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In questa tripperia di provincia ho scoperto la storia delle zendraglie napoletane

Zendraglie-Napoletane

Lampredotto, stigghiole, morzeddrhu, turcineddi, pani câ meusa, finanziera, busecca, pajata, ‘o pere e ‘o musso. La tradizione di mangiare frattaglie (dal participio passato latino “fractus” tradotto con spezzato, separato) in Italia è ben radicata da nord a sud e ogni termine ha la sua origine da ricercare nei tempi passati, quando il paese era in miseria e ci si doveva accontentare degli scarti per sfamarsi.

In particolare in Campania, dove la cucina di recupero è parte integrante del legendarium a tavola, esiste una radicatissima tradizione nel trattamento e nel consumo delle frattaglie, più conosciute come “zendraglie” (da non confondere con le Zandraglie di Boscoreale, dolcetti molto simili alle chiacchiere).

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Ma perché si chiamano così?

Checché se ne possa pensare, i piatti a base di quinto quarto non sono prerogativa esclusiva napoletana, anzi: soprattutto il ‘o pere e ‘o musso—il piede del maiale e il muso del vitello, pronunciato più sbrigativamente peromuss—è molto più comune nei paesi vesuviani. Ad esempio, i dintorni di Torre Annunziata, Pompei, e la zona a nord di Napoli sono parecchio famosi per gli estimatori del genere. Sappiamo però approssimativamente che la storia del termine “zendraglie” nasce nel 1600 proprio a Napoli. Più precisamente, il quartiere da sempre designato alla vendita delle zendraglie è la Pignasecca, dove la famiglia Fiorenzano vende trippa dalla notte dei tempi.

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Tutte le foto di Francesco Sammarco

Ci sarebbe piaciuto impostare questo pezzo parlando proprio con loro, ma i titolari delle trattorie non ci conoscono, non hanno Instagram, non sanno che sia Munchies, non gli interessa fare interviste o foto e hanno un sacco di cose da fare.

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Apprezzando la scelta, ci rivolgiamo quindi alla famiglia che rifornisce di carne alcuni dei Fiorenzano, i fratelli Ganzerli di Casavatore, cittadina a nord di Napoli. Ora, per chi non lo sapesse, Casavatore è più che altro famosa per essere comparsa in una delle prima puntate di Gomorra, in cui un pingue Genny Savastano scrive con una bomboletta spray su un muro: “Io di Casavatore me ne sbatto le palle”.

Benissimo, a noi invece interessa parecchio quello che ci può raccontare, per cui saltiamo in macchina e andiamo da Gasparino 1948, la storica salumeria e tripperia di Gino, Enzo e Francesco Ganzerli.

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Zuppa Forte o Soffritto

Ci accoglie un Enzo sorridente e ben disposto a fare due chiacchiere con noi. Dopo i primi convenevoli ci racconta la storia della sua famiglia e della nascita del locale: negli anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, quello che adesso è un ampio spazio colmo di ogni ben di Dio si riduceva a un piccolo vascio, una stanzetta a piano terra, in cui Elena, la nonna di Enzo, viveva insieme ai suoi tredici figli.

Vedova e alla disperata ricerca di qualcosa da mettere a tavola, si vede recapitare dalla fortuna la soluzione: Casavatore è sempre stata una zona piena di mattatoi, per cui un giorno, uno dei camion che trasportava gli animali al macello perde un maiale per strada, atterrando proprio ai piedi del vascio di Elena. La donna lo raccoglie velocemente e, oltre a sfamare la famiglia, decide di mettere su un banchetto per la vendita delle frattaglie avanzate dal maiale. L’intuizione incontra un certo successo, cosicché uno dei figli di Elena, il papà di Enzo, per l’appunto Gasparino, decide di proseguire e di avviare un’attività con tutti i crismi.

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Giovanni Ganzerli con un cliente

Oggi il negozio è praticamente una gioielleria, solo che invece di anelli e braccialetti, nelle vetrine troviamo il meglio del quinto quarto: ‘o pere e ‘o musso, trippa cucinata in mille modi, zuppa forte, ammugliatielli (variante degli gnummareddi/turcineddi pugliesi) zuppa ‘e carnacotta, muso di maiale piccante, culaccio (la culatta, detto anche collarino), cicoli e chi più ne ha più ne metta.

