È impossibile evitare di essere incuriositi dai Fat White Family. Che sia perché non si fanno problemi a scrivere canzoni sul sesso con minorenni o sui peggiori dittatori del secolo scorso, che sia perché sono una banda di teppisti del Sud Est di Londra che, nei propri live e nei propri video, dimostra una tensione drammatica, sessuale e autodistruttiva che non si vedeva dai primi tempi dei Black Lips, o che sia perché sembrano rimasti gli unici a suonare musica retrò con freschezza, nell’occhio del ciclone che sembra ci stia finalmente liberando dalla fissazione con il passato (sperando che dopo il suo passaggio non rimangano solo suonerie da cellulare).
Fatto sta che quando è arrivato in redazione l’invito a intervistare i membri della band, in città per una data al Magnolia, mi sono ritrovato a dire “ci vado io”. Nel frattempo avevo ricevuto anche una copia del nuovo album Songs For Our Mothers, in uscita questo venerdì per l’etichetta, gestita dai Fat Whites stessi, dal delicatissimo nome di Without Consent Records. Rispetto al party debosciato che avevano immortalato in Champagne Holocaust, questo album è una vera sorpresa. Inizia con il singolo “Whitest Boy On the Beach” che fa da specchietto per le allodole, con i suoi freddi synth a ritmo di caldo funk, e ti attira nella tana del Bianconiglio. Una volta dentro, è una vera casa infestata dagli spettri di, in ordine sparso: Mussolini, Hitler e Goebbels che si scrivono lettere d’addio, il serial killer inglese Harold Shipman (uno che in patria è talmente odiato che, alla notizia del suo suicidio in carcere, il Sun ha titolato “Ship Ship Hurrah”), Ike Turner in preda a uno dei suoi raptus, il cadavere di David Clapson (morto di povertà avendo perso il sussidio di disoccupazione per aver saltato un colloquio), viaggi spaziali a base di oppiacei, e Primo Levi che succhia il midollo da un osso (usato come similitudine per descrivere una fellatio). Musicalmente, l’atmosfera non è più rilassante: molti dei pezzi sono lenti, cavernosi, spietati. Dal punto di vista dell’arrangiamento è evidente che lo sforzo collettivo è stato notevole, come mi confermerà nell’intervista il cantante Lias Saoudi parlando di pressione e aspettative, perché al di là di un certo filo conduttore nei falsetti e nel tono acido e slabbrato delle chitarre, lo spettro dei generi e influenze scippate, accartocciate e mescolate è quanto mai ampio. Il country mutante ed effemminato di “Love is the Crack” si scontra con i Velvet Underground virati Krautrock di “Satisfied” e “Tinfoil Deathstar”, ma la sorpresa più grossa sono le deviazioni neofolk di “Duce” e “We Must Learn To Rise”, che si trascinano lente e marziali come una parata di militari sonnambuli. Le ciniche ballate a sfondo nazista “Lebensraum” e “Goodbye Goebbels” richiamano gli eroi dell’underground inglese Country Teasers. L’atmosfera generale è grigia e rancorosa, ma sul tutto si abbatte il ghigno beffardo dei fratelli Lias e Nathan Saoudi e di Saul Adamczewski, le tre menti della band, artefici della sua immagine controversa e della sua aura di pericolo.
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Quando arrivo al Magnolia scopro che Saul non c’è, che ha deciso di abbandonare il tour e prendersi “una pausa”, si dice in California. L’aria che si respira all’interno del locale, in questo pomeriggio, sembra urlare “non parliamone”, così mi accontento degli indizi che Lias lascia cadere nella nostra intervista. Forse un periodo lontano dalle tentazioni della vita in tour farà bene al chitarrista. Quando mi presento, il cantante è sorridente e in vena di battute. Io sono alla seconda birra (allarme professionalità) perché mi hanno detto che sono più simpatico quando bevo. Lui mi imita e si lascia andare a risposte fiume che mi spara addosso con una parlantina veloce, sicura, coperta da un velo di arroganza che sembra nascondere un cuore molto meno nero di quello che ha notoriamente tatuato sul petto. Se continuerai a leggere, scoprirai cosa ci siamo detti.
