Salute

A trent’anni mi sono ritrovata a fare i conti con l’Alzheimer di mia madre

An illustration of a woman looking into a mirror and seeing an unrecognisable figure.

Tutto è precipitato circa un anno e mezzo fa, quando mia madre ha iniziato a parlare con la televisione: raccontava a Bianca Berlinguer, la sua conduttrice preferita, che anche sua figlia era una “bravissima giornalista.” 

All’inizio non riuscivo a capire perché mia madre si comportasse in modo così inspiegabile. Poi, una veloce ricerca ha confermato i miei sentori: si trattava di un sintomo della fase “lieve” dell’Alzheimer. Dopo un periodo di assestamento, la malattia stava iniziando a intaccare la sua percezione della realtà. 

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La diagnosi ufficiale era arrivata qualche anno prima, nel 2016, quando mia madre aveva 72 anni. Ma fino a quel momento avevo sperato ingenuamente che potesse rimanere soltanto un documento in pdf salvato nel mio computer. Volevo evitare di pensare che ci sarebbero stati tempi più duri. 

Il morbo di Alzheimer—così chiamato dal nome dello psichiatra che per primo l’ha descritto nel 1906—è una malattia neurodegenerativa che riguarda tra il 60 e il 70 percento dei pazienti affetti da demenza.

L’Associazione Americana degli Psicologi (Apa) ha fornito nel 1987 una chiara definizione del termine: “La demenza, o decadimento cognitivo cronico-progressivo, è una malattia del cervello che comporta la compromissione delle funzioni cognitive tale da pregiudicare la possibilità di una vita in autonomia. Ai sintomi cognitivi si associano quasi sempre alterazioni della personalità e del comportamento che variano come entità da individuo a individuo.” 

In Italia, un rapporto Istat del 2019 stima che le demenze senili e l’Alzheimer colpiscono circa 600mila persone tra gli over 65 che vivono in famiglia, ma secondo un recente rapporto di Deloitte i malati sarebbero più di un milione, con un’incidenza maggiore sulle donne.

Nell’Unione Europea i malati sono quasi 8 milioni, mentre nel mondo sono 50 milioni con la possibilità che sia un dato al ribasso. Le proiezioni per il futuro sono ancora più preoccupanti, anche a causa dell’invecchiamento demografico: si parla di 82 milioni di malati nel 2030 e 132 nel 2050. Cifre del genere hanno spinto l’Organizzazione Mondiale della Sanità a dichiarare l’Alzheimer una “priorità per la salute pubblica.” 

Quando penso a cosa sta succedendo a mia madre, alle sue connessioni neuronali, penso a un ospite cattivo che ne rallenta il funzionamento.

Come mi spiega la dottoressa Ilaria Maccalli, psicoterapeuta e responsabile scientifica dell’Associazione Malattia di Alzheimer-Milano, una rete di solidarietà che aiuta le famiglie e le persone malate durante il percorso di cura, “non si conoscono precisamente le cause dell’Alzheimer, né esiste una cura che ne blocchi il decorso—ma solo farmaci che possono alleviarla o rallentarla. Alcune fasi della malattia possono inoltre sovrapporsi, e ogni malato ha un’esperienza unica della malattia.”

Oggi, a 77 anni, mia madre si trova nella fase avanzata, che può provocare episodi psicotici e un peggioramento notevole della qualità della vita a causa di sintomi assimilabili alla depressione maggiore o alla schizofrenia. Non parla più con i giornalisti televisivi; a loro si sono sostituiti fantasmi e ombre, occhi malevoli, donne pronte a farle del male e riflessi nello specchio.

Da qualche mese, sono proprio gli specchi il suo peggior nemico: quando si guarda, al suo posto c’è “quell’altra”—quella che le vuole portare via tutto. “Si chiama dispercezione,” mi dice la dottoressa Maccalli, “molti malati di Alzheimer pensano di essere più giovani della loro età e non si riconoscono allo specchio.”

