Non so se Franco126 abbia ancora “solo guai dentro alle tasche dei suoi Levi’s,” ma quando l’ho incontrato in studio era vestito proprio come quando lo conobbi, ormai quattro anni fa: Levi’s, appunto, felpa nera con cappuccio e scarponi.
A quei tempi Polaroid, il disco di Franco126 e Carl Brave, non era ancora un disco, ma un progetto in divenire che nei mesi seguenti avrebbe assunto una concretezza via via maggiore. Adesso un po’ tutti sono concordi nel ritenere che sia stato importante nello sdoganare anche nel rap italiano un immaginario morbido e intimo, aprendo la strada a molti artisti che sono venuti dopo.
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Messa l’esperienza Polaroid in archivio, comunque, Franco126 ha ancora tante fotografie da aggiungere ai suoi album: il suo primo e finora unico disco da solista si chiama—quasi a marcare una distanza con il passato—Stanza Singola (2019). Questo disco segna un cambio di passo e intenti rispetto al passato: la cifra stilistica di Franco è rimasta immutata—la vena malinconica e agrodolce degli scenari che evoca—, ma il desiderio di Franco è quello di svincolarsi dai riferimenti troppo precisi alla contemporaneità per puntare all’universale.
Lo si legge anche nel testo e nella musica del suo ultimo singolo, “Nessun Perché”, che potrebbe essere stato scritto trent’anni fa o tra trent’anni, ma sempre e soltanto da lui: “Che rimarrebbe se il vento / Si portasse via il deserto con un soffio? / Forse spunterebbe un’isola nel mezzo dell’oceano / Forse pioverebbe sabbia in pieno centro.”
La nostra intervista parte proprio da questa universalità.
Noisey: Questa è la nostra terza intervista, non ci vediamo da una vita. Cosa ti ricordi del periodo della prima intervista?
Franco126: Eh… Non mi ricordo molto bene le cose di quel periodo (ride). Perché c’è questa cosa che ti capita tra le mani… non capisci la portata che c’ha veramente, quanto effettivamente la stai facendo bene. È stato un periodo molto frenetico, le cose abbiamo iniziato a realizzarle solo dopo.
Però è stato fico perché per la prima volta mi sentivo davvero che stavo facendo una cosa che spaccava, che stavo seguendo la mia strada. Prima facevo lavoretti e cose varie; con Polaroid invece ho iniziato a vedere uno spiraglio per poter fare quello che ho sempre voluto: il musicista di professione.
C’è stato un momento particolare, che ti ha fatto dire “ok, le cose stanno iniziando ad ingranare”?
Forse quando è andato bene il primo pezzo: ci sembrava di aver trovato la chiave. Carlo ci vide lungo: aveva capito che avevamo azzeccato un nuovo trend e dovevamo insistere su quella linea. Col senno di poi molte cose di quel disco le avrei riviste di più ci avrei lavorato ancora. Ma benissimo così, quelle cose sono figlie di quei momenti.
Aveva senso allora, no?, quella poetica della contemporaneità. Adesso però si è andata un po’ a saturare… In quel disco ci sono fin troppi riferimenti. Magari tra trent’anni lo senti e dici “ma che so’ le foto porno di Leotta?” o “che è Tiziano Ferro?”
Ecco, questa roba sto cercando di toglierla: in Stanza Singola c’è ancora qualche riferimento, quelle cose adesso le toglierei completamente per la visione che ho ora della musica. Per cercare di rimanere nel tempo, nell’ultimo periodo ho cercato di proporre una scrittura senza riferimenti al presente, quasi fuori dal tempo.
Hai ragione quando dici che quel minimalismo ha raggiunto il punto di saturazione. Polaroid è stato il canto del cigno di quella stagione, la fotografia precisa di un microcosmo, e quegli scatti rimarranno proprio perché sono miniature precise e perfette.
Eh, però se un domani tuo figlio si ascolta quel disco e non capisce niente?