Noisey: Ogni articolo che parla di voi parte dall’identificarvi geograficamente. Pensi che l’essere di Londra giochi un ruolo importante nella vostra identità? Qual è il vostro rapporto con la scena cittadina?
Lias: Naturalmente sì, anche se io non sono proprio di Londra. Londra è il posto dove le band vanno a cercare di diventare band vere, sai, fare il passo definitivo verso la professionalità, del resto è la città dei Clash e dei cazzo di Stones, non c’è da meravigliarsi. Ma penso che spesso la gente venga da fuori… [interrotto da Nathan che si mette a urlare all’angolo opposto della stanza, dove sta rispondendo alle domande di una collega] Smettila di fare casino!
Il problema della scena di Londra è che è stata completamente decimata dai cambiamenti sociali in corso. Non esiste l’equo canone, il mercato immobiliare di Londra si è trasformato in una cazzo di banca per ricchi russi e cinesi, per cui si crea un effetto trickle-down che risulta in una totale mancanza di edilizia popolare, voglio dire, non ci sono più case popolari. Per cui la dinamica di questa città, i lavoratori a paga bassa che vivono a fianco dei milionari e dei bohemién, è stata completamente azzerata. Dal 2007 mi sembra che il 40 percento dei locali per fare musica a Londra abbia chiuso, e questa tendenza non si invertirà. La scena musicale di Londra sta morendo, senza dubbio. Quello che noi rappresentiamo al momento è l’ultimo respiro, essenzialmente. I pub e gli squat e i posti dove abbiamo imparato a fare quello che facciamo. Perché non c’è l’università per gruppi rock, per cui a meno che tu non abbia un papà e una mamma molto ricchi, che ti mantengano mentre tu insegui il tuo sogno idiota, le cose si fanno molto dure per te. Ma quei posti erano una sicurezza su cui potevi sempre contare per commettere tutti gli errori che sono richiesti per diventare bravi in qualcosa, che di solito sono dieci anni circa di errori. A meno che tu non sia un cazzo di genio, cosa che io sicuramente non sono.
E secondo te dove vi trovate su questa linea? Siete professionisti, un gruppo ormai ben avviato, o vi sentite ancora come dei cazzari qualunque che si divertono?
Sono due anni e mezzo o tre che faccio questa vita, più di ogni altro lavoro che ho avuto. Non posso permettermi un appartamento con i soldi che prendo, per cui sono ancora praticamente senzatetto, ma dato che sono in tour l’ottanta percento del tempo, oppure in studio, non mi serve una casa a Londra, anche se mi piacerebbe avere un tetto sopra la testa, voglio dire, non chiedo mica la luna. In un’epoca diversa sarebbe stato possibile, sai, quando la gente pagava per avere i dischi invece di scaricarli. Ora se fai il musicista sei fottuto, praticamente, ti fanno andare in tour finché non ti cadono le dita. Per cui non è un futuro brillante, ma… che posto occupo? Vorrei raggiungere un pubblico abbastanza ampio da andare in tour e pubblicare musica che, anche se non è per forza meglio di quella che è uscita prima, la gente comunque sia disposta a pagare un biglietto, capisci? Anche se io faccio del mio meglio perché non faccia schifo. Cerco sempre di non illudere il pubblico. Per cui vorrei arrivare a quel punto. Presto pubblicheremo il nostro secondo disco, e uscirà anche un album dell’altro mio progetto, The Moonlandingz. Cerco di mettere fuori più cose possibili, sai, cerco di guadagnarmi il mio spazio nel quadro complessivo. Di base non voglio più fare pizze, che è il lavoro che avevo prima.
Che ruolo ha in tutto questo la vostra scelta di autoprodurre il prossimo album?
