Cibo

A Bologna c’è un forno georgiano e dovete correre a provarlo

Forno Georgiano a Bologna

“Il Khachapuri Adjaruli è la famosa pizza georgiana a forma di barchetta che viene servita con un tuorlo galleggiante dentro insieme a pezzi di burro – la risposta caucasica all’eutanasia legale”

La Georgia è il paese dove ho mangiato meglio in tutta la mia vita. Chi mi conosce sa che da quando ci ho passato una settimana, ad agosto 2018, ripeto con frequenza fastidiosa quanto sono accoglienti i georgiani, deliziosi i piatti tipici georgiani, irresistibile il vino georgiano (concludendo spesso con un “Ah ah ah d’altronde quel paese porta il mio nome!” che di solito porta i presenti a disperdersi con sorrisetti di circostanza).

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Forno Georgiano a Bologna, in via Sebastiano Serlio. Foto dell’autrice.

Appena ho saputo che a Bologna aveva aperto un forno georgiano, quindi, mi ci sono precipitata. Mio compagno di avventure è stato Marco Salicini di Gourmettoria il cui blog tiene informata tutta la città, chef compresi, delle novità nella ristorazione cittadina: stavolta sono arrivata prima di lui a sapere, tramite passaparola, dell’apertura del forno, e provo un malcelato senso di soddisfazione mentre lo invito a pranzo.

Forno
Il forno. Foto dell’autrice
Forno Georgiano
La proprietaria e il forno | Foto di Marco Salicini

Ci troviamo in via Sebastiano Serlio, poco fuori da Porta Mascarella, in un martedì mattina di giugno in cui l’umidità bolognese sta facendo le prove ufficiali per l’inferno estivo in cui tra poco si trasformerà. L’insegna Pane Georgiano.Vino Georgiano, con le due bandiere, italiana e georgiana, sullo sfondo, si nota da lontano. Gli interni sono quelli poco rifiniti – sedie di plastica e pareti vuote – di chi ha aperto da pochissimo, per la precisione il 13 maggio. Dovevano inaugurare l’8 marzo ma ci si è messo di mezzo il lockdown.

“Il forno l’ha costruito un fabbro georgiano venuto apposta. Il pane (puri) si cuoce sulle pareti di argilla”

Dietro il bancone c’è Shorena Kurkhuli: “Io e mio marito siamo in Italia da 22 anni. Abbiamo una ditta di trasporti. Un giorno ci siamo detti, perché non aprire un ristorante, visto che in città non possiamo sentire da nessuna parte i sapori del nostro paese?”. Eh già, replico, perché in effetti è assurdo che in Italia non ci sia nemmeno un ristorante georgiano. Lei mi guarda perplessa e replica che no, ce ne sono già altri due, a Bari e Pavia (immaginate riascoltarsi sbobinando quest’intervista volersi seppellire). Mi racconta anche delle grandi comunità di immigrati georgiani a Bari, Napoli, Reggio Emilia.

Puri
Puri

La parte fondamentale del locale è il forno: gliel’ha costruito un fabbro georgiano venuto appositamente dal loro paese.

La forma è circolare e viene rivestito interamente di argilla (volevo chiedere di sbirciarne l’interno ma non sarebbe stato propriamente igienico) e il pane (puri) si cuoce sulle pareti: “È quello che lo rende speciale nel sapore,” mi spiega. “Gli ingredienti sono solo farina acqua e lievito.” Tradizionalmente si usa il fuoco a legna, loro hanno dovuto ripiegare sull’elettrico. Aperti a pranzo e cena, vendono pane fresco e propongono una selezione di piatti tipici, da gustare lì o portare a casa.

Bibita al dragoncello
Limonata al dragoncello

Nel frigorifero hanno anche molte bibite georgiane, e l’acqua Borjomi direttamente dalla Georgia, di cui nel paese vanno orgogliosissimi. “È così ricca di bicarbonato di sodio da normalizzare il livello di pH e di creare le condizioni ottimali per il metabolismo,” leggo sulla loro pagina Facebook. Io ricordo solo che l’avevo trovata imbevibile e glisso. Poi ci sono le limonate tipiche, tra cui quella aromatizzata alla crema – non me la sono sentita – e quella al dragoncello: è verde fluorescente e zuccherina come la ricordavo, ma la nota amara del dragoncello la rende piacevolmente beverina.

Kakhaber Tsertsvadze, di lei marito e socio, ci spinge a ordinare anche un bicchiere del vino rosso Saperavi. Boccheggiamo pensando ai 45 gradi percepiti ma ehi!, non è il momento di fare i pusillanimi. Ci spiega che a breve arriveranno altre etichette di un’azienda che è “la Ferrari” del suo paese mentre i vini georgiani conosciuti qui – capisco intende i naturali, macerati in anfora – sono “le Fiat”. Non mi trovo d’accordo, ma il Saperavi è comunque interessante (notare l’ampiezza del mio vocabolario in fatto di vino).

