Cosa c’è dietro la decisione di Facebook di disabilitare alcuni profili di CasaPound

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Nei giorni scorsi Facebook ha disabilitato gli account personali di alcuni militanti di CasaPound, tra cui Gianluca Iannone (fondatore e presidente del partito), tre consiglieri comunali e alcuni candidati sindaci.

Sul Primato Nazionale, la testata ufficiosa dei “fascisti del terzo millennio,” si è immediatamente gridato alla censura—accusando la “task force italiana dei censori di Facebook” di avanzare “morali da novello talebano del pensiero unico” e di voler cancellare le “voci dissonanti rispetto alla narrazione dominante.” Il partito ha poi collegato la cancellazione degli account alle elezioni europee del prossimo maggio.

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Ma al netto della propaganda o di argomentazioni quali “finalmente Facebook censura i fascisti,” per quale motivo si è arrivati a questa decisione?

Prendiamola un po’ alla larga. Da un po’ di tempo—specialmente dopo le elezioni americane del 2016—Facebook è sotto pressione sul campo della lotta al clickbait, alle notizie false e all’estremismo politico. E questa tensione si è riverberata soprattutto sul meccanismo di moderazione, che tuttavia non ha mai brillato per trasparenza ed efficienza.

Secondo quanto raccontato da una fonte dell’azienda a Valigia Blu, l’attività di moderazione è esternalizzata a società esterne ed è tendenzialmente successiva alle segnalazioni degli utenti. E contrariamente a quanto si pensa, il ruolo degli algoritmi non è così decisivo; la decisione di rimuovere contenuti o bloccare un profilo, infatti, “ricade sempre sul giudizio (umano) di un analista.” Che però, di solito, ha tra gli otto e i dieci secondi per prendere quella decisione.

Un altro grosso problema, se restiamo in Italia, è che i moderatori non sempre sono madrelingua italiani; a volte si tratta di italofoni, che in quanto tali possono non cogliere tutte le sfumature di un’espressione, o più semplicemente il contesto di una frase. Gli episodi in tal senso si sprecano: post satirici presi per veri; status innocui cancellati senza motivi apparenti; e persino cognomi ritenuti offensivi (come quello di Caio Giulio Cesare Mussolini, pronipote di Benito).

Nel caso di specie, tuttavia, le cose sembrano essere andate in maniera leggermente diversa. Ho provato a chiedere un commento sulla vicenda a Facebook Italia, e un portavoce mi ha risposto che esistono degli “Standard della Comunità” a cui “partiti politici e candidati, così come singoli individui e organizzazioni presenti su Facebook devono attenersi.”

Il portavoce ha poi precisato che “Quando veniamo a conoscenza di contenuti che violano questi standard, li rimuoviamo. Quando una Pagina o una persona infrange ripetutamente queste regole, come capitato in questo caso, la rimuoviamo.” E in effetti, uno screenshot postato dalla portavoce di CPI Napoli Emmanela Florino identifica la causa della cancellazione degli account nella violazione della normativa di Facebook.

Tuttavia, Facebook non ha specificato quale regola precisa sia stata infranta in questo caso. L’ipotesi più ragionevole è la diffusione di “discorsi inneggianti all’odio o di discriminazione verso le persone per la loro razza, etnia, nazionalità di origine, religione, sesso, orientamento sessuale.” Ma, per l’appunto, non lo sappiamo con certezza.

Per l’azienda, dunque, gli account sono stati disabilitati perché violavano le regole che si è dato il social network; esattamente come succede ogni giorno a centinaia (o migliaia) di utenti.

Eppure, al di là dei tecnicismi, sullo sfondo c’è indubbiamente il tentativo di dare un giro di vite nei confronti di determinate forme di hate speech—culminato nel recente divieto di tutte le forme di appoggio al “nazionalismo bianco” e al “separatismo bianco,” finalmente comparati al suprematismo bianco.

Sempre in questi giorni, similmente a quanto successo qui, in Canada Facebook ha cancellato gli account di Faith Goldy (opinionista legata all’alt-right, nonché candidata a sindaca di Toronto nel 2018) e altri esponenti dell’estrema destra locale con motivazioni praticamente identiche a quelle usate per CasaPound.

Tuttavia, come ha rilevato BuzzFeed, già oggi due dei sei account disabilitati in Canada sono tornati su Facebook con altri nomi e pagine, e altre “11 pagine con nomi e contenuti simili sono rimaste online nonostante il ban.”

E lo stesso discorso vale per CPI: le loro pagine pubbliche sono tutte quante aperte, e lo è persino quella di Gianluca Iannone. Il grande paradosso è che, proprio in queste ore, quelle stesse pagine stanno gridando alla censura—una censura assolutamente sui generis, visto che allo stesso tempo ti permette di denunciarla.

Non siamo quindi di fronte a un deplatforming, cioè a una cancellazione permanente di certi soggetti e organizzazioni dalle piattaforme. La mia impressione, piuttosto, è che in casi di questo genere Facebook (da azienda privata) stia cercando con molte difficoltà di bilanciare la libertà d’espressione con il contrasto ai discorsi d’odio.

Poi, ovvio: vedere dei fascisti appellarsi disperatamente all’articolo 21 della Costituzione è sempre un bello spettacolo.

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