Foto dei miei cinque anni con una comunità rom torinese

Andrea Ciprelli è un fotografo che ha iniziato come assistente durante i servizi matrimoniali. L’attenzione per la cerimonialità e per i dettagli nei ritratti gli è tornata utile anni dopo, quando si è trovato a raccontare la comunità rom del campo torinese di Lungo Stura Lazio.

Perché il percorso che ha portato al progetto Con Gli Zingari si è aperto proprio così: con un matrimonio celebrato nel 2012 all’interno del campo. Da allora Andrea ha vissuto a stretto contatto con la comunità di Lungo Stura documentando le festività, il ruolo della figura femminile, i legami con la tradizione ma anche il progressivo distacco da essa. E testimoniando il mutare di quelli che definisce “gli ultimi indiani d’Europa.”

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L’ho contattato per farmi raccontare come ha vissuto questi anni.

VICE: Ciao Andrea, raccontami come è nato il progetto.
Andrea Ciprelli: Ho iniziato attraverso un’associazione che doveva pubblicare un libro sulle condizioni dei campi rom a Torino. Durante una di queste giornate nel campo di Lungo Stura, nella zona nord, sono stato colpito da un’immagine in particolare, che poi è proprio una delle foto principali del progetto. Quella di una madre che bacia il figlio mentre gli fa il bagno.

A casa ho una foto simile, con mia nonna, e in quel momento ho cominciato a vedere con occhi diversi il posto in cui mi trovavo. Dall’immagine del luogo degradato, da cui chiunque vorrebbe scappare, quel gesto mi ha dato il senso di una dimensione parallela. Che volevo raccontare, ma innanzitutto conoscere—a partire dal matrimonio a cui sono stato invitato.

Da lì ho iniziato ad andarci minimo un paio di volte a settimana. Mi fermavo a dormire durante le feste e i matrimoni. Ero lì per Pasqua, per Natale, o per la festa di San Giorgio, che per loro è molto importante. Insomma, dopo un po’ sono diventato una presenza fissa.

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Un abitante del campo balla durante i festeggiamenti per un matrimonio.

Che storia ha la comunità di Lungo Stura Lazio?
Oggi il campo è stato chiuso. Io sono arrivato nel periodo in cui una parte aveva cominciato ad essere smantellata dalle ruspe del comune, e quindi c’erano famiglia che dovevano ricostruirsi la baracca da zero in un’altra zona. Era un campo che aveva sempre avuto un rapporto difficile con la città: negli anni i cortei per chiuderlo sono stati numerosi.

Si estendeva per un’ampia zona che costeggiava il fiume, e c’erano più di mille abitanti. I nuclei più numerosi erano formati da giovani di origine rumena con i figli, ma c’era un’area—detta “la fossa”, perché si trovava in pendenza—in cui si raggruppavano le abitazioni di famiglie più legate alla tradizione. Ed è lì, appunto, che ho passato la maggior parte del tempo.

Al di là della fossa c’erano molte persone che non abitavano il campo in modo continuativo: magari tornavano in Romania per lavorare durante “la stagione”. Delle famiglie allargate che abitavano il campo in modo più assiduo, invece, molte si occupavano del recupero dei metalli che poi vendevano nei mercatini di Torino.

Inizialmente cosa ti ha colpito?
Il loro attaccamento alle tradizioni. Io nasco come fotografo di matrimoni, e ne ho fatti tanti. Ma non avevo mai visto niente del genere—nei balli, nel cibo, nella liturgia stessa delle dinamiche che portano al matrimonio.

La comunità rom da fuori appare quasi impenetrabile, e conoscendola poco a poco ti rendi conto che il dedalo delle loro tradizioni affonda le radici un po’ ovunque. È la loro stessa storia a testimoniarlo. Sono come un diario delle culture passate.

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Bambini giocano nel fiume che costeggia il campo.

