Vi risparmierò di iniziare questo articolo con una di quelle frasi tipo “Berlino era gelida e grigia in una feroce mattina di fine gennaio” e passerò subito al dunque. Dal 31 gennaio al 3 febbraio a Berlino si sono svolti Transmediale e CTM (Club Transmediale), ovvero il più importante festival internazionale di arte e cultura digitale e la sua estensione a tutti gli aspetti sperimentali del panorama musicale contemporaneo.
Il programma è così vasto e pieno di cose interessanti che già prima di partire vengo colta dall’ansia. Ma questo è un bene, perché il tema di Transmediale di quest’anno è: emozioni, sentimenti, empatia e il loro ruolo sempre crescente nella cultura digitale. Premessa: chi scrive non lo fa come esperto di arte e cultura digitali, ma come persona con un background umanistico interessata a raccontare gli aspetti culturali dell’evento in senso lato.
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Nell’enorme “ostrica gravida” illuminata di rosa della Haus der Kulturen der Welt si sono riuniti “artisti, ricercatori, attivisti e pensatori per sostenere una riflessione critica, interventi sui processi di trasformazione culturale da una prospettiva post-digitale e offrire nuove prospettive e approcci su come la condizione digitale e tecnologica sia diventata un fattore di influenza in tutte le sfere della vita”—recita lo statement.
La prima cosa che si deve far notare è che l’aspetto creativo-visivo è sempre più ridotto in favore di quello puramente teorico. Non si tratta del tipo di manifestazione artistica in cui ci sono mostre o installazioni, quanto piuttosto di un congresso, una conferenza per addetti ai lavori e esperti del settore, in cui lo spazio viene quasi interamente lasciato a lecture, performance, talk, proiezioni e workshop.
L’impressione è di un evento che si è ormai istituzionalizzato e che manca totalmente di una presa di posizione
Già durante l’opening nella sala congressi, a cui sono presenti migliaia di persone, la sensazione che si coglie è principalmente quella di una mancanza di entusiasmo generale. Nonostante i temi affrontati siano scelti per il loro potenziale sovversivo e politico, di fatto poi “si parla di emotional computing allo stesso modo in cui ne parlerebbe qualcuno andando a cercare il termine su Wikipedia,” ci dice un italiano junior fellow alla Goldsmith di Londra. “Per una volta che si ha l’occasione di dire qualcosa di incisivo o di importante ad un pubblico attento e interessato, se ne parla in maniera accademica e superficiale.”
L’impressione è effettivamente quella di un evento che si è ormai istituzionalizzato e che manca totalmente di una presa di posizione, nonostante rieccheggi dovunque e in maniera ossessiva la parola “capitalismo.” Se un certo discorso marxista è di nuovo hype, infatti, non si può negare che in tale contesto questo termine sia abusato e buttato a caso qua e là in molte delle performance e delle lecture, come per dare loro un tono impegnato e vagamente radicale.
Un buon esempio di questo meccanismo forzato è il Cryptorave, una roba dove dovevi fare delle complicatissime operazioni di mining per accedere alle informazioni su dove e come si sarebbe svolto, per poi rivelarsi un dj set durante l’happy hour davanti al bar nella hall principale. Nota positiva: uno degli sponsor distribuiva birra gratis.
Come ha scritto l’artista Maria Oscar Cassiani in un commento a caldo: “La cultura rave è in realtà al centro dell’ultima ondata di appropriazioni operata dalla borghesia dell’arte.” Di fatto quello che ho sentito è stato parlare di emozioni e sentimenti e solidarietà, senza mai vederne l’ombra e senza che nessuno si ponesse il problema. Scrive Cristina Bogdan, curatrice e critica d’arte:
“Dopotutto, nessuno era interessato ai contenuti, nulla di ciò che veniva detto era nuovo o persino sensato. Per cosa erano lì? Networking, suppongo. Spuntando alcuni riquadri, lasciandosi vedere, muovendosi in uno spazio familiare, testando che sono ancora a loro agio (accettati) in questo spazio, replicando all’infinito il mondo dell’arte con ogni loro mossa. Non il mondo dell’arte del cubo bianco, naturalmente, ma la sua versione annacquata che racchiude teorici culturali, professori dei media, accademici di ogni estrazione, artisti e attivisti, scrittori e commentatori. I membri del pubblico annuiscono col capo in segno di approvazione ogni volta che sentono “decapitalizzare”, “precariato” e altri tag di questo tipo, di potere e coerenza interni al gruppo, accompagnati da una risatina a cui non sono riuscita ad abituarmi.”
Ovviamente non sto dicendo che il Transmediale non sia interessante, se volete tenervi informati sulle novità e sullo stato attuale dell’arte europea. Ma si tratta sempre di “quel” tipo di mondo dell’arte presente in certi ambienti ben delineati e chiusi, che va in scena sempre con le stesse modalità, con gli stessi travestimenti e con i medesimi atteggiamenti che già ben conosciamo. O anche, come conclude la Bogdan, “è diventato una scusa per gli europei spaventati di piangere la perdita di privilegi e ostentare un impegno civile nelle questioni sociali di tutto il mondo.” Il pensiero finale che ci resta addosso è che l’arte, quella viva, sta da qualche parte, ma di sicuro non qui.
