“Qualcuno dice dovrei stare a scuola, oppure diventare una climatologa per ‘risolvere la crisi climatica’. Ma la ‘crisi’ è già stata risolta. Abbiamo già chiari tutti i fatti e le possibili soluzioni,” ha detto lo scorso dicembre la sedicenne svedese Greta Thunberg rivolgendosi al segretario generale delle Nazioni Unite.
“E perché dovrei studiare per un futuro,” si è poi chiesta,” che potrebbe non esistere, visto che nessuno sta facendo nulla per salvare quel futuro?” Dall’agosto del 2018, infatti, Greta manifesta ogni venerdì davanti alla sede del parlamento svedese ed è ormai diventata un punto di riferimento nella lotta al cambiamento climatico; al punto tale da essere ospitata in Polonia alla conferenza sul clima delle Nazioni Unite, Cop24, e anche a Davos.
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Nonostante ci siano sempre più evidenze scientifiche sull’urgenza del problema, ai governi—capeggiati da Trump, il più influente negazionista climatico al mondo—non sembra interessare un granchè. E se l’obiettivo degli accordi di Parigi prevede di contenere l’aumento delle temperature a due grandi, un aumento di poco inferiore (un grado e mezzo) sarebbe per l’IPCC già di per sé catastrofico.
È anche per questo che il messaggio di Greta si è diffuso rapidamente in tutto il mondo, e molti giovani hanno deciso di seguire il suo esempio dando vita al movimento #FridaysForFuture o #ClimateStrike—che si riunisce ogni venerdì, appunto, per sensibilizzare sulla questione.
Le mobilitazioni sono organizzate in modo autonomo dai partecipanti. Non viene seguita una logica verticistica, e chiunque voglia partecipare può semplicemente organizzarsi con qualche amico o presidiare un luogo simbolico della città in cui vive. Di manifestazione in manifestazione l’idea è quella di arrivare preparati al 15 marzo, il giorno in cui è stato proclamato lo sciopero mondiale per il clima.
I primi a partecipare alle proteste sono stati gli studenti australiani, che lo scorso 30 novembre sono scesi in piazza a migliaia per protestare contro le politiche inadeguate del governo sul clima. In seguito, ad accogliere l’invito di Thunberg sono stati gli studenti svizzeri, che il 14 dicembre sono scesi in piazza in 500. Dopo una settimana sono diventati 4mila, mentre a gennaio avevano già superato i 20mila partecipanti.
Un altro paese che ha risposto prontamente all’appello di Greta è stata la Germania, dove l’1 febbraio 30mila persone hanno protestato in 50 città diverse per chiedere al governo di ridurre la dipendenza dal carbone. Il 31 gennaio, invece, per la quarta settimana di fila migliaia di studenti belgi hanno marinato la scuola per partecipare a delle proteste contro il cambiamento climatico. Più di 30.000 studenti hanno marciato per le vie di alcune delle città più popolose del Belgio, come Liegi e Bruxelles.
A supporto dei ragazzi che hanno deciso di scendere per le strade, 3.450 scienziati belgi hanno firmato una lettera aperta di sostegno. In seguito alle manifestazioni, il ministro dell’ambiente belga Joke Schauvliege è stato costretto a dimettersi dopo aver falsamente affermato che i servizi di intelligence del paese avrebbero dimostrato che i ragazzi che saltano la scuola per dimostrare sono eterodiretti da fantomatici “poteri ostili” al governo.
Sono molti gli altri paesi europei che hanno aderito al movimento—tra tutti Svezia, Danimarca, Irlanda, Scozia, Finlandia, Gran Bretagna, Austria, Canada e Russia. Sull’account Instagram di Greta Thunberg vengono puntualmente segnalate le città che di volta in volta aderiscono al movimento.
E in tutto ciò, come siamo messi in Italia? Da noi il coinvolgimento è stato tardivo, ma già da qualche settimana decine di ragazzi si danno appuntamento nelle più importanti piazze italiane armati di cartelloni e megafoni. Le città coinvolte ad oggi non si contano su due mani: Roma, Milano, Torino, Modena, Brescia, Pisa, Genova, Salsomaggiore Terme, Parma, Udine, Taranto, Venezia, Bolzano, e altre ancora.
Nel nostro paese, però, non si sono viste veri e propri cortei come in Belgio o Germania. Si tratta perlopiù di presidi, appoggiati a livello politico dai Verdi e sostenuti da personalità come il divulgatore Luca Mercalli. Per capire com’è arrivato in Italia e come funziona il movimento, ho dunque parlato con un po’ di attivisti e partecipanti.
