“E poi alla mia veneranda età mi annoiavo a cucinare l’orata e la ricciola…”
Sono le 10.30 di un luminoso venerdì mattina bolognese quando apro la porta del ristorante.
Ad accogliermi c’è Luca Giovanni Pappalardo, che fino all’anno scorso era a Milano da Capra e Cavoli, locale specializzato in cucina veg e noto per la sua apparizione in 4 Ristoranti di Alessandro Borghese. Da ottobre invece è lo chef di Trattoria Pane e Panelle, ristorante del centro di aperto dieci anni fa. L’arrivo dello chef catanese ha rivoluzionato tutto “Se avessi fatto la solita cucina di pesce non sarebbe venuto nessuno” alza le spalle mentre ci dirigiamo verso la cucina “E poi alla mia veneranda età (una quarantina d’anni, NdR) mi annoiavo a cucinare l’orata e la ricciola…”. Un nuovo corso con poche parole d’ordine, ma molto chiare: in menu pesci tradizionalmente considerati poveri. Cucina semplice con zero gimmicks, come si dice in inglese, niente fronzoli e fighetterie. Possibilità di ordinare nicareddi – piccoli assaggi in dialetto siciliano – per avvicinarsi a tutte le tasche. Ma è soprattutto per un motivo che siamo qui oggi: le frattaglie. Di pesce.
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Frattaglie di pesce. Qualcosa di cui tutti, in linea teorica, sappiamo l’esistenza – ci deve pur essere qualcosa sotto tutte quelle lische, no? – ma che, agli atti pratici, finiamo per non provare mai. E allora eccomi qui, pronta a scoprire di cosa parliamo quando parliamo di frattaglie di pesce, e soprattutto ad assaggiare qualsiasi cosa Pappalardo mi voglia far assaggiare, ovvero molte cose.
Davanti a me si squadernano tante ciotole contenenti ognuna una frattaglia diversa. Sacche bianchicce o aranciate, pezzi di carne tremolanti, strisce grigioline, vescichette rossastre. Mi piacerebbe trovare parole più entusiastiche per descriverle, ma non è facile.
Non lo salveremmo mai questo mondo. Quello che facciamo lo facciamo per rispettare la bestia: il suo sacrificio va onorato
Come se le procura un ristorante? “Alcune parti andrebbero nella monnezza, i pescatori le butterebbero via, e le recupero io. Altre vanno specificamente richieste” mi spiega lo chef “Ma non passo tramite fornitori, che per me sono la rovina della ristorazione. Ti fanno comprare quello che vogliono loro ai prezzi che vogliono loro. Io contatto direttamente le barche tramite broker: mi arrivano foto e prezzi e contrattiamo”.
Brodo di testa di Centrolofo
“In cucina ho pozzetti pieni di teste. Mi rendo conto che possa sembrare un po’ strano da sentire…”
Cominciamo dal centrolofo, uno di quei ‘pesci diversi’ di cui Pappalardo è appassionato in maniera quasi carnale. “Guarda che cranio eccezionale, sembra un cavallo” mormora assorto mentre iniziamo a preparare il brodo di testa. Una preparazione più basica di quanto pensassi: testa e lische vengono condite con spezie varie, gambi del prezzemolo – “Contengono più oli essenziali delle foglie ” – e di pomodoro – “Sono quelli che danno davvero il sapore ” – poi infilati in forno a ‘tostare’. “In cucina ho pozzetti pieni di teste. Mi rendo conto che possa sembrare un po’ strano da sentire…”. Solo un po’, chef, solo un po’.
Una volta tostate le teste vengono frullate e il brodo passato al setaccio, fino a diventare quasi una crema. “Guarda che roba!” esclama lo chef. Guardo, guardo. E immagino già il sapore.
E di questo brodo cosa ne facciamo? È presto detto. La prima cosa è cuocerci un classicissimo risotto. Impiattiamo e ci aggiungiamo i gamberetti Schia, minuscoli e pregiatissimi – sono quelli che rimangono impigliati nel resto della rete. Quando arrivo io sono già fritti, ma Pappalardo ci tiene a specificare che: “Quando ce li portano in cucina saltellano ancora dappertutto. Li friggiamo da vivi perché così mantengono colore e consistenza. Come cuoco devi avere coscienza che stai lavorando con qualcosa che prima era viva. Non c’è mai godimento nel farlo, ma consapevolezza e rispetto sì”.
Per lo chef utilizzare le frattaglie non è una questione etica, anzi, tanto “Non lo salveremmo mai questo mondo. Quello che facciamo lo facciamo per rispettare la bestia: il suo sacrificio va onorato. Gli ingredienti hanno un valore. Stesso discorso per la verdura: la servo con parti immangiabili”.
Tocchi finali: bottarga fresca, di centrolofo e di muggine, e testa di gambero rosso spremuta sul risotto.
Guancette e lingua di Baccalà
Della cucina fighetta non me ne frega più niente: la nuova strada sono le trattorie
Passiamo a Sua Maestà il Baccalà. Una delle prime idee che Pappalardo ha avuto, una volta arrivato a Bologna, era reinterpretare uno dei piatti simbolo della città, il bollito, creando un bollito di pesce.
