L’estratto che segue è tratto dal libro di Sebastião Salgado Kuwait: A Desert on Fire, che uscirà il 23 novembre per Taschen e in cui il fotografo brasiliano spiega cosa l’ha spinto a immortalare gli incendi appiccati dai soldati iracheni ai pozzi di petrolio nel 1991, e perché ha deciso di pubblicare queste immagini un quarto di secolo dopo.
Fu una coincidenza: ero in Venezuela a fotografare le raffinerie quando sentii che i pozzi petroliferi del Kuwait erano in fiamme. Le notizie della catastrofe allarmarono il Venezuela, dove per motivi di sicurezza si impedì l’accesso ai giacimenti agli stranieri—io venni prontamente espulso dalla regione petrolifera intorno a Maracaibo. A quel punto, il mondo intero sapeva che una coalizione militare, guidata dagli Stati Uniti, si preparava a costringere l’esercito iracheno a lasciare il Kuwait. Il successo di quell’operazione avrebbe segnato l’inizio di un’era di instabilità in Medio Oriente che continua tutt’ora.
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Non appena le forze alleate entrarono in Kuwait a metà del febbraio 1991, ponendo fine al sogno espansionistico di Saddam Hussein in sole due settimane, mi resi conto che la “vera” storia si sarebbe fatta nei giacimenti petroliferi del Kuwait, dove più di 600 pozzi furono dati alle fiamme e altri danneggiati in modo permanente. Chiamai Kathy Ryan, photo editor del New York Times Magazine, e mi proposi per coprire quella storia. Mi rispose entusiasta, e io iniziai il mio progetto.
Il petrolio era l’alfa e l’omega della storia dell’invasione irachena. Baghdad insisteva sul fatto di avere storicamente diritto ai territori del Kuwait, ma il vero motivo che aveva fatto andare Saddam Hussein fuori dai gangheri era che pensava che la sovrapproduzione di petrolio in Kuwait ne danneggiasse il prezzo sul mercato internazionale. Inoltre, credeva che, nell’esteso giacimento di Rumayla, a cavallo del confine tra Kuwait e Iraq, il Kuwait usasse il cosiddetto “slant drilling” per rubare petrolio dal suolo iracheno. Con l’annessione del Kuwait, l’Iraq non solo avrebbe potuto sfruttarne le riserve petrolifere, ma anche accrescere la propria influenza sul mercato internazionale. Almeno all’inizio, questa era per Saddam Hussein una punizione sufficiente per la famiglia reale del Kuwait detronizzata.
Ma presto dovette cambiare i suoi piani, quando divenne chiaro che il suo esercito sarebbe stato sconfitto da una coalizione internazionale e dall’operazione Desert Storm. Nel gennaio 1991, i soldati iracheni iniziarono ad appiccare fuoco ai pozzi del Kuwait, riuscendo in almeno uno degli obiettivi di Saddam Hussein—far salire i prezzi del petrolio. Il dittatore iracheno pensava anche che sabotare i giacimenti petroliferi avesse un’importanza strategica. Il fumo scuro dei pozzi in fiamme limitava la visibilità per le forze aeree della coalizione, fornendo protezione alle truppe di terra irachene. Inoltre, venne dato l’ordine di scavare lunghe trincee da riempire con petrolio infuocato per rallentare l’avanzata di carri armati e artiglieria pesante della coalizione. Comunque, il 28 febbraio l’occupazione irachena del Kuwait finiva, lasciando dietro a sé i pozzi in fiamme.
In men che non si dica ingegneri petroliferi e tecnici specializzati da Nord America ed Europa furono mandati a rischiare vita e arti in mezzo ai pozzi fiammeggianti e a fermare le perdite. Decisi di aspettare un paio di settimane prima di andare in Kuwait, durante le quali le compagnie formarono team specializzati e cominciarono a lavorare. Almeno una decina di compagnie vennero assoldate per coprire le falle, e il grosso del lavoro fu gestito dal team Safety Boss canadese, e da Red Adair Company, Boots & Coots International Well Control, e Wild Well Control—tutte statunitensi. Insieme a loro c’erano uomini coraggiosi e validi da altri paesi, autisti e manovali dall’Africa dell’Est e dal subcontinente indiano. Il loro lavoro era fondamentale: questi 300 expat avevano il compito di fermare la contaminazione dell’aria e dell’acqua, di permettere che la produzione di petrolio in Kuwait riprendesse e che l’economia nazionale si risollevasse, e di stabilizzare il mercato petrolifero mondiale.
Eppure, come fantasmi nell’oscurità, costantemente ricoperti da una patina di petrolio, questi uomini erano troppo esposti al rischio per pensare ad altro che al loro lavoro. Che richiedeva esperienza, improvvisazione, disciplina, solidarietà e resistenza fisica e mentale. Senza di loro, i costi umani e ambientali di questa calamità sarebbero stati molto più alti. All’inizio dell’aprile di quell’anno, raggiunsi il confine tra Arabia Saudita e Kuwait e, dopo aver aspettato impaziente il permesso di proseguire, noleggiai una 4×4 e mi inoltrai in Kuwait—alla volta delle dense nubi di fumo nero.
Pubblico questo libro 25 anni dopo la tragedia perché quando ho riguardato il portfolio mi sono reso conto che molte delle immagini non erano mai state pubblicate. Ma soprattutto perché mi è sembrato che avessero una valenza extratemporale: sono state scattate nel 1991, ma potrebbero appartenere a oggi o domani, se succedesse un altro disastro simile. Personalmente, però, è stato un viaggio nel passato. Ho rivissuto i momenti in cui le ho scattate e le cose che ho visto mi hanno scosso come mi avevano scosso un quarto di secolo prima. Non ho mai visto, né prima né dopo quel momento, un disastro innaturale così enorme.
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