Credi che tuo figlio non troverebbe niente nel Sorprendente album d’esordio dei Cani?
Sicuramente molto meno di quello che c’era. Quello ancora più di Polaroid è un disco che c’ha tanto a che fare con la contemporaneità.
Per me è possibile raccontare l’universale da storie piccole, anzi è ciò a cui uno dovrebbe ambire; a non convincermi sono i riferimenti troppo marcati e precisi al contesto storico. Tipo, che ne so, l’Enjoy.
Oppure pensa a quando I Cani parlano del fascismo, dei pariolini dei diciott’anni… mi sembra che ai pischelli adesso non gliene freghi niente della politica o comunque molto meno di quando eravamo pischelli noi. Il pariolino ormai è quasi più una roba di vestiti e basta… Ma è anche giusto fare musica per i pischelli, a un certo punto però bisogna evolversi.
Però noi non viviamo nel vuoto. Quotidianamente abbiamo a che fare con gli Huawei, con gli Enjoy… c’è forse più spazio per raccontare l’universale se scendi nei dettagli—penso a “Questo piccolo grande amore” di Baglioni.
Ma quel disco lì non c’ha riferimenti, no? La Porta Portese che canta Baglioni è molto simile a quella di oggi, quel pezzo non è invecchiato per niente. Lo ascolto e non ci sono cose che non capisco.
Ci saranno cose un po’ cambiate, sicuramente, ma non è come dire “prendo l’Enjoy,” che tra trent’anni magari manco ci sarà più. Diciamo che ciò che mi fa pensare che quel disco possa non resistere al peso del tempo è questo. Alcuni pezzi più di altri. Tipo “Tararì Tararà”, che è proprio un riferimento unico dall’inizio alla fine.
Fast forward: siamo nel 2021. Mia cugina mi ha raccontato che quando ha detto al suo tatuatore che ti conosce è partita una ola collettiva, con tanto di coro “Franchino! Franchino!” e promessa di tatuaggio gratis—a te e lei—se foste tornati insieme nei paraggi. Una volta a me faceva strano vedere le tue canzoni scritte sui muri, e adesso questo… Come te la vivi?
Mi piace vedere che sto facendo bene—e questa cosa della fama è sintomo del fatto che, appunto, sto facendo bene. Io poi non muovo il culo dai soliti posti e sto sempre con i miei amici in situazioni super tutelate, quindi non mi pesa.
Poi, “fama”… non ti credere che sia chissà quanta. C’è gente che non può nemmeno andare al supermercato, io alla fine posso fare quello che mi pare (ride).
Sei vestito esattamente come anni fa ai tempi del nostro primo incontro. È un discorso d’impressione ovviamente, quindi prendi con le pinze ciò che ti sto per dire, ovviamente, ma mi sembri sostanzialmente la stessa persona.
Eh, ci provo. Cerco di farmi sempre un bel mazzo. Per me l’approccio giusto è sempre quello: fare le cose fatte bene, impegnarsi tanto in quello che fai. Soprattutto perché niente è scontato… ogni volta che ti metti a scrivere dici “mo’ devo farne un’altra e dev’essere una bella canzone”.
Ogni volta è come se ripartissi da zero, è veramente difficile. Fortunatamente penso di avere abbastanza i piedi per terra e questo mi aiuta.
Poi a me non mi interessa la moda, la felpa è sempre quella nera.
Torniamo a parlare di canzoni. Col tempo le tue immagini sono diventate più rarefatte, la tua scrittura si è aperta. L’hai detto anche tu. Se prima possiamo ipotizzare che ad ispirarti fosse ciò che ti circondava, adesso invece cos’è?
Mi ispiro dal vissuto, dalle influenze che c’ho… Prima pensavo che la mia scrittura fosse più immaginario che vissuto, quindi la musica che ascoltavo, le cose che leggevo. Invece alla fine nei miei pezzi c’è anche molto della mia vita; è una cosa che avevo sottovalutato.
