte i valori pre-industriali,” ha detto Popp. “Quindi una stima approsimativa delle concentrazioni di CO2 necessarie per trasformare la Terra in una Moist Greenhouse, sarebbero tre o quattro volte 1.520 PPM (parti per milione), ovvero tra le 4.500 e le 600 PPM.” (Al momento, siamo sulle 400 PPM; i livelli preindustriali erano di circa 280 PPM.) Popp non è preoccupato dal ruolo giocato dagli esseri umani—livelli così alti, secondo lui, sono semplicemente “impossibili da ottenere.”
“Per ricapitolare,” continua, “con questa ricerca dimostriamo che, in via di principio, sarebbe possibile spingere la Terra a una condizione di Moist Greenhouse aumentandone i valori di CO2, ma che le concentrazioni di CO2 necessarie sarebbero molto più alte che per il pianeta completamente ricoperto di acqua della nostra simulazione. I nostri risultati sono rilevanti per il lontano futuro della Terra, quello a milioni di anni da noi, ma non per il clima del presente e del futuro immediato.”
Qual è il punto, allora? Popp ritiene che il vero contributo offerto dalla sua teoria della Moist Greenhouse stia nel determinare l’abitabilità dei pianeti scoperti in altri sistemi.
“Ci sono diverse missioni impegnate a cercare pianeti intorno ad altre stelle, ne sono già stati scoperti centinaia ed è plausibile che, nei prossimi anni, scopriremo pianeti abitabili,” mi ha detto. “Per sapere se siano adatti alla vita, è importante capire quali di questi pianeti potrebbe conservare acqua liquida sulla sua superficie per un lungo periodo di tempo.”
Storicamente, il fattore più importante per determinare l’abitabilità di un pianeta è la distanza da una certa stella—se si trova o meno nella cosiddetta zona di Goldilocks; non troppo lontano, non troppo vicino; nel punto giusto.
“La Moist Greenhouse metterebbe un limite al tempo in cui un pianeta è in grado di conservare acqua liquida, perché l’acqua, prima o poi, si disperderebbe nello spazio,” ha detto Popp. “Dimostrando che i gas serra sono efficaci tanto quanto l’aumento di calore solare per provocare un passaggio a una Moist Greenhose, proviamo che l’abitabilità non dipende solo dalla distanza di un pianeta dalla sua stella, ma anche dalla concentrazione di gas serra nell’atmosfera.”
Potrebbero volerci centinaia di milioni di anni prima che l’incubo climatico estremo predetto da James Hansen diventi realtà, e prima che la Terra sia afflitta dalla sindrome di Venere e si trasformi in una Moist Greenhouse inabitabile.