È autoprodotto di nome, ma in realtà ci finanzia la PIAS, che è un’azienda che supporta la musica indipendente. Sussidiano le etichette indipendenti e hanno fatto a noi un contratto da etichetta, il che significa che se abbiamo un progetto che ci interessa—come i Moonlandingz—tirano fuori un po’ di fondi e ci aiutano a promuoverlo e a gestire la nostra etichetta. Come funzioni esattamente a livello legale, non lo so.
Per cui è comunque una scelta artistica.
Be’, quando abbiamo firmato la prima volta… Voglio dire, volevamo scrivere pezzi sullo scoparsi le bambine, bombardare i parchi dei divertimenti, volevamo scrivere lettere d’amore da Joseph Goebbels a Adolf Hitler, volevamo scrivere di Tina che picchia… no, cioè, di Tina che prende un sacco di botte da Ike, volevamo parlare di Josef Stalin, volevamo parlare di quello che ci pareva. Non volevamo parlare di, sai, le solite stronzate pop di merda. Non siamo i Foals, non siamo i Mystery Jets, non siamo, boh, Florence and the Machine. Non vogliamo suonare negli stadi, non ce ne frega un cazzo, vogliamo essere in grado di fare quel che ci pare ed essere pagati il giusto. Per cui creare la nostra etichetta è un modo per dire che vale tutto, pubblichiamo quel che ci pare. Allo stesso tempo, che PIAS abbia investito su di noi è stato fantastico, perché ci ha messi in condizione di fare davvero tutto quel che ci pareva e passarla liscia, e questa roba avrà comunque un certo seguito. Voglio dire, siamo qui in Italia a suonare, il che, per me, cinque anni fa, sarebbe stato un sogno assoluto, sai, venire in Italia e suonare in qualunque situazione. È strano: ci sono in giro migliaia e migliaia e migliaia di gruppi e sono tutti qua sotto, a sguazzare nella merda, e avere quella piccola possibilità di [arrivare più in alto]… voglio dire, è dura, è dura per tutti. Perché quello che succede quando fai duecento concerti all’anno è che diventi davvero bravo a fare concerti. Ma per diventare bravo devi avere la possibilità di suonare duecento volte all’anno, per cui è dura, capisci cosa intendo? Per cui quei primi momenti in cui non hai soldi, nessuno crede in te, nessuno investe: quello è il momento in cui devi volerlo davvero, altrimenti non ce la puoi fare.
Visto che hai menzionato i tuoi testi, mi stavo chiedendo: che cosa c’è dietro a quello di “Lebensraum”? Perché scriverlo in tedesco?
Di base non mi andava di scrivere un altro testo in inglese, così l’ho scritto in tedesco perché ho pensato che me la sarei cavata con meno. È una specie di filippica anti-gentrification, ma scritta in tedesco. Penso sia divertente. Parla, tipo, dei “rami più forti della vecchia quercia che viene abbattuta”, robe così, tipo epico immaginario germanico, capito? Che è un tema che ricorre per tutto l’album. Durante le registrazioni ci siamo sentiti un po’ come nel bunker di Hitler, c’era quel tipo di atmosfera, perlomeno così mi sentivo io.
In effetti dà una certa sensazione di isolamento, di chiusura, specialmente perché rispetto a Champagne Holocaust, sembrate usare le possibilità dello studio-come-strumento molto di più. C’è un po’ di elettronica, chitarre acustiche…
Abbiamo avuto più tempo, più mezzi e molta più pressione. Era come se il mondo aspettasse solo noi, che non è una bella sensazione, ma credo che come autore tu debba abbracciarla, sia come compositore che come scrittore di liriche. Penso tu debba tenere conto del fatto che sei dentro a un dialogo con il pubblico, non un pubblico ampio, voglio dire, non siamo certo delle star, ma, sai, la gente ha un’idea preconcetta di te e sta a te decidere come rapportarti con questa, alla guida ci sei tu. Credo che l’idea di usare lo studio in questo modo, di creare un’atmosfera e un nostro piccolo mondo in cui la gente può entrare, magari strisciando, e farsi un giro, respirare l’aria, sia una prospettiva più interessante di scrivere semplicemente altre canzoni che hanno la stessa utilità di trapanare la testa di un vecchio con un martello pneumatico, che credo sia quello che si fa quando si registra il primo album. Faresti qualunque cosa per farti notare, capisci? Perché le probabilità di farcela sono praticamente inesistenti.
