‘Tu lo conoscevi Giulio?’: Le verità su Regeni, i silenzi di al-Sisi e la banalità del male

“Ma tu lo conoscevi Giulio?”

È questa la domanda che mi è stata posta più spesso negli ultimi mesi.

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Sarà che ho lavorato al Cairo come giornalista per quasi quattro anni. Sarà che tra gli stranieri che girano in Medio Oriente alla fine ci si conosce un po’ tutti. Sarà che io e Giulio avevamo gli stessi amici, abbiamo stretto le stesse mani, camminato nelle stesse strade e bevuto gli stessi café zuccheratissimi e le stesse birre annacquate: Stella al Cairo, Baraka a Damasco.

Però no, mi dispiace. Non conoscevo Giulio perché ci siamo incrociati più volte tra Siria e Egitto, ma me ne sono andato dal Cairo poco prima che lui si trasferisse li. Ho la vaga sensazione di averlo incontrato, ma non posso dire di conoscerlo.

Conosco, però, il Cairo. Conosco gli attivisti egiziani pieni di idealismo da cui dipendiamo noi giornalisti e ricercatori. Conosco le forze di sicurezza che tanto diligentemente quanto grottescamente cercano di mettere a tacere qualsiasi opposizione al regime.

Conosco la loro banalità del male, perché non c’è altro modo di descrivere un regime che tiene in scacco un paese intero ricopiando informazioni a mano con la carta carbone e fabbricando milioni di accuse false e ridicole.

Banalmente malefico perché gli stessi poliziotti che ti arrestano cercando di intimidirti, ti possono poi invitare a cena a casa loro mesi dopo se ti incontrano per caso. “Ti ricordi di me? Sono quello che ti ha arrestato quella volta!” È successo per davvero.

Di più: è un regime banalmente malefico perché si regge sugli errori umani e la loro impunità.

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Siamo italiani, dovremmo essere abituati a queste cose. Dovremmo capirle senza troppa fatica. Siamo il paese che glorifica i marò e li mette sullo stesso piano di Giulio Regeni. Siamo il paese della più grave sospensione e violazione dei diritti umani nel secondo dopoguerra in Europa” – Genova 2001. Siamo il paese in cui la tortura non è reato e molte altre cose ancora.

L’autore, al centro della foto, mentre viene arrestato davanti al consolato italiano al Cairo l’11 luglio del 2015.

Dentro al regime

In teoria, dovrebbe essere semplice per noi comprendere l’Egitto. E invece, leggendo la copertura degli affari egiziani fatta in questi mesi sui giornali italiani, mi sembra che ancora non abbiamo afferrato fino in fondo l’orrenda banalità di quel regime. E di quanto essa sia istituzionalizzata.

Anzi, i giornali si lanciano in congetture e accuse che definire grottesche sarebbe riduttivo. Al di là di qualche autore e giornalista che ha scritto di Egitto e di Giulio con conoscenza e coscienza, abbiamo perlopiù ricalcato, e male, gli stessi modi vigliacchi usati dalla stampa e dal regime egiziano per attaccare l’integrità delle persone coinvolte a vario titolo o per depistare dal punto vero della questione.

Ci siamo dimenticati del dolore che provano le persone vicine a Giulio, trasformando in colpa un silenzio che – di fronte ad una perdita e ad una vicenda traumatica – è più che comprensibile.

Persino il fatto che Giulio fosse una mente brillante impegnata a fare ricerca su un argomento interessante è diventato motivo di scherno e di accusa. Ma veramente crediamo che un ragazzo che fa ricerca sia colpevole di fare ricerca?

All’estremo opposto, invece, ci sono quelli che spiegano tutto con la “ricerca scomoda” sui sindacati, che sembra più un modo per farsi belli per aver pubblicato tre articoli non pagati in due anni su una cosa che, obiettivamente, scomoda non è. Ora, senza voler togliere nulla alla ricerca di Giulio, solo in Italia siamo riusciti a sovrastimare l’importanza dei sindacati egiziani in questo momento politico. E tutti gli altri studiosi o giornalisti che facevano ricerca su temi altrettanto scomodi quali i Fratelli Musulmani, le donne, i movimenti giovanili? Perché sono stati, al massimo, deportati e non torturati a morte?