Quando penso a cosa sta succedendo a mia madre, alle sue connessioni neuronali, penso a un ospite cattivo che ne rallenta il funzionamento. Penso anche alla sua personalità, a come fatica a ritrovare la strada e si aggroviglia nel tentativo di farla propria, confondendo il passato con il presente e incontrando personaggi paurosi che non ci è dato conoscere. La malattia infatti colpisce la memoria, prosegue Maccalli, “quella parte dove abbiamo un senso di noi e intacca l’identità. Tantissime volte ci siamo sentiti dire dai familiari ‘non è più lui, non più lei’. E questo dà il senso della portata del dolore.” 

Con il passare degli anni, da parte mia, la sorpresa ha lasciato spazio allo scoramento e all’improvvisa sensazione di sprofondare insieme a lei—una sensazione con cui i caregiver, i familiari che si prendono cura, prima o poi devono fare i conti. 

In Italia, circa tre milioni di persone sono direttamente o indirettamente coinvolte nell’assistenza a persone malate di Alzheimer. Nel nostro caso è stato mio padre (in pensione) a prendere su di sé tutto il peso della cura, dalla cucina alle pulizie in casa. Insieme ai miei due fratelli e alle mie due sorelle, tutti più grandi di me, abbiamo cercato di darci un ruolo complementare: io vivo e lavoro a Milano, ma torno spesso a casa perché sono ormai cosciente che il tempo passato in compagnia di mia madre potrebbe essere sempre più complesso. Con il progredire della malattia ha dimenticato come si cucina, anche se al telefono—nei momenti di lucidità—mi racconta ancora cosa preparerà quando tornerò a trovarla a Lecce. 

Prima di arrivare a questo punto, il decorso non è stato breve. Quando ero al liceo ricordo che mia madre soffriva di un forte mal di testa, un fastidio costante lamentato appena fuori dai denti e curato con dosi costanti di ketoprofene. Nel 2014, quando avevo 24 anni, ha iniziato un ciclo di visite sempre più preoccupanti. Su uno dei primi referti del dipartimento di neurologia dell’Asl si legge: “Continua a lamentare cefalea.” 

Nel 2016 il mal di testa è diventato “decadimento cerebrale”; un anno dopo, il referto ha descritto un “decadimento cognitivo e deficit della memoria non verbale.” Lei però era presente; era ancora lei, mi dicevo, a parte qualche piccola dimenticanza come la moka lasciata troppo tempo sul fornello. “Ha solo bisogno di riposare di più,” ci siamo convinti in famiglia. I test ci hanno puntualmente smentito.

Uno di questi è il “Mini Mental Status Exam” (Mmse), somministrato ai pazienti affetti da demenza. Si tratta di un questionario, composto da domande molto semplici e da piccoli compiti grafici, che consente di sondare diversi aspetti della funzione cerebrale: orientamento, memoria, attenzione, linguaggio, capacità di calcolo, richiamare determinate acquisizioni.

Ero nella stanza del primario di neurologia quando, a fine novembre 2019, mia mamma non è riuscita a riprodurre un trapezio: due linee parallele senza soluzione di continuità, perse sul foglio. L’avevo guardata e mi sembrava soddisfatta: “Ha visto, dopotutto sono stata abbastanza brava, non sono malata come crede,” sembrava dire il suo sguardo fiero. 

Il punteggio del Mmse dava 13,2 su 30 (sotto i 24 punti si inizia a indicare un deterioramento cognitivo). L’ultima volta che mia madre ha accettato, tra mille rifiuti, di rifare il test è stato nel luglio 2020: questa volta il risultato è stato 9 su 20, indicativo di una “demenza grave.” 

Quelle parole sull’ultimo referto medico sono coincise con la mia fase di diniego: ho deciso di non leggerle per un lungo periodo. Trovo incredibile come il cervello dei “pazienti sani”—i familiari—scelga di rimandare l’inevitabile perché sa che dovranno ancora sostenere sé stessi e gli altri. 

Non tutti i malati di Alzheimer diventano passivi perdendo le loro facoltà cognitive. Nel caso di mia madre la malattia ha attivato delle resistenze alla malattia stessa.