Per ispirarmi leggo un sacco, vedo molti film, ascolto tanta musica. Credo che uno abbia bisogno di tante influenze per non ripetersi.
A livello di scrittura, più vado avanti e più riesco a mettere a fuoco ciò che mi piace davvero; ho tolto i riferimenti al contemporaneo perché voglio scrivere cose che non abbiano una collocazione temporale precisa. Altrimenti perché lo fai, se non per ambire a rimanere?
È bello anche fare musica per la gente, per il periodo storico in cui vivi, certo; continuo a fare anche pezzi rap con i miei amici e che magari col tempo risulteranno più ostici all’ascolto. Ma mi piace che le canzoni di Franco126 abbiano un’impronta personale.
La tua impronta stilistica in effetti è sempre quella, immediatamente riconoscibile: malinconica, quasi depressiva. La ricetta è cambiata, ma gli ingredienti sono sempre quelli. Vedi “Blue Jeans” che hai fatto con Calcutta, o “Nessun Perché”.
Sicuramente c’è una forte cifra mia, che comunque è anche figlia di quest’epoca e penso sia innegabile. In questo periodo storico prevale questa roba qui in quasi tutti, soprattutto nei pischelli che scrivono le canzoni, la senti molto questa disillusione.
E poi sì, sicuramente so’ io. Io c’ho quella roba lì. Ovviamente poi il timbro mio si presta per farti sembrare quello che ti dico ancora più malinconico di quello che è, ma sicuramente dietro alle mie canzoni c’è tanto del mio modo di vedere il mondo, le cose.
Il tuo percorso però non è che sia stato esattamente canonico, no? Rispetto ad una persona comune hai successo, una carriera… Nonostante ciò senti ancora un peso, un’ansia da prestazione (passami il termine) generazionale?
È chiaro. Perché comunque devi fare bei dischi ogni volta, non è che solo perché ne hai azzeccati un paio [sei a posto per sempre]. I risultati vengono se uno si impegna nelle cose, non se le fa a cazzo di cane. E fare le cose al meglio delle proprie possibilità è sempre più difficile: più vai avanti più rischi di ripeterti.
E comunque sono stati anni di gavetta, mi sono fatto un mazzo così. Ho studiato, ho cercato di capire, fatto lavori che non mi piacevano… C’è stato un grande studio anche nel mio modo di fare le cose, non è che mi so’ svejato e ho fatto il cantante. Ora vedo pischelli che a diciott’anni sono fortissimi, io a quell’età ero un cane. Ho dovuto capire con gli anni come farla mia, sono stato anni e anni a cercare di capirlo.
Da fuori l’impressione è che ad un artista bastino due dischi per passare da venerato maestro ad essere considerato il solito stronzo.
Sì, ma perché De Gregori è ancora venerato maestro? Perché non ha fatto mai stronzate, o comunque se ha fatto dischi minori li ha fatti dopo i capolavori.
Pure Dalla: Dalla ha fatto quei tre macigni e stanno là, non li sposti. L’impronta che c’ha avuto, per tutta una serie di motivi, rimarrà per sempre.
Poi, certo: puoi fare due dischi e finire subito nel dimenticatoio. Per questo bisogna sempre rinnovarsi, studiare e cercare nuove soluzioni.
Ai tempi mi dicesti che la tua canzone preferita era “Gioco d’azzardo” di Paolo Conte. È ancora così?
Forse no, però quella l’ho veramente squagliata. Fammi pensare un attimo… guarda, te ne dico tre con cui sto in fissa.
“Bene” di De Gregori. “Cercami” di Renato Zero. E poi… “Mille giorni di te e di me” di Baglioni.
Quella canzone non riesco più ad ascoltarla. È un baule che non riesco più ad aprire.
A me “Bene” fa sempre piangere. È pazzesca. “E qualche volta aspettami sul ponte, i miei amici sono tutti là…”
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