Siamo passati con disinvoltura da articoli che elencavano il menu della cena tra investigatori italiani e egiziani – scampi, se non ricordo male – a “rivelazioni esclusive” con dettagli scabrosi che un gruppo di giornalisti egiziani indipendenti che lavorano con i propri computer su un tavolo di plastica in una stanza ha smontato in poche ore.

Per una supposta ricerca della verità, abbiamo travolto tutto e tutti – inclusa la verità stessa.

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Non so cosa sia successo a Giulio. Non so perché sia stato arrestato, torturato e ucciso. Dovrei aggiungere un “probabilmente arrestato,” ma ho pochi dubbi che sia stato così.

So che, come già spiegato su VICE da Lorenzo Declich, abbiamo assistito anche sulla stampa italiana a mistificazioni di tutti i generi per giustificare un omicidio di stato o per spiegarlo, mentre mi sembra che in pochi abbiano cercato di far luce su quel regime.

Attorno alla verità

Il punto, invece, era proprio quello. Spiegare e accusare un regime colpevole di un omicidio politico e di Stato. Inutile girarci intorno, puntare il dito sui sindacati, sulla comunità di ricercatori, sui supervisor di Giulio o sugli scampi mangiati dagli inquirenti egiziani.

Il regime egiziano ha ucciso Giulio Regeni. Punto. Ed è quel regime e la sua banalità del male che andavano messi alla sbarra, accusati, smontati, distrutti della loro benché minima legittimità internazionale.

Invece di puntare il dito in una caccia alle streghe senza senso, bisognava puntare il dito in alto, alla cima della piramide dove siede il presidente Sisi.

Per capire questa banalità del male, iniziamo dalle strade del Cairo dove solo nelle ultime settimane migliaia di persone sono finite dietro le sbarre del regime.

Lo scorso 25 aprile c’è stata la più grande non-manifestazione organizzata da un bel po’ di tempo a questa parte. La definisco una non-manifestazione perché le forze di sicurezza l’hanno repressa talmente tanto velocemente che gli attivisti non sono nemmeno riusciti a radunarsi. La maggior parte di loro era stata rastrellata nei propri appartamenti, nei bar e nei luoghi di incontro già nei giorni precedenti.

Talaat Harb street e Piazza Tahrir piene di manifestanti pro-Sisi durante una manifestazione contro il terrorismo il 26 luglio 2013. Nelle stesse ore, al sit-in di Rabaa, venivano uccisi più di sessanta sostenitori dei Fratelli Musulmani. Foto per gentile concessione di Francesca Volpi.

Secondo il Fronte per la Difesa dei Manifestanti, sarebbero state 1.277 le persone fermate tra il 15 e il 27 aprile. A scorrere la lunga lista di persone arrestate, vi si trovano attivisti più o meno noti, avvocati per i diritti umani e perfino il professor Ahmed Abdallah, ingegnere e consulente della famiglia Regeni.

La maggior parte delle persone, però, sono persone di cui non sentirete mai parlare. Persone che non erano neanche lì a protestare, ma che passavano per caso. Oppure persone che non hanno mai smesso di scendere in strada in questi anni e persone che, magari, hanno ricominciato solo ora.

Appunto: perché proprio ora?

La strategia di Sisi

La minaccia del terrorismo e le bombe che al Cairo scoppiavano con cadenza quasi settimanale hanno aiutato il regime a tenersi in piedi per un po’. Sisi ha compreso appieno il messaggio bushiano della “guerra al terrore” e l’ha fatto proprio. Usandolo a piene mani, ha legittimato le misure draconiane all’interno del paese e si è presentato all’estero come “il baluardo della stabilità nel Mediterraneo,” definizione che lo stesso premier Renzi ha usato più volte per descrivere Sisi negli ultimi anni.

