“Mi capita spesso di sentire associati palato femminile e vino aromatico. Ricordo di aver chiesto a una prof. di chimica del gusto di Pollenzo se si fosse mai rilevata una differenza di palato per genere. La sua risposta fu no.”
Uno dei profili Instagram più divertenti scoperti nell’ultimo anno si chiama Awards For Good Boys. Attraverso le sue illustrazioni l’autrice Shelby Lorman, che ha appena pubblicato un libro per Penguin, consegna immaginari premi ai good boys che pensano di rispettare le donne e anzi di essere grandi alleati e sostenitori della causa femminista. I bravi ragazzi convinti di essere bravi ragazzi, insomma, che proprio non si accorgono di come, nelle loro azioni e nelle loro parole, sia annidato un sessismo subdolo e strisciante. Un maschilismo inconsapevole e ancora più pericoloso proprio perché inconsapevole.
Videos by VICE
Mi spiace aver visto così poche donne oggi su questo palco… dobbiamo ricordarci che dietro a un grande cuoco c’è sempre una donna.
Di recente mi è capitato di parlare con Diletta Sereni, autrice di Munchies, di quanto frequentemente ci capiti di riscontrare questo atteggiamento nel mondo enogastronomico. Tutto è cominciato dal suo racconto di un aneddoto capitatole qualche giorno prima. “Alla presentazione di una guida gastronomica ho sentito dire una cosa tipo: ‘Mi spiace aver visto così poche donne oggi su questo palco… dobbiamo ricordarci che dietro a un grande cuoco c’è sempre una donna. Non eravamo in una ‘periferia’ ingenua ma nell’epicentro dell’intellighenzia gastronomica milanese. E il pubblico ha applaudito”.
Sono sicura che la frase di cui sopra sembrerebbe, a buona parte delle persone che conosco, completamente innocua. Ma lo è? Fino a che punto perpetuare stereotipi vetusti, come la donna un passo dietro all’uomo, a sostenerlo e ad aiutarlo, è “innocuo”? Di frasi così ne sentiamo a ogni giorno a palate, al punto che le nostre orecchie si desensibilizzano. “Hanno tutte in comune la pretesa di dire una cosa carina, “Ehi ANIMALE DONNA, io ti comprendo, ti proteggo e ti valorizzo”, quando invece stanno facendo l’opposto: subordinare e stigmatizzare” riassume efficacemente Diletta.
Diversi mesi fa ho scritto un pezzo sui menu di cortesia, ovvero i menu senza prezzi, che la maggior parte delle volte nei ristoranti vengono dati di default alle donne. Quando dico che sono stata ricoperta di insulti non uso un’iperbole: commenti su Facebook, Stories di Instagram, messaggi privati. Hanno detto che era un articolo scandaloso, che ero ignorante come un sasso. E tutto questo solo per aver osato scrivere che forse, e dico forse, nel 2019 dare per scontato che sia l’uomo a pagare è un filino datato. La maggior parte di quelle che mi hanno insultato erano donne.
Ieri sera ho sentito un ragazzo dire, riferendosi a una nuova apertura milanese: “Il cibo non è male, ma è uno di quei locali leziosi che sembrano progettati da donne.”
Diletta lavora prevalentemente nel mondo del vino dove la stragrande maggioranza di sommelier, maître e giornalisti è uomo. La professionalità di una figura come la sua, alcune volte, viene messa in dubbio. “Un paio di volte mi hanno dato in faccia della prezzemolina. Riferendosi a una ragazza che come me ha sui trent’anni e per lavoro frequenta eventi e fiere di vino. In sintesi, viene data della prezzemolina a una donna che lavora nel settore, come se fosse lì a presenziare e non a lavorare, o a studiare”.
In campo enogastronomico si sprecano gli esempi dei gusti da donna, “come se fossimo un’entità collettiva con gusti prevedibili”. A una degustazione di un produttore ligure, l’ho ascoltato dire che alle donne piacciono i vini aromatici molto più che agli uomini. Sosteneva anche che l’affermarsi delle note più smaccatamente aromatiche nei vini (quelle più dozzinali, sottintendeva lui) ci sia stato quando le donne hanno iniziato a bere vino più regolarmente. In generale mi capita spesso di sentire associati palato femminile e vino aromatico. Ricordo di aver chiesto a una prof. di chimica del gusto di Pollenzo se si fosse mai rilevata una differenza di palato per genere. La sua risposta fu no.” Gusti che per associazione partono dai vini dolci e arrivano alle pareti pastello: “Ieri sera ho sentito un ragazzo dire, riferendosi a una nuova apertura milanese: ‘Il cibo non è male ma è uno di quei locali leziosi che sembrano progettati da Instagrammer donne’”.
“Una cucina per una donna è pesante. Poi ci sono quelle mascoline […] però una donna, una bella donna, che scende in cucina, noi la mettiamo sempre in pasticceria. È meno pesante, è più decorativa […] Le casseruole pesano.”
Già prevedo le critiche: ti sembra questo il vero problema? Il problema non è solo la convinzione che esista un supposto gusto femminile vs maschile. Il problema è quando le differenze di genere vengono usate per costruire una scala gerarchica in cui la donna non può salire fino in cima, quando vengono utilizzate per discriminare sul posto di lavoro, dare meno opportunità, ghettizzare. E farlo con un sorriso e una carezza. Nelle cucine gli chef sono in prevalenza uomini, al punto che quasi tutte le guide e le classifiche di settore si sono sentite in dovere di istituire un premio per la “migliore chef donna.”