La prima persona ad essere scesa in piazza a Milano il 14 dicembre—da sola—è stata l’americana Sarah Marder. Da allora, ogni venerdì si ritrova assieme agli studenti in Piazza della Scala. “Non dico che la gente abbia seguito il mio esempio, ma probabilmente sono stata la prima a scendere in piazza a Milano,” mi racconta Sarah, che vive in Italia da circa trent’anni.
Nel giro di poco tempo il movimento—a suo dire—è “cresciuto a dismisura” in quello che definisce un “delirio positivo.” Sono così nate la pagina Facebook italiana dei #FridaysForFuture e un profilo Instagram. A cascata, poi, sono state aperte le varie pagine territoriali. “Il bello,” continua Marder, “è che lavoriamo proprio come una grande rete: dai più giovani agli adulti, dal nord al sud Italia.”
I veri protagonisti del movimento, per l’appunto, sono i giovani studenti che ogni venerdì partecipano alle proteste. La prima città italiana ad aderire al movimento è stata Pisa, dove il 30 novembre un piccolo gruppo di persone è sceso in piazza a manifestare.
“Da quando è uscito il famoso rapporto IPCC che spiega che ci sono rimasti pochi anni per cambiare le cose la mia preoccupazione per l’ambiente è aumentata”, mi racconta Bruno, ventenne di Pisa. Vedendo le azioni di Thunberg e degli altri ragazzi che partecipavano agli scioperi, lo studente ha creato la pagina facebook di #Fridaysforfuture di Pisa. “Dopo una pausa di un mese, siamo ripartiti con 7 persone il primo venerdì di gennaio, poi ogni volta siamo cresciuti di numero,” continua. “L’ultima volta eravamo una trentina. Siamo in continua crescita anche grazie a tutta l’attenzione che ci sta riservando la stampa.”
Le motivazioni che spingono i giovani a manifestare sono diverse. Marianna, 17enne di Pavia, mi dice che “siamo destinati all’estinzione: se non protesto ora, quando dovrei protestare?” Secondo Ivan, che ha vent’anni e vive a Milano, “tutti abbiano il diritto di godere di questo mondo come ho avuto la possibilità di godermelo io e le generazioni precedenti.”
Lo stesso mi spiega che l’organizzazione è coordinata tra le varie città italiane attraverso gruppi Facebook e WhatsApp. “Ogni “cellula” territoriale si sviluppa a modo suo, seguendo quelle che sono le inclinazioni dei componenti del gruppo”, dice. “Personalmente credo sia positivo perché a livello nazionale e internazionale stiamo raccogliendo un mosaico di esperienze.”
Ivan mi ha poi raccontato che a Milano e Torino il movimento cresce di settimana in settimana, ma non è minimamente comparabile con i numeri di altri paesi europei. Viene dunque da chiedersi il perché: forse, sotto sotto, a nessuno in Italia importa veramente del clima?
Per Francesca, attivista diciottenne di Roma, “le persone a cui interessa il cambiamento climatico ci sono, anche se non sono tante. Però, non c’è l’interesse delle grandi istituzioni a sensibilizzare, a partire dalle scuole che dovrebbero educare gli studenti fin da piccoli sulle grandi tematiche ambientali.”
A questo si aggiunge anche la scarsa attenzione mediatica dedicata all’ambiente. Secondo una ricerca condotta dal Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad), i media tendono a parlare del cambiamento climatico solo in concomitanza di eventi internazionali come la Cop 21.
Col passare del tempo, si smette di affrontare l’argomento; e si rinuncia anche a spiegare i collegamenti tra il cambiamento climatico e conflitti, migrazioni e insicurezza. Il tema rimane dunque isolato, e questo non aiuta i cittadini a comprendere il suo impatto nella vita quotidiana. In Italia, se possibile, va ancora peggio. Basta pensare al fatto che, tra tutti i quotidiani, solo La Stampa aveva messo in prima pagina l’ultimo rapporto dell’IPPC.
Tutto ciò, evidentemente, è il riflesso del fatto che da noi la coscienza ambientale non è viva come nel resto d’Europa. Tuttavia, grazie al movimento #FridaysForFuture, i giovani italiani che ogni venerdì scendono nelle piazze hanno la possibilità di fare rete a livello europeo e globale—anche se, per ora, a protestare sono ancora troppo pochi.
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