Identità

‘Cos’è per me il femminismo’, spiegato da una femminista musulmana

Milanpyramid - Aya

Di femminismo si parla sicuramente di più rispetto a prima, ma pensiamo che tante persone abbiano un’idea ancora un po’ confusa del suo significato. E che molte altre siano curiose di saperne di più. Per questo, oggi più che mai, è importante ascoltare.
Ascoltare—dato che non c’è un femminismo monolitico, ma un movimento fatto dai tanti punti di vista di chi lo porta avanti—storie di femminismo diverse tra loro (tranne Terf e Swerf, per noi quello non è femminismo).

Oggi a parlare è Aya, blogger musulmana di Milano.

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Mi chiamo Aya, ho 23 anni e sono una musulmana italiana di origini egiziane. Studio scienze politiche, e dal mio blog e i social media cerco di rompere i pregiudizi e gli stereotipi che riguardano la comunità e le donne musulmane, soprattutto quelle velate. Definirei questo sport attivismo sociale, dato che a rendere il tutto più interessante mi identifico anche come femminista.

Femminista è una persona che crede nella parità sociale, economica e politica tra i sessi. La parola chiave qui è parità, non uguaglianza: l’uguaglianza spesso neutralizza le differenze, più che includerle, e può creare ingiustizia. La parità, al contrario, si basa su un sistema “proporzionale” che comprenda le differenze essenziali e cerchi di portare tutti sullo stesso livello, tutelando i diritti di ciascuno. Io penso che questo rispetti pienamente la mia fede (nonostante sia diffuso il pensiero contrario): la mia decisione di indossare il velo non è solo un atto di amore verso Dio, spirituale e di espressione della mia identità. Per me è un gesto di forte riappropriazione del sé, perché dice: “io ho potere sul mio corpo, nessun altro.”

Oggi però sono qui per parlare di un approccio in particolare del femminismo—quello intersezionale, che chi conosce, avendo letto la descrizione che ho fatto di me, potrebbe magari associare a quello in cui mi riconosco maggiormente.

Il femminismo intersezionale nasce per essere più inclusivo, rispetto ai precedenti femminismi, di tutte quelle esperienze di vita diverse che subiscono una qualche forma di oppressione. Promuove quindi una lotta comune di tutti coloro che vengono discriminati per raggiungere una società più equa, non fermandosi alla difesa dei diritti sociali, economici e politici della donna occidentale e bianca ma aprendosi anche a chi non lo è, indipendentemente dalla sua etnia o religione, dal suo orientamento sessuale o dalle sue capacità fisiche.

Teoricamente parlando, dicevo, dovrei ritrovarmi in questo tipo di femminismo, perché—sempre teoricamente—dovrebbe includere anche me, come donna musulmana che indossa l’hijab. Francamente, però, è un movimento in cui non mi riconosco davvero. Perché? Perché penso che l’inclusività, senza rappresentazione, rischi di perdere di credibilità.

Una mancanza di rappresentazione—ovvero ciò che mi fa dire: perché non vedo raccontare esperienze di vita simili alle mie, o di chi condivide le mie origini, cultura o fede?—è esattamente ciò che ci fa associare una tipologia di persone ad alcune caratteristiche e solo ed unicamente a quelle. Così come una rappresentazione sbagliata, anziché rompere i pregiudizi e permettere di supportarci tutti e tutte, finisce per rafforzare i soliti stereotipi senza fornire in alcun modo una nuova narrazione. Stereotipi e pregiudizi che entrano in gioco inconsciamente, ma che sono basati su una narrazione unica di quella tipologia di persone.

Per questo, a chi mi chiede cosa mi piacerebbe vedere nei movimenti femministi, rispondo semplicemente “più rappresentazione”, che è alla base dell’inclusione di persone simili a me, e “meno esperienze di vita raccontate da persone totalmente estranee ad esse,” da “paladine bianche”—un fenomeno abbastanza ricorrente nel femminismo occidentale, fatto di chi vorrebbe per esempio strappare il velo dalla testa a tutte le ragazze musulmane del mondo perché, poverine, devono essere liberate. Tutto ciò, ovviamente, senza mai chiedere a loro se sono oppresse o meno.

Questo accade anche perché il privilegio non è soltanto quello di un sistema maschilista. Il privilegio è ovunque, ed è quello che non permette di comprendere un punto di vista differente. Che impedisce di dare visibilità ad altre voci, ascoltarne le storie, riportarne le testimonianze e lasciare loro spazio. Solo operando perché invece ciò sia possibile si è inclusivi, rappresentativi e non si cade negli stereotipi. Solo in questo modo si è alleati.

Il fatto che io non mi riconosca all’interno di movimenti femministi precisi non significa che non li supporti. Sono convinta sia importante creare ponti e avere conversazioni aperte su argomenti delicati, così come è importante sostenere l’impegno verso la diversità e un sistema più inclusivo rispetto a identità genere, orientamento, etnia, religione, classe sociale o disabilità. Nel mio caso, di femminista musulmana, significa anche far conoscere il più possibile l’operato di persone come Sumaya Abdel Qader, Linda Sarsour, Ilhan Omar, Rashida Tlaib.

Allo stesso tempo, sono convinta che serva ancora molta strada sulla percezione del femminismo in generale, in Italia, al di fuori del movimento. Oggi la parola “femminista” fa ancora paura a molti, soprattutto a chi non ne conosce il significato o lo associa soltanto a pensieri estremi e controversi o a una specie di lotta per la supremazia della donna sull’uomo (che femminismo non sia il corrispettivo inverso di maschilismo lo dovremo ancora ripetere a lungo, vero?).

A queste persone—e a tutte le altre—ricordo che il femminismo lotta contro ogni forma di discriminazione. Che il femminismo lotta anche per gli uomini, uomini che possono essere vittime di mascolinità tossica, ovvero quel meccanismo all’interno del patriarcato basato sui concetti di “machismo” e “virilità”.

In conclusione, quello che mi auguro più di tutto è che le persone possano comprendere veramente il concetto di libertà di scelta del femminismo. La libertà di scelta di una donna di fare quello che vuole. La libertà di scelta di una donna di scoprire o coprire il suo corpo. Sono due facce della stessa identica libertà.

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