Decido di chiedere proprio a loro l’origine della “zendraglie” e di come si siano poi diffuse a Napoli e dintorni. La versione che troviamo solitamente online è questa: a partire dal 1600 a Napoli, dalle cucine reali e nobili venivano letteralmente gettati alla plebe gli scarti degli animali macellati e pare che, nel “generoso” gesto di lanciarle, i cuochi dicessero: “Voilà, les entrailles!”, tradotto come “Ecco a voi, le interiora!”. Da qui “les entrailles” venne napoletanizzato con “zendraglie”, andando poi ad indicare anche le donne del popolino che, per accaparrarsi la carne, litigavano tra loro, come si legge in Un paradiso abitato da diavoli di Benedetto Croce (Adelphi, 2006).

Ora, a me questa spiegazione striminzita non ha mai soddisfatto più di tanto, per cui, grazie a Enzo che sapeva il fatto suo e a delle ricerche più approfondite, ho scoperto altri dettagli molto interessanti: le interiora e le ossa non venivano solo distribuite dalle cucine reali, ma anche e soprattutto dai macelli veri e propri e da un luogo ben preciso di Napoli, un ponte posto alla foce del fiume Sebeto, un corso d’acqua ormai scomparso ubicato più o meno a est del moderno Centro Direzionale (Leggende napoletane, Matilde Serao, Colonnese Editore, 2022).

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Muso piccante

Il ponte, detto Licciardo o Guicciardo, non si sa con precisione, teatro di questi litigi chiassosi delle donne del popolo, darà voce a un proverbio che recita: “Va ‘ffa l’osse ‘o ponte”, letteralmente “Vai a raccogliere le ossa al ponte” a testimonianza di quello che succedeva a quel tempo, e usato ai giorni d’oggi come invito a sloggiare e a dedicarsi ad altre attività più “popolari” invece che importunare l’interessato.

Successivamente, circa nel 1750, nel periodo della conquista borbonica delle Due Sicilie, con il termine “zendraglie” si iniziarono a indicare anche le donne (sempre loro) che si dedicavano a ripulire i campi di battaglia e i luoghi delle esecuzioni capitali dai resti umani. Insomma, che raccattassero ossa e interiora animali o umane, il risultato non cambiava, e tutt’oggi se qualcuno vi appella come “zandraglia” non vi sta facendo un complimento.

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Vaschetta di trippa, piede di maiale, olive e lupini

Enzo, tra una chiacchiera e l’altra, queste zendraglie ce le fa pure assaggiare: dalla postazione del pere e ‘o musso, saldamente capitanata da Mastro Gianni Ganzerli, che incontro purtroppo poco prima della sua scomparsa. Mi comunicheranno la sua morte qualche settimana prima dell’uscita del pezzo.

Quando entro Gianni mi offre subito una vaschetta di trippa, piede di maiale, olive e lupini, classicamente conditi con abbondante sale e succo di limone. In più, piatto di punta della tripperia, ci regala una porzione di zuppa forte, altrimenti detta soffritto o “zuffritto”, una sorta di sugo dal colore acceso che al suo interno raccoglie il meglio delle interiora: trachea, polmone, fegato, cuore e milza, conditi con passata di pomodoro ed estratto di peperone (Come si mangia a Napoli, Raffaele Bracale, Cultura Nova Edizioni, 2019).

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Una roba per stomaci forti, ma che i fratelli Ganzerli espongono e vendono orgogliosamente e che tanto successo ha tra i clienti. Talmente tanto successo che Gasparino 1948 spedisce trippa e zendraglie ormai in tutta Italia, accontentando gli espatriati fuorisede che non hanno modo di godere di queste delizie se non nei momenti di vacanza o di festa di ritorno a casa.

Un’altra intuizione che pare prerogativa dello spirito imprenditoriale della famiglia.

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Quando chiedo a Enzo come mai oggi le frattaglie abbiano così tanto successo anche tra i giovani, Enzo cita inevitabilmente i social come TikTok e Instagram: se nei tempi passati il loro consumo era appannaggio delle persone più anziane, adesso fa figo mangiare la trippa o il pere e ‘o musso, elevato dalla sua condizione popolare per diventare piatto che fa tendenza, inserito nei menù di ristoranti e trattorie anche in versione gourmet.

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L’autrice che mangia.

Difatti, durante la nostra permanenza nel locale, vediamo sfilare ogni tipo di cliente, dai nipoti alle nonne. Nonne che, senza imbarazzo, si mettono pure in posa, origliando i nostri discorsi e posando come dive con un pezzo di trippa tra i denti.

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