Ho notato che in molti dei tuoi scatti i soggetti sono bambini.
La scelta è nata da uno dei primi scatti, come ti dicevo: volevo approfondire la tematica del rapporto madre-figlio legandola al pregiudizio secondo cui i bambini rom sono sfruttati dalle famiglie, che li mandano a rubare e a fare l’elemosina.

Con il proseguire del progetto la lente d’ingrandimento si è ampliata.

I bambini della comunità sono il simbolo perfetto delle contraddizioni e dello stigma che vivono i rom—oltre che il tramite per parlare anche di un altro aspetto che mi stava a cuore, la perdita delle tradizioni. L’esclusione, l’intolleranza e il dubbio generano la voglia dei bambini di mescolarsi con il mondo esterno. Molti vorrebbero vivere come i coetanei italiani, quindi si ritrovano in un limbo: una vita dentro la comunità, e una fuori, di cui magari non parlano.

Questa “omologazione” ha già degli effetti?
Be’, gli uomini ad esempio non vestono in modo tradizionale da molto tempo. Le donne più grandi le vedi ancora in giro con i loro abiti e i capelli acconciati in modo classico, ma l’uomo non esce più con la camicia a balze o il cappello. In un mondo che ti rifiuta, tendi a voler nascondere in un certo senso il tuo retaggio. Poi: la maggior parte della comunità ormai sono sedentarizzate. Noi li chiamiamo “nomadi”, ma non sono più nomadi.

Per lavorare alcuni nascondono le proprie origini. A dire che sono rumeni, magari, e non rom. Così possono trovare qualche giornata come manovali, o come donne delle pulizie. Alcune donne, infatti, non hanno voluto farsi fotografare: perché fuori dal campo i datori di lavoro non sanno che sono rom. Ci sono anche ragazzi che magari fanno gli impiegati, e che mentono.

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Un’abitante del campo in abiti tradizionali.

Nella presentazione del progetto fai un parallelo fra le comunità rom contemporanee e i nativi americani.
Ci sono dei legami molto forti, in primo luogo estetici. Se tu guardi le foto di Edward Curtis—un fotografo che lavorò con gli indiani d’America alla fine dell’Ottocento—trovi le stesse acconciature. Quando Curtis iniziò a lavorare sui ritratti dei nativi americani le tribù erano già confinate nelle riserve. Erano considerati degli ubriaconi, dei poco di buono. Una parte della società da tenere nascosta e da evitare. La devianza sociale era arrivata proprio con il confino: gli indiani non potevano più vivere secondo le loro tradizioni, ma non gli veniva concesso nemmeno di adattarsi alla società.

E così sta succedendo ai rom: non sono più allevatori di cavalli, maniscalchi, orafi. Vivono una condizione di segregazione, di depressione culturale e di povertà…

Che poi è l’altro grande tema in tralice che traspare dal tuo lavoro, la povertà.
È una condizione che viene vissuta allo stesso tempo con grande frustrazione e sopportazione. Verrebbe da dire “la società non mi permette di vivere il mio retaggio se non confinato in un campo, lavandomi nelle tinozze e abitando in una roulotte. Meglio andarsene e mischiarsi con gli altri.” Ma pochi lo fanno.

Ti faccio un esempio: se un membro anziano della comunità ottiene il diritto a una casa popolare non l’accetta. Non lascia i figli e i nipoti per andare a vivere in una casa con le comodità. Per questo sono così protettivi con il loro gruppo, e spesso diffidenti con gli estranei: sanno che il loro futuro non è certo.

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Una donna apre le danze tradizionali nella preparazione del banchetto per un matrimonio.
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Una giovane madre rom con il figlio.
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Un abitante del campo ricostruisce una nuova abitazione dopo che la sua è stata smantellata dal comune.
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Uuna danza tradizionale per festeggiare un matrimonio.
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Le abitazioni della “fossa” del campo di Lungo Stura Lazio, dopo i festeggiamenti per San Giorgio.
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Madre e figlio.
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