Fortunatamente ciò non vale per la musica del CTM, “Festival for adventurous Music and Art.” Decisamente più aperta a contaminazioni, la costola clubbing del Transmediale è sempre concentrata su aspetti tecnologici e in qualche misura futuristici ma con un approccio decisamente più interessante. La parola chiave di questa edizione è “Persistence.” Persistenza nel non cadere in nessun dogma e in nessuna rigidità, nel coltivare con fermezza il riconoscimento della diversità, delle differenze, delle ibridazioni, abbracciando la fluidità, l’incerto, il flusso.
Un approccio che si trova già nella prima mostra che vedo al Bethanien Center, quartier generale del festival, dal titolo Persisting Realities. La sensazione qui è quella di trovarsi ben lontani da ogni presunzione con la puzza sotto il naso della Haus der Kulturen. Usando ogni forma possibile di espressione gli artisti coinvolti cercano di rispondere alla semplice ma sempre più urgente domanda: come possiamo coltivare la gioia?
Nei sotterranei del Berghain, invece, c’era il Mantis, una sound-sculpture appartenente all’arsenale sonico di Nik Nowak. Due cingolati di due tonnellate e dotati di abnormi impianti stereo, posti uno di fronte all’altro e separati da una rete che simboleggia la guerra sonora, detta “Lautsprecherkrieg,” avvenuta negli anni Sessanta tra il lato Est e quello Ovest della città durante la costruzione del muro. Un video proiettato sullo sfondo, montato in maniera ineccepibile da Moritz Stumm, mostra la storia della Germania negli ultimi cinquant’anni, fino al conto alla rovescia per la fine, con un countdown implacabile sopra le immagini della foresta amazzonica che brucia.
Nei tre dancefloor di Berghain, Panorama Bar e Saule, vedremo avvicendarsi nelle varie serate, muri di noise come quelli di AJA, sonorità molto più punk come quelle dei Cocaine Piss, altre hardcore come Miss Djax, altre più dance con The Black Madonna, e in assoluto quelli più apprezzati e di cui tutti hanno parlato per giorni, i Gabber Modus Operandi, il duo balinese che mischia della gabber “200 bpm orgasm club music” ai suoni tipici dello jathilan, una danza tradizionale indonesiana in cui i corpi in stato di trance vengono posseduti da uno spirito che li trasforma da uomini in animali.
Il clou serale del sabato si sposta invece allo ShwuZ, storico club gay nel quartiere à la page del momento, Neukölln. I nomi più attesi della serata sono di certo Fatima Al Qadiri e Deena Abdelwahed, ma c’è da dire che anche Linn da Quebrada, il leader della resistenza black-trans nel Brasile di Bolsonaro, fa il botto, inscenando una sorta di rito in cui ci fa inginocchiare e benedire da una mastodontica figura androgina, con un fallo e del vino. Tutto molto scenografico. Ma forse proprio per l’accostamento azzardato di un pubblico poco incline a scomporsi a quello più variopinto e danzereccio solito dei club, l’atmosfera durante queste serate è un po’ distaccata e fa fatica a decollare.
Tra tutte queste migliaia di persone intellettualoidi — curate, stilose e salutiste attraverso un raffinato e ormai comprovato sistema di tox/detox — che sono qui ad affermare il diritto di ognuno di essere diverso e accettato per quello che è, gli unici che si distinguono davvero sono gli addetti alle pulizie che stanno davanti ai bagni a monitorare la situazione e tenerli continuamente puliti.
Il closing concert di domenica sera è invece al Heimathafen, sempre a Neukölln. Una sala bianca e elegante con tanto di galleria e parquet ci accoglie per l’ultimo malinconico tris di live, cominciato con il collettivo londinese CURL di Mica Levi, continuato con il lirismo initimista ma, come live, un po’ troppo statico, di Tirzah, e finito con Yves Tumor che ci si buttava addosso in un’esplosione di suoni che ha risollevato un pochino gli animi.
Per riuscire a fare tutto, tra Transmediale e CTM, gli ultimi due giorni nessuno ha dormito. Dopo giornate intere passate a fluttuare nell’atmosfera del festival tra il giorno e la notte, tra il sotto e il sopra, tra Oriente e Occidente, il ritorno alla realtà è stato brutale. Prima di andare all’aeroporto sono entrata in un supermercato. Presa dall’arsura, agguanto una bottiglia con su disegnate delle mele e la parola Äpfel sull’etichetta, ma appena do una golata avida scopro che non era succo di mele, era aceto. Ok è finita, mi sono detta, è ora di tornare a casa.