La politica, e le persone che vi si dedicano, tendono a essere da sempre soggetti molto interessanti per l’intrattenimento popolare, visto che incarnano come pochi altri i difetti e i nervi scoperti della comunità stessa e di chi l’abita. A maggior ragione quando indossano le vesti del dittatore di turno, o si mostrano particolarmente narcisisti e antisociali, si tramutano di fatto nei perfetti cattivi del racconto.
Per qualche bizzarra ragione, la saga videoludica di Far Cry, arrivata al sesto capitolo, ne è testimonianza e lo ha illustrato in vari modi, suscitando alle volte critiche molto accese in un ambito, come quello videoludico, già molto polarizzato quando si tratta di politica e ideologia. È successo anche nel 2018 con Far Cry 5 e i suoi antagonisti in odor di suprematismo—tanto da spingere qualche persona, in sprezzo di ogni senso del ridicolo, a definirlo un “simulatore di genocidio bianco.”
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Da decenni, inoltre, film e televisione, prodotti seriali e meme hanno trascinato la narrazione e la comunicazione politica verso l’infotainment e il politainment, semplificando i ragionamenti ed estremizzando le posizioni. I social hanno fornito carburante ulteriore, cortocircuitando del tutto il dibattito. Il cocktail esplosivo che è venuto a formarsi domina la contemporaneità, informa la geopolitica mondiale e ci intrattiene ogni giorno con turbolenti thread e discussioni senza fine né scopo.
Un punto di vista privilegiato dal quale osservare la situazione è proprio quello dell’antagonista nei videogiochi, cosa che ci riporta immancabilmente alla saga di Far Cry e al suo ultimo capitolo, Far Cry 6, provato con somma soddisfazione grazie a Google Stadia. Ambientato a Yara, una fantomatica isola dei Caraibi che potrebbe richiamare Cuba, ci vede indossare i panni della rivoluzione e combattere contro la dittatura de “El Presidente”, interpretato dall’ormai macchiettistico Giancarlo Esposito.
La formula, al netto di qualche interessante cambiamento, è più o meno la solita: open-world, conquista progressiva dei punti di interesse, side mission, scontri a fuoco e via dicendo. A colpire, però, è soprattutto l’insistenza verso un certo tipo di antagonista, che è davvero ormai un marchio di fabbrica della serie e, più in generale, al centro della maggior parte dei prodotti mediali moderni: il “politicante” narcisista, carismatico e antisociale—spesso ritratto direttamente come psicopatico con il piglio del dittatore.
Non a caso ne parlava già diversi anni fa il giornalista investigativo inglese Jon Ronson, nel suo fortunato Psicopatici al potere, dove descrive queste persone come “predatori che utilizzano il fascino, la manipolazione, l’intimidazione, il sesso e la violenza per controllare gli altri e soddisfare i propri bisogni egoistici […] senza colpa né rimorso. Ciò che manca loro, in altre parole, sono quelle qualità che permettono a un essere umano di vivere in armonia con la società.” Pur con qualche superficialità di fondo, Ronson sceglie di utilizzare la Psychopathy Checklist-Revised dello psicologo forense Robert D. Hare come una sorta di chiave di volta per accedere alle menti di questo tipo di persone e riconoscerle per quello che erano davvero.
Curiosamente, però, alcuni di questi tratti ricorrono nei protagonisti stessi di molti giochi e prodotti culturali vari, così come con il comportamento richiesto allo stesso videogiocatore: l’affettività superficiale, l’impulsività, il bisogno continuo di stimoli, la mancanza di empatia e di accettazione della responsabilità per le proprie azioni sono, nella maggior parte delle occasioni, quasi dei prerequisiti alla virtualità del gioco.
Lo ribadisce in qualche misura Alex Hutchinson, direttore creativo di Far Cry 4, in un’intervista approfondita su IGN Africa. “Strano a dirsi, ma se pensi al giocatore, in un sacco di episodi di Far Cry non fa altro che imporsi sull’ambiente che lo circonda,” dice Hutchinson. “Cerca di fermare un omicida ammazzando molte altre persone. Ci sono molte affinità tra il giocatore e gli avversari.” Rincara la dose Navid Khavari, direttore narrativo e autore principale della storia di Far Cry 6: “La serie si domanda spesso se non siamo altro che animali, pronti a combattere per un brandello di carne,” spiega Khavari, se non siamo pronti a cedere a ogni passo davanti a quella falsità che abbiamo rinominato “morale”.