E mentre la guerra al terrore funziona ancora per ottenere legittimità nazionale, al Cairo inizia a traballare. È la paura che il regime crolli e che l’Egitto si trasformi in un’altra Siria a tenerlo in piedi, non certo i successi – che non si vedono, anzi – nella guerra contro il terrorismo.

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Anche perchè Sisi ha allargato talmente tanto la definizione di “terrorismo” che ormai chiunque è un potenziale terrorista. I militanti dello Stato Islamico e i Fratelli Musulmani, gli attivisti di sinistra e i giovani del Movimento 6 Aprile, gli ultras delle squadre di calcio, i giornalisti. Oppue il mio ex-coinquilino, un capellone un po’ sbandato e artistoide condannato a cinque anni di carcere perché era in strada a protestare.

“Se è vero che ci sono così tanti terroristi nel paese, devono essere veramente degli incapaci per non essere riusciti a vincere,” mi ha detto qualche mese fa al Cairo un giovane tassista egiziano, scherzando.

La narrativa del regime che vede Sisi come salvatore della patria inizia ad avere delle crepe sempre più grandi. Lo Stato cerca di riempirle con una repressione sempre più feroce e quelle si allargano ancora di più. La paura dei terroristi è nulla se il regime che dovrebbe proteggerti inizia a farti ancora più paura.

“Non puoi sapere dove scoppierà una bomba, e devi avere veramente sfortuna se ci passi accanto proprio quando scoppia in una città di 22 milioni di abitanti. Il regime, invece, quello fa più paura perché potrebbe arrestarti, torturarti e farti scomparire anche se te non hai fatto nulla e hai tenuto la testa bassa,” mi ha raccontato Maged, un fotografo di Alessandria.

Ma anche se stai a testa bassa e righi dritto, rischi di finire tra le centinaia di desaparecidos che scompaiono ogni mese. Non serve che tu abbia fatto qualcosa – il regime fabbricherà qualche prova e accusa ridicola contro di te.

Da quando è arrivato al potere, Sisi ha cambiato ministri e membri del governo più volte. Ha costretto alle dimissioni e fatto arrestare chiunque non fosse assolutamente in riga, inclusi il presidente del sindacato dei giornalisti e il capo dell’autorità anti-corruzione, Hisham Geneina. Quest’ultimo è stato licenziato a marzo dopo aver rivelato che la corruzione costa alle casse egiziane più di 67 miliardi di dollari. La maggior parte deriva dai contratti per la compravendita di terra, dietro i quali ci sono militari o ex-generali delle forze armate.

Come se non bastassero le dimissioni, c’è un processo a suo carico per “diffusione di informazioni false.”

La press card egiziana dell’autore.

Perché il regime funziona così. Si basa su un fragile compromesso tra le sue parti, tra gruppi di potere economico e gruppi responsabili della repressione. Che poi sono gli stessi. Sono organici, hanno bisogno gli uni degli altri e non possono permettersi di sacrificare neanche un singolo membro dell’apparato di fronte ad un bene maggiore.

Mistificazioni di massa

Non sarebbe stato più semplice per Sisi raccogliere un semplice ufficiale di polizia, accusarlo pubblicamente dell’omicidio di Giulio Regeni e mettere così a tacere la crisi diplomatica con l’Italia?

D’altronde è questo che ha chiesto l’Italia. Il nome del responsabile. Uno qualsiasi. Ma nel momento in cui è l’intero regime ad essere responsabile, si può sacrificare un pesce piccolo?

Sisi era stato informato nei primissimi giorni dalla scomparsa di Giulio, quando lui era forse ancora in vita. Non è che non abbia fatto nulla perché non poteva. Non ha fatto nulla perché avrebbe messo a rischio l’intero sistema di impunità su cui si basa il regime.

E allora, ha senso condurre una caccia alle streghe puntando il dito a mezzo stampa per depistare dal vero responsabile?

Allo stesso modo, Sisi non può fare un nome qualunque per mettere tutto a tacere. Se lo facesse, creerebbe un precedente pericoloso. Chi si occuperebbe, poi, di arrestare, torturare e uccidere migliaia di oppositori e gente comune?