Con il vostro primo album sembravate cercare di far passare l’immagine che…
Volevamo far passare l’immagine che non ce ne frega proprio proprio veramente veramente un emerito cazzo che la gente ascolti questa musica o no. Ed era vero, assolutamente vero. Non avevamo in mente di trasformarci in professionisti con quell’album, tanto che abbiamo lasciato il paese per andare a suonare sulle strade della Spagna e di Berlino. Non ha funzionato, e siamo ritornati a Londra per fare concerti. Per cui non ci fregava davvero niente, ma avendone la possibilità, i fondi, l’opportunità, credo che chiunque vorrebbe cercare di andare un po’ oltre. Al punto in cui abbiamo cercato di creare il nostro piccolo mondo con il suono e i testi… una storia, capisci? Per cui spero che dia questa sensazione. Spero che sia un disco che metti su e ascolti dall’inizio alla fine, non una cosa spezzettata qui e là, qui e là. Che abbia un suono che veicola qualcosa.
Ma ascoltandolo mi sono chiesto: come farete a suonare pezzi così atmosferici dal vivo? Saranno sicuramente molto diversi. Pensate che la vostra reputazione dal vivo come band “da festa” vi abbia spinti a creare un album più riflessivo, più oscuro?
Penso che questo tipo di attrazione ci fosse già nel primo album, quella per un’atmosfera morbida, melodica, un po’ sensuale, è una cosa che noi tutti amiamo, ma specialmente Saul, che oggi non è con noi. Siamo tutti grandi fan di quel tipo di musica, folk, country, Joe Meek, Townes Van Zandt, Blaze Foley, Joni Mitchell, Carpenters, tutta quella roba. La amiamo. Ma alcuni di quei pezzi non li suoneremo dal vivo, a meno che non riusciamo a mettere in piedi un tipo di live completamente diverso in cui suonarli, o facciamo un tour apposta per questa roba. Suonare tutto il disco dal vivo sarebbe molto difficile, senza un budget molto alto. Per cui penso che suoneremo cinque o sei canzoni nuove, ne abbiamo preparate quattro o cinque per questo tour e le stiamo un po’ testando, poi a febbraio saremo pronti per il primo tour da headliner. Comunque sì, c’è una discrepanza tra il concerto, lo studio e la sala prove e io non ho problemi con ciò. Vorrei che le registrazioni suonassero un po’ più live, un po’ più ruvide, ma di solito non sono quello che ha l’ultima parola nello studio. Il mio ruolo è quello di concepire una linea vocale, magari un riff, e un testo, e contribuire con questi elementi. Questo è il mio lavoro, principalmente. Compongo musica, ma se lo faccio si tratterà di una cosa molto molto molto molto semplice. Un giro di banjo e una melodia vocale, poi la passo agli altri e loro lo trasformano in qualcosa d’altro. È un ping pong.
A questo punto Nathan ci interrompe.
Nathan: Hey, Lias! Di cosa parla “Love is the crack”? Non parla di crack, giusto?
Lias: Parla anche di crack. Parla di crack e anche di… “Love is the crack” è, di base, un’altra canzone che ho scritto su Saul, perché io amo Saul, ed è probabilmente l’unica altra persone che ho sempre amato per davvero al di fuori della mia famiglia, ma mi ferisce più di chiunque altro abbia mai conosciuto. In fondo, “Love is the crack” è solo una canzone d’amore. Un botto di testi dell’album parlano dello stesso tema, volevo scrivere un disco che fosse personale, sai. Non solo “scopiamo le bambine”, “bombardiamo i parchi dei divertimenti”; volevo scrivere qualcosa che parlasse dei miei veri sentimenti verso le persone nella mia vita. Per cui parla di quello.