Lei
Shorena

In menu ci sono tutte le variazioni georgiane sul tema lievitati e formaggio, come il Khachapuri Adjaruli, la famosa pizza georgiana a forma di barchetta che viene servita con un tuorlo galleggiante dentro insieme a pezzi di burro – la risposta caucasica all’eutanasia legale. Ci sono anche i panini ripieni Kubdari, i Blineti – sorta di crespelle – e molti altri piattini, tra cui i Phkali di verdure e noci. Ovviamente vogliamo provare il Khachapuri Adjaruli (quello Imeruli, invece, ha l’aspetto di una focaccia farcita di formaggio) e loro stessi ci consigliano di ordinarne solo uno per due persone.

Lui
Kakhaber

I tavolini intorno a noi si riempiono, apparentemente solo di georgiani.

Perché si mangia cosi bene da voi?, chiedo a Shorena. “Qual è il segreto? Si mangia bene, sì,” replica guardandomi preoccupata come una rockstar guarda la groupie che si rivela mentalmente instabile. “Ma non so bene qual è il segreto. Forse che ci piace far da mangiare. Accogliere. Servire a tavola. Quindi facciamo sentire tutti come dei familiari invece che degli ospiti.”

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Verdure e salsa di noci | Foto di Marco Salicini

I khinkali sono i ravioli giganti ripieni di carne e brodo che si mangiano mordendone una parte, succhiando il brodo e lasciando la parte in cima, un nodino di pasta dura

Arrivano le verdure con salsa di noci: peperoni, melanzane, spinaci. Io me le ricordavo mangiate in casa di vignaioli e contadini, con ortaggi appena raccolti ed erbe fresche di campagna, quindi il primo morso è inevitabilmente un po’ diverso.

Khachapuri
Il khachapuri in tutto il suo splendore | Foto di Marco Salicini
Egglicious
Il khachapuri ormai dilaniato.

Ed eccolo, il khachapuri. Mescolo tutta contenta tuorlo, burro e formaggio, come avevo imparato a fare. Shorena mi spiega che il formaggio si sono trovati costretti a farlo loro perché non ne trovavano uno simile in Italia e lo paragona a un “primosale pugliese” come sapore.

In teoria bisognerebbe pucciare la crosta dentro il ripieno e così facciamo, rischiando l’ustione alle dita. L’impasto è leggermente crudo, ma è un peccato veniale, per un forno appena aperto.

Ravioli
Khinkali | Foto di Marco Salicini

Shorena passa di fianco a noi con un piatto pieno di khinkali, i ravioli giganti ripieni di carne e brodo che si mangiano mordendone una parte, succhiando il brodo e lasciando la parte in cima, un nodino di pasta dura, sul piatto a ricordarti di quanti ne hai mangiato. Sul menu, ovvero il foglio A4 appeso in vetrina, non c’era, e non ce l’avevano detto nemmeno a voce. Il mio consiglio è di controllare prima sulla loro pagina Facebook, Pane Georgiano, dove trovate il menu completo e il numero Whatsapp per ordinare a domicilio. Non è tradotto ma con l’aiuto di Google Translate riuscirete a capire approssimativamente che piatti sono.

La famiglia georgiana del tavolo di fianco divora i ravioli con gusto, noi siamo troppo pieni. Il conto: 13 euro. Compreso di tutto. Sicuramente nel forno ci sono ancora tante cose da sistemare, ma tornerò, torneremo: i proprietari sono gentilissimi, i piatti da provare tanti.

Ancora
Il khachapuri

Mentre ritorno verso casa mi sento inspiegabilmente contenta. Nemmeno l’afa del centro città o il fatto di avere lo stomaco foderato di formaggio scalfisce il mio buonumore.

Se c’è una cosa che ho realizzato in questi mesi di lockdown è che scrivere di ristoranti non mi manca. Non sono mai stata brava a descrivere un menu degustazione, giudicare in punta di penna il servizio di sala, riassumere la filosofia di cucina di uno chef e il percorso della sua carriera. Se c’è una cosa che mi è mancata, invece, è scoprire questi posti che definire ristoranti è illegittimo, ma la cui scoperta mi rende felice. Mi dà l’impressione di abitare in una città viva. Di dare un reale contributo alla comunità facendo conoscere realtà che meritano di essere conosciute: locali che non possono permettersi un ufficio stampa ma offrono servizi accessibili a tutti. Luoghi autentici. Sgarruppati. Genuini.

Passo di fianco alla vetrina di un locale in zona universitaria con la scritta GIN BURGER POKÈ. Abbiamo bisogno di posti simili? Sinceramente non credo. Voglio tornare a parlare di posti simili? Parlo per me: no. Ma i posti sgarruppati quelli sì, continuerò ad amarli e a scriverne.

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