Non credo neanche alle teorie di un complotto interno al regime contro Sisi o contro gli interessi italiani in Egitto. È vero: il presidente è stato scelto come compromesso – mal digerito – tra i vari apparati di sicurezza e quasi imposto dal vecchio capo del Consiglio Superiore delle Forze Armate, Tantawi. Eppure, non c’è spazio per le manovre interne contro di lui. Se cade Sisi, crolla tutto.

Probabilmente il presidente non aveva ordinato il rapimento di un cittadino italiano. Probabilmente non ne sapeva neanche nulla finché non è stato allertato dal Ministro degli Interni. Il ministro, tra l’altro, è un ex dirigente della State Security, la polizia segreta politica che è la maggiore responsabile della scomparsa di centinaia di attivisti.

Probabilmente Sisi era all’oscuro di tutto. Ma basta a scagionarlo? No, non credo.

Il “poster elettorale” di un panettiere del Cairo a favore di al-Sisi, nel maggio del 2014. Foto dell’autore

L’istituzionalizzazione della paura

Come raccontato su VICE News, c’è una vicenda di un altro ragazzo italiano, D.G., che viveva al Cairo da ben più tempo di Giulio Regeni. La sua storia spiega, secondo me, più di quanto non sia stato scritto finora sul caso Regeni. D.G. è stato arrestato fondamentalmente perché omosessuale. Per 48 ore non abbiamo avuto sue notizie. Il Ministero dell’Interno negava, al personale dell’ambasciata italiana, che fosse in detenzione o sotto arresto.

Dopo due giorni di inferno in cui ha assistito alle torture inflitte ad altri detenuti, D.G. è riuscito ad avvertire l’Ambasciata grazie ad un telefono nascosto nella cella della stazione di polizia di Giza che condivideva con più di 20 persone.

A quel punto, il Ministero dell’Interno non ha potuto più negare di sapere dove fosse, ma per quattro settimane abbiamo assistito a una fiera dell’assurdo. Invece di scusarsi per aver arrestato un cittadino italiano la cui unica colpa era quella di essere omosessuale e di vivere da anni in Egitto, le autorità egiziane hanno fabbricato accuse false nei suoi confronti.

“Non è stato arrestato perché gay, è ridicolo. È stato arrestato perché a capo di un giro di prostituzione,” ci hanno detto gli inquirenti egiziani. Una delle prove schiaccianti, ad esempio, era una foto di D.G. abbracciato ad altri amici. Tra questi c’ero anche io, in una serata in cui ero un po’ alticcio dopo aver litigato con la mia ex ragazza.

A nulla sono valse le pressioni diplomatiche in un momento in cui, tra l’altro, il nostro consolato al Cairo era stato appena bombardato e Renzi continuava a rimarcare gli eccellenti rapporti tra Italia e Egitto.

“Questo è il nostro paese, queste sono le nostre leggi,” ci è stato risposto. “Non tolleriamo interferenze.”

D.G. alla fine è stato deportato in Italia e nessuno ha mai offerto delle spiegazioni o delle scuse. Chi lo ha arrestato? Perché? A cosa serviva? Perché farlo assistere a delle torture inflitte ad altri prigionieri con la minaccia di fare le stesse cose a lui?

Possiamo puntare il dito contro gli amici di D.G., contro i datori di lavoro, le persone che erano in contatto con lui o che ha conosciuto negli anni in cui ha vissuto al Cairo. Non servirebbe a nulla, ma è esattamente quello che stiamo facendo nel caso di Giulio Regeni.

Oppure, possiamo puntare il dito contro un regime irrazionale e criminale. In cui vige una cultura di impunità per cui chi infrange un tabù che fino a quel momento resisteva – non si fa scomparire e minacciare di tortura un cittadino straniero – non viene punito.

Anzi, l’ufficiale che ha arrestato D.G – in cerca di una promozione per aver sgominato “un giro di prostituzione omosessuale” – ha forse persino ottenuto un aumento.

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