Nathan: Grazie. Quindi NON parla di crack.
Lias: Parla ANCHE di crack! [Si urlano addosso per qualche secondo] Perché puoi avere lo stesso rapporto con il crack. È l’unica cosa che ti dà gioia, l’unica cosa che ti dà felicità, è un feticcio, un’ossessione, e al contempo di distrugge.
Nathan: Per cui cos’è meglio, il crack o il crystal meth?
Lias: Personalmente: il crystal meth.
Nathan: Per cui il pezzo parla di crystal meth.
Lias: Il pezzo parla di crystal meth.
Noisey: “Love is the crystal meth”.
Lias: Già, “Love is the crystal meth”.
Ci sono altre band che sentite come alleate?
Anche se hanno scritto una canzone che ci insulta, perché sono una manica di stupide teste di cazzo, gli Sleaford Mods sono senza dubbio un gruppo con cui sento di avere un’alleanza. Ogni tanto chatto con Jason e mi incoraggia sempre molto, e viceversa. Amo quella band, amo la loro musica. L’odio, la bile, il sarcasmo. Tutte queste cose derivano dal fatto di vivere in un inferno senza anima, senza speranza, senza futuro, grigio e aziendalista. Vedi, loro sono riusciti a trasformare tutta questa roba in una figata, ed è quello che cerchiamo di fare anche noi. Per cui sento un’alleanza con loro. Ma soprattutto la band a cui ci sentiamo più vicini si chiama Meatraffle. Il loro nuovo album esce in questo periodo, si chiama Hi-Fi Classics, ed è sulla nostra vecchia label Trashmouth records. A tutti i lettori: dovete assolutamente ascoltare i Meatraffle. Sono uno dei gruppi migliori che conosco, con una filosofia fantastica e un suono fenomenale.
Dall’angolo di Nathan si sente suonare “Double Trouble” dei PIL.
Nathan, che cazzo, puoi abbassare il volume?
Nathan: È lei che vuole sapere cosa ne penso! Mi sta facendo ascoltare un pezzettino veloce. Mi sembra una brutta coppia degli Sleaford Mods, tra l’altro.
Lias: Chi sono, i B-52s?
Nathan: Senti che roba, è disgustosa, cazzo!
È il nuovo dei Public Image.
Quello è il nuovo PIL? Ah, i PIL ne azzeccano una sì e una no.
Allora, cosa stavamo dicendo? Mi parlavi dei Meatraffle…
Oh, e Richard Dawson! Richard Dawson, “The Vile Stuff”. Come band abbiamo sviluppato una dipendenza dall’ascolto di quella canzone, la mettevamo in repeat per circa un mese. Però penso sia uno di quei pezzi che… Perché non l’ascolto da circa sei mesi. È uno di quei pezzi che ti coinvolgono profondamente, molto profondamente. È un impegno. Sono sicuro che tornerò ad ascoltarla, ma è un rapporto che si ha con un romanzo o roba del genere, non leggi sempre lo stesso tutti gli anni. È un mondo creato da lui. Negli ultimi cinque/dieci anni è probabilmente la cosa più forte che ho sentito, dal punto di vista del testo. Per cui, non so cosa pensi lui della nostra band, probabilmente che facciamo cagare, ma io sento una grande affinità con quello che fa lui.
Lo conosco, è di Nottingham, giusto?
No, è di Newcastle. I migliori vengono sempre dal Nord, sai?
So che condividiamo una grande passione per i Country Teasers. Io sono un loro grande fan, e non ho potuto non notare la loro influenza su di voi.
Sì, mi sa che noi li copiamo più di chiunque altro. Del resto, perché no? La loro musica avrebbe dovuto diventare famosa. Mi piace pensare che noi abbiamo fatto la nostra parte nel far sì che più giovani andassero a comprare i loro dischi.