Di recente lo chef Gianfranco Vissani, intervistato al Tg Zero di Radio Capital, si è lasciato andare a dichiarazioni agghiaccianti: “Una cucina per una donna è pesante. Poi ci sono quella mascoline […] però una donna, una bella donna, che scende in cucina, noi la mettiamo sempre in pasticceria. È meno pesante, è più decorativa […] Le casseruole pesano.” Non è roba da sesso debole, quindi, lo incalzano ironicamente Luca Edoardo Buffoni e Michela Murgia? Eh sì, risponde gravemente lui. EH SÌ. Sempre di recente, lo chef inglese Marco Pierre White ha addirittura ritirato fuori l’adagio della donna troppo emotiva che non riesce a reggere i ritmi della cucina.
Ne parlo con Sarah Cicolini di Santo Palato a Roma. “Sono una donna cuoca alta un metro e cinquantadue: la mia forza è sempre stata in dubbio. Ora che sono il ‘capo’ del mio stesso ristorante è più semplice, non ho problemi a chiedere aiuto e a dire ‘Alzami ‘sto sacco di farina da 25 kg,” ride Sara. Ma aggiunge che “I problemi veri non sono nelle brigate. La vera emarginazione è tra chi muove i fili della ristorazione. Avviare un ristorante con una chef donna è una rarità. Non so cosa succede nella loro testa: forse hanno paura di cosa può succedere in caso di gravidanza? Non lo so.”
“Lei è Giorgia, una giornalista molto giovane e molto dotata. Oh, ed è pure una bella figa”
Sono una giornalista enogastronomica donna. Sento di avere avuto le stesse possibilità che avrei avuto se fossi stato un uomo? Sento di possedere la stessa credibilità dei miei colleghi maschi? Sì. Forse. Come posso dirlo? Ma non credo che a un giornalista uomo sia capitato, come è successo a me, di venire presentato come “Lei è Giorgia, una giornalista molto giovane e molto dotata. Oh, ed è pure una bella figa” (un collega uomo – rivolto peraltro a una collega donna). O di ricevere, mentre era in ultima fila a una conferenza, indossando un vestito corto, una pacca sulla gamba nuda da parte di un famosissimo chef ottuagenario, che ha commentato soddisfatto “Belle cosce.” Lo stesso chef aveva definito le gambe di una collega – sempre in pubblico – delle “belle gambe da giumenta.” Ma come!, vi sento esclamare. Che problema c’è in un vecchietto che apprezza ancora il gentil sesso? Lasciatelo vivere! E non ti offenderai mica perché quell’altro ti ha chiamato bella figa? Ha dimostrato di apprezzare anche il tuo cervello!
Le parole sono casette piccole, che si maneggiano con noncuranza. Forse utilizzarle con parsimonia e sceglierle con attenzione non serve a risolvere immediatamente il problema della differenza di stipendi, ma a delineare una nuova immagine di uomo e donna, in cui lui può piangere liberamente e lei lamentarsi dei crampi mestruali a lavoro senza sentirsi dare della vittima, quello sì.
Roberta Abate, editor in Chief di Munchies, sull’essere giovane e occuparsi di editoria gastronomica aggiunge: “Ero a una cena in un ristorante giapponese, cucina che amo molto e di cui mi informo sempre abbastanza. Spiego gli ingredienti di un piatto a un vecchio giornalista, di uno di quei quotidiani cartacei che fanno titoloni discutibili, e lui mi ringrazia dicendo agli altri colleghi: ‘Vedi una bella ragazza che sa anche qualcosina di cibo’. Ovviamente era un commento fatto per svilire, ridimensionarmi col sorriso e mettere in luce il fatto che prima di essere brava, una giovane donna, deve essere piacevole.”
Quello delle cucine professionali è un mondo costruito sull’uomo e qundi su lavori di forza in cui gli uomini sono avvantaggiati, ma questo non vuol dire che le donne non abbiano lo stesso diritto di starci, dentro quelle cucine, svolgendo gli stessi compiti. E sicuramente esistono le preferenze per il lillà, invece che per il blu elettrico o il verde fluo, ma sono frutto di condizionamenti culturali, non di differenze genetiche. Il gender gap si combatte su diversi campi, alcuni macro, alcuni micro. Le parole sono cosette piccole, che si maneggiano con noncuranza. Forse utilizzarle con parsimonia e sceglierle con attenzione non serve a risolvere immediatamente il problema della differenza di stipendi, o del congedo parentale, ma a delineare una nuova immagine di uomo e donna, in cui lui può piangere liberamente e lei lamentarsi dei crampi mestruali senza sentirsi dare della vittima, quello sì.
Forse dovremmo tutti riflettere una, due, dieci volte in più prima di pronunciare certe frasi fatte, ribadendo luoghi comuni ormai sbiaditi e stropicciati. A cominciare da noi giornalisti: la prossima volta che stiamo per scrivere come il piatto di una chef donna sia “femminile”, delicato, colorato ed elegante, ecco, mettiamo giù la penna e andiamo a farci una passeggiata.
Segui Giorgia su Instagram