Si prendono quindi le guancette di baccalà e si cuociono sottovuoto in olio cottura fino a ottenere una carne gelatinosa e fibrosa la cui consistenza, a occhi chiusi, non è distinguibile da quella di una guancetta di manzo. Anche le guancette sono state cotte prima del mio arrivo: evidentemente la cucina non mi vuole in mezzo ai piedi per così tante ore. Mi fanno però assistere mentre le facciamo sobbollire nel brodo e poi le impiattiamo con un topinambur arrostito al forno – ovviamente con la buccia, perché “La potenza sta tutta lì, nella buccia” – dopo una marinatura in zucchero e sale.
Tocco finale? Un bel pezzettone di prezzemolo. “Ho deciso che ritorno a mettere il prezzemolo nei piatti e vaffanculo. Vedi quanto è espressivo un piatto così? È drammatico. Della cucina fighetta non me ne frega più niente: la nuova strada sono le trattorie. Qui l’impiattamento è rigorosamente senza vezzi, se vedo i miei ragazzi decorare i piatti gli taglio le mani. È il concetto a dover essere complicato, non i piatti”.
Altra storica componente del bollito? La lingua. E allora prendiamo la lingua di baccalà – “Sai perché ha quella lingua? Perché quando viene pescato si strozza e diventa ipertrofica ” mi spiega Pappalardo – e la saltiamo in padella con sale di Cervia e olio buono. Servita così, molto semplicemente, con una maionese vegana (per non aggiungere altre proteine animali) e quella che in questa cucina chiamano la ‘Arancia da sballo’.
Ehi, io sono abituata alle mostarde piccanti, cosa può farmi un’arancia sepanata? Ne metto in bocca una fetta di medie dimensioni. L’intera brigata mi fissa, evidentemente divertita. Tempo cinque secondi e ho le lacrime agli occhi mentre la bocca mi va a fuoco. Cerco di mantenere un’espressione impassibile e rantolo “Non avvertite i clienti prima che la mangino, vero?”. “Scherzi? Questa roba è meglio della cocaina”. L’abbinamento con la lingua, comunque, funziona alla perfezione.
Fegato di rana pescatrice
“Il fegato di rana pescatrice è di una bellezza impressionante” commenta ammirato Pappalardo mentre passiamo a contemplare i pezzettoni di fegato, di un fascinoso colore arancione venato di rosso. “Al fegato facciamo fare 12 ore in zucchero e sale e 12 ore in sottovuoto. Il risultato è una mousse, con alto contenuto di vitamine che come sapore assomiglia a un formaggio di fossa”. La consistenza, invece, è quella di un patè di fegato, appunto. Che provvedo lestamente a spalmare sul pane – mai rifiutare una scarpetta quando è ammessa.
Gonadi di Seppia
Sono tutti tagli poverissimi e costano davvero poco. Ci permettono di tenere basso il food cost al ristorante
Prossimo assaggio, le gonadi di seppia. Soffritte molto semplicemente in padella come la lingua, entrano a far parte di un piatto a tutte uova: noodles, uovo marinato, tartare di fico. All’aspetto ricorda in effetti tante piccole uova, un piatto seminale in cui la sodezza quasi elastica della gonade rimane il filo rosso, la consistenza di sottofondo che viene prolungata dalla fibrosità del fico e dalla gelatinosità del tuorlo. Il risultato? Una bomba.
Ma se uno volesse cucinarle a casa, queste cose, può riuscirci? “Purtroppo non credo si reperiscano facilmente” risponde lo chef “Noi abbiamo rapporti diretti con i pescherecci o possiamo rivolgerci a fornitori particolari. Peccato, perché sono tutti tagli poverissimi e costano davvero poco. Ci permettono di tenere basso il food cost al ristorante”.
Trippa di Baccalà
Non è detto che tua madre sapesse cucinare. Mia nonna nel 1984 ha vinto una fornitura di carne Simmenthal per un anno. Io sono cresciuto a Simmenthal, capisci?
Ed ecco il momento che stavo aspettando dall’inizio: la trippa di baccalà. “Sentile, non puzzano queste robe” commenta lo chef allungandomene sotto il naso una manata abbondante, tagliata a filetti, che poi possiamo a saltare in pomodoro, aglio, cipolla, prezzemolo. Guai a dirgli ‘piatto casalingo’.
“Solitamente i clienti mi fanno i complimenti cominciando con ‘Mia mia madre…’. La cultura
del “mia mamma” ha rovinato la cucina italiana. Non è detto che tua madre sapesse cucinare. Mia nonna nel 1984 ha vinto una fornitura di carne Simmenthal per un anno grazie a un concorso alla radio. Io sono cresciuto a Simmenthal, capisci? Non è una cucina casalinga, i miei nonni non avevano tecnica, improvvisavano”.
Pappalardo si fa una missione di alfabetizzare il cliente: “Vorrei che ci fossero lezioni di educazione al gusto al posto dell’ora di religione. Imparare a mangiare un impegno sociale e civile importantissimo”.
Affondiamo il cucchiaio nella trippa, gloriosamente cosparsa di pecorino. Morbida, sapida, golosa. Come prima lezione non c’è male.