Le risposte fornite a questo riguardo dall’ultimo capitolo della serie non sono particolarmente illuminanti, e anzi continuano a soffrire di una semplificazione di fondo che prima o poi bisognerà affrontare—e che era stata presa di petto dal coraggioso Far Cry 2 di Clint Hocking, così come da un titolo quale Spec Ops: The Line. Tuttavia, cercano almeno di mettere in luce qualche sfumatura politica, ideologica e morale in più rispetto alla media. Peccato solo che il godimento videoludico manifesto in Far Cry 6 rimanga il solito, e anzi si muova tra cliché e stereotipi senza troppe sottigliezze: una girandola di proiettili, esplosioni e… lotte tra galli.
Un peccato doppio, viste le dichiarazioni d’intenti iniziali. “La nostra è una storia politica,” sottolineava Khavari in un post sul sito di Ubisoft, “La storia di una rivoluzione moderna. In Far Cry 6 ci sono discussioni significative e dure riguardo l’avanzata del fascismo in una nazione, il costo dell’imperialismo, il lavoro forzato, la necessità di elezioni libere e regolari, i diritti LGBTQ+ e altro ancora.”
Nei fatti non è proprio così e questo ci riporta ancora una volta a chiederci perché in realtà figure problematiche, carismatiche e narcisistiche dominino spesso sia la società che la sua rappresentazione mediatica. E perché mai tante forme di godimento “improduttivo”—tipo film, serie o videogiochi—non riescano a fare a meno di concentrarsi su questo tipo di personalità. Si pensi per esempio anche al recente successo della serie di Netflix Come diventare tiranni, che trae ispirazione dal libro The Dictator’s Handbook per indagare la vita di Adolf Hitler, Saddam Hussein, Mu’Ammar Gheddafi e altri ancora.
Vittorio Lingiardi, psichiatra, psicoanalista e professore ordinario di Psicologia dinamica presso “La Sapienza” di Roma, nel saggio Arcipelago N – Variazioni sul narcisismo, spiega che “Molti individui con personalità psicopatica possono perseguire i loro obiettivi ricevendo approvazione sociale e perfino ammirazione. In alcune professioni il comportamento psicopatico può persino essere ‘premiato’.” A maggior ragione visto che la psicopatia ha “diverse gradazioni di colore” e suscita persino innamoramenti patologici—tanto che esiste persino un termine, “ibristofilia,” per descrivere l’investimento erotico-mediatico nei confronti di una figura criminale.
Secondo Otto Kernberg, psichiatra austriaco nonché tra i più rinomati e importanti psicoanalisti contemporanei, “Il male è due cose. È una patologia individuale che va trattata, ma può anche evolvere in forza sociale indipendente dal singolo e provocare un’epidemia generale, che a quel punto non deve più essere curata, ma combattuta.” E si spiega proprio in questo modo com’è nata la necessità di realizzare documentari come #Unfit-La psicologia di Donald Trump o il libro The Dangerous Case of Donald Trump, dove decine di professionisti della salute mentale segnalano la pericolosità e i rischi della sua influenza antisociale sulla popolazione statunitense. Senza contare, più semplicemente, le sfortunate esperienze che molte persone affrontano direttamente sui luoghi di lavoro, tra narcisismi tossici e superiori sadici o abusanti.
È per questa vicinanza nell’esperienza e nella realtà fattuale che non riusciamo a toglierci di torno simili personalità—anche se non necessariamente questi tratti “caratteriali,” come ad esempio quelli narcisisti, portano a comportamenti problematici—nemmeno al calduccio di un bel film o un videogioco fatto come si deve. Una parte di noi è spinta a combattere queste manifestazioni, l’altra, forse, a riconoscerle per quello che sono davvero.
Come ricorda Franco “Bifo” Berardi in Come si cura il nazi, “Per poter curare la malattia occorre sapere che essa non è solo là fuori, nel nemico, nel cattivo […] ma che noi stessi ce la portiamo dentro. La malattia è all’opera in potenza nella nostra sofferenza, nella nostra paura, nel nostro inconscio.” Che abbia ragione Bifo o Kernberg, una cosa è certa: lo spettro di Frank Underwood—il sociopatico Presidente degli Stati Uniti di House of Cards—continuerà a tormentarci ancora a lungo.