Come Ben Wallers dei Country Teasers, anche tu sei famoso per i tuoi testi su argomenti tabù. Senti una certa pressione per mantenere la tua fama da provocatore?
Penso che, visto quanto rigorosamente, incessantemente monotona è diventata la musica con le chitarre negli ultimi dieci o quindici anni, quanto dolorosamente e inesorabilmente noiosa e arida e prudente e media è diventata, penso che sia un obbligo naturale quello di andare il più possibile nella direzione opposta e scrivere cose più provocatorie possibile. Voglio dire, non cose totalmente a caso: “Cream of the young” parla di, sai, scoparsi le ragazzine, per cui non è esattamente un argomento facile per la BBC. Roba come questa ha senso, e penso che abbia senso anche parlare di bombardare i parchi dei divertimenti. Penso che queste cose facciano riflettere. Per me è come piantare un totem culturale nel mezzo della canzone. Qualcosa che abbia un contesto storico, a cui il pubblico può aggrapparsi. Qualcosa che sia reale, un vero problema, una vera questione. Se parlo di sesso, voglio parlare di sesso nel modo più intimo possibile, non voglio parlarne come di un’entità estranea, patinata, voglio parlarne come di una cosa che mi fa sentire male. Metà del tempo voglio farlo, l’altra metà del tempo mi viene da vomitare.
Che ruolo ha l’umorismo nelle tue canzoni?
Importantissimo. Voglio dire, le due cose che credo mancassero nella musica degli ultimi anni sono il sesso e il senso dell’umorismo. Non c’era niente che ti facesse arrapare, niente che ti facesse ridere. Voglio dire, cosa vuoi ascoltare? I cazzo di Kaiser Chiefs? I Maccabees? Questa gente di merda. Niente sesso, niente humour. È solo roba media, indie rock per gente media. E noi viviamo in un’epoca in cui è in atto una pulizia sociale nei quartieri di Londra, capisci? E ci troviamo con questi… questi sarebbero i rappresentanti…? Questa gente dovrebbe prendersi un po’ di cazzo di responsabilità, fare più casino possibile, dovrebbero dire: questo è giocare sporco, fa schifo, non c’è più speranza… questa è merda. E io non la voglio mandare giù. Finché respiro, finché mi reggo in piedi e posso fare un po’ di casino, la mia missione sarà di essere il più esplicitamente sprezzante che posso della realtà che mi viene presentata. È da questo che è partito tutto, più o meno.
Be’, direi che io sono soddisfatto. C’è qualcosa d’altro che vorresti aggiungere?
Voglio dire alla gente d’Italia di non perdere tempo ad ascoltare Slaves, Wolf Alice, chi altro? [Rivolto a Nathan]: Oi, chi altro c’è che ci sta sul cazzo? Quali sono gli altri che fanno cagare? A chi dobbiamo rispondere per le rime? Ci sono delle altre facce di cazzo… Florence and the Machine! Esplodesse, quella troia di merda. Chi altro c’è? Dai. Maccabees, Foals…
Nathan: Mac de Marco…
Lias: Mac de Marco! Vaffanculo quel poser! Mr. Nice Guy Cunt, non c’è un cazzo da essere contenti. È una sciagura. “Oh, io sono a casa a non far niente, venite a trovarmi a casa”. Ci vengo io a casa tua. La prossima volta che sono a New York vengo a casa tua, brutto stronzo. Chi altro c’è? I Royal Blood, anche se il batterista mi sta simpatico, è un bravo ragazzo, ma loro sì che sono una disgrazia per la musica. E la reunion dei Libertines è una cazzo di barzelletta, sono patetici, voglio dire: facevano già cagare prima, ora che sono sovrappeso non può andare molto meglio, giusto? E con questo ho detto tutto.
Il nuovo album dei Fat White Family Songs For Our Mothers esce venerdì 22 gennaio per Without Consent Records. Puoi prenotare la tua copia digitale su iTunes o in vinile/CD su Amazon.
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