Della difficoltà di accettare e riconoscere questa malattia parla anche uno studio globale sull’Alzheimer dell’università canadese McGill. Il 35 percento dei caregiver intervistati a livello mondiale ha nascosto la diagnosi di demenza del familiare malato, mentre il 46 percento dei malati e dei caregiver ha identificato lo stigma sociale come il principale ostacolo alla diagnosi.

Esistono diversi aspetti della vita dei caregiver che la malattia investe: tra tutte quella relazionale ed emotiva, ma anche il peso delle relazioni della persona malata. A questo si aggiungono il senso di colpa, la sensazione di non fare mai abbastanza, con la frustrazione di dover affrontare un qualcosa che mette profondamente in discussione la normalità, in ogni istante: tutto sembra complesso anche nelle situazioni più meccaniche, come organizzare uno spostamento in auto per una visita medica. 

Anche il lato burocratico non va dimenticato: abbiamo iniziato il percorso di riconoscimento della malattia per fini di assistenza previdenziale nel 2020. La commissione territoriale che valuta l’invalidità ha chiesto una visita in una struttura pubblica, ospedale o Asl, con un’integrazione e l’obbligo di una diagnosi recente. “Quella del 2018 è troppo vecchia,” ci hanno detto nel dicembre 2021, quando è arrivato il primo parere. 

Sono passati altri sei mesi prima che la commissione desse parere favorevole, con una nuova visita realizzata ad hoc e l’enorme sofferenza di mia madre, che ha dovuto sottoporsi allo stress dell’ennesima visita davanti a un gruppo di medici—persone sconosciute e per questo minacciose.

Inutile dire che questo percorso non rispetta l’integrità del malato, e diventa più difficile per chi non ha gli strumenti e il supporto legale per persistere nella procedura. Non tutti i malati di Alzheimer diventano passivi perdendo le loro facoltà cognitive: nel caso di mia madre la malattia ha attivato delle resistenze alla malattia stessa, e il rifiuto di sottoporsi a visite mediche ne è una conseguenza. 

Spesso oggi mi basta sentire la sua voce allegra, in una giornata in cui i farmaci hanno fatto effetto sul suo umore. Nei giorni “no” fatica a riconoscermi. E quando sono lontana, mio padre esordisce spesso al telefono con questa frase: “Oggi non è una buona giornata.” 

Stare a contatto con una persona malata di Alzheimer ti obbliga a lavorare su te stesso, come mai avresti voluto, e ti porta infine a esercitare l’unico sentimento che permette di far vincere l’amore su tutto il resto: la compassione.

“Si tratta di elaborare un lutto anche se la persona è ancora viva,” dice Maccalli. Un lutto che mi confonde, perché la perdita è arrivata in un momento complesso della mia vita, tra traslochi, nuovi lavori, precariato, decisioni difficili. Non ho mai avuto il piacere di portare fuori a cena mia madre a Milano, la città dove vivo dal 2019. Quando i miei amici mi raccontano dei loro genitori, delle serate a teatro o al cinema o al ristorante, divento improvvisamente triste. Mi piacerebbe condividere con lei la mia passione per le piante, per la cucina, e imparare a fare le orecchiette con il suo metodo, ma si tratta di una possibilità che non esiste più. 

Dall’altro lato, ho cercato un equilibrio per comunicare con lei: le mando spesso dei fiori, che adora, e mi dice: “questi fiori parlano.” Quando torno a trovarla, invece, ascoltiamo musica insieme—l’ultima volta “La valse di Amélie” di Yann Tiersen—e mi sono commossa quando ha commentato “è bello stare insieme così.”

Anche quando vengono a mancare i ricordi espliciti, conclude Maccalli, “sotto la corteccia cerebrale avviene un riconoscimento che è più istintivo-emotivo. Quindi la persona sa chi è significativo, emotivamente sa di avere un legame con i membri della famiglia.” La dottoressa non lo sa, ma questa informazione mi ha provocato un po’ di sollievo.

Ho imparato che bisogna considerare le persone al di là delle malattie: ed è esattamente questo l’esercizio che sto cercando di fare, per conservare la memoria di mia madre. 

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Nota: una versione precedente riportava alcune imprecisioni in riferimento alla posizione dell’OMS e ai dati sull’incremento. Ce ne scusiamo.