Música

Gli artisti noise stanno usando il rock per creare una nuova forma distorta di Americana

I Wolf Eyes, veterani del noise e tra le migliori band rock d’America, fotografati da Alivia Zivich.

Hanno preso una strada lunga e tortuosa per arrivarci, ma i Black Dice sono finalmente arrivati al club quest’anno. Inondati dal clima generale che vede quasi ogni producer noise che abbia un tavolo pieno di oscillatori analogici e effetti da mercatino accartocciare il proprio rumore bianco in una forma semi-ballabile—un genere che i critici ormai chiamano “technoise“—sembrava quasi inevitabile che questi veterani della musica sperimentale cominciassero a fare la stessa cosa, seppur prendendosi il proprio tempo.

Quest’estate, i Black Dice hanno apparentemente sfogato il loro interesse nella musica dance più standard con un 12″ per L.I.E.S. composto da tracce intitolate “Big Deal” e “Last Laugh”. Ma gli 11 minuti dell’EP non sono quello che vi aspettereste né da un gruppo noise né da una label venerata per i suoi contributi ai dancefloor mondiali. Infatti si tratta di due lunghe strumentali guidate da una chitarra fritta nell’acido e suonano più come i Lynyrd Skynyrd che come qualcosa che potresti ascoltare in una piccola e buia discoteca. L’EP è una finta, una finta grandiosa, rispetto alla narrativa dominante stabilita da altri artisti noise che si approcciano alla techno—invece di 4/4 plasticosi, qua troviamo un collage sbrindellato e alieno di riff rock assurdi e incasinati. È il tipo di imprevedibilità che i fan più accaniti dei Black Dice si aspettano, ma evidenzia anche una strana corrente sotterranea che sta venendo a galla mentre il resto della scena noise si trasferisce sul dancefloor. 

In un impeto di rifiuto verso i flirt con il ballo, negli ultimi anni alcuni dei grandi della scena noise nordamericana sembrano avere cominciato a rimodellare i propri suoni secondo criteri più tradizionali, prendendo le proprie influenze dalla pila alta decenni di radio classic rock. Band come Black Dice, Wolf Eyes e Alex Moskos (tra i fondatori degli AIDS Wolf, ma oggi attivo con il nome di Drainolith) stanno riapplicando le proprie tendenze sperimentali verso strumenti e strutture tradizionali. Brandendo riff drogati per mezzo di chitarre elettriche e sassofoni sputacchianti, questi ammiccamenti verso la lunga storia della musica rock populista creano una versione di noise-rock (o forse, in questo caso, rock-noise) che riflette perfettamente lo sconvolgente stato politico degli Stati Uniti—una nuova, improbabile Americana.

Un discreto numero di artisti meno famosi hanno adottato questo tipo di suoni e tropi. Moskos ha dichiarato riguardo al suo ultimo disco Hysteria che parte del suo obiettivo era una revisione del rock; i suoi comunicati stampa recitavano che il traguardo fosse “estrarre lo scheletro dal ‘rock’ e inserirlo in una nuova e molto più strana pelle umanoide”. Ren Schofield dei Container all’inizio dell’anno si è dedicato alla sua nuova band Form A Log, che riarrangia la sintassi della musica rock in grovigli inintellegibili di chitarre pacchiane, assordante rumore statico e parti di batteria riassemblate. Il loro lato dello split con Moth Cock, uscito a marzo, suona come un libro di spartiti per chitarra passato per una tritadocumenti e riassemblato da un maniaco. 

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Queste band, per quanto siano inquietanti, sembrano una punizione necessaria allo stato della musica rock di oggi. Ci sono, naturalmente, band che oggi sono in grado di evocare in modo credibile la musica che si trova normalmente sulle stazioni radio classic rock. Alcune di queste, come gli Sheer Mag, riescono anche a sovvertire l’eterosessismo intrinseco alla forma creando canzoni che parlano dei mali sociali di oggi. Ma è difficile non sentire qualcosa di così diretto come un’armonia a due chitarre processandola come qualcosa di nostalgico, una visione rosea di un tempo migliore—escapismo a sei corde travestito da ribellione. Dall’altra parte ci sono artisti come Black Dice, Moskos e Wolf Eyes che riducono il riffaggio sublime a rivoltanti pozze di chitarra, suggerendo che nulla è mai stato bello come te lo ricordi tu—e oggi è ancora peggio. 

I Black Dice si sono formati a Providence, Rhode Island, nel 1997 come un quartetto con influenze hardcore. I concerti erano brevi e intensi e leggenda vuole finissero sempre con qualche infortunio tra il pubblico o i membri della band. Per cui in senso lato, il DNA della musica rock è stato presente nella loro mappa genetica fin dall’inizio. Ma cambiarono velocemente direzione, abbracciando il rumore astratto e le ambientazioni cosmiche nel loro primo vero album, ​Beaches and Canyons​ del 2002. 

Mentre si condensavano nella lineup attuale di Aaron Warren e i fratelli Bjorn ed Eric Copeland dopo il loro album del 2004 Creature Comforts, si sono velocemente messi alla guida della scena noise americana, intagliando album di elettronica tremolante e stramba per la label prettamente dance DFA e aprendo i tour di inclassificabili come Animal Collective attorno a metà e fine anni Zero. Volenti o nolenti, sono finiti per allinearsi alla scena elettronica, sparando beat ultradistorti che sono culiminati nell’album del 2012 Mr. Impossible. I suoi half-step agitati gli hanno fruttato critiche in alcuni casi negative, ma si trattava dell’apice della fase più concentrata sul ritmo del loro lavoro, quella da denti digrignati e occhi pallati con i suoi belati noise che assomigliavano a un equivalente sonico del famoso inquietante ghigno di Aphex Twin. Eric Copeland, nel frattempo, ha rovesciato sul pubblico un vero torrente di uscite soliste con il suo nome, avvicinandosi al dancefloor a volte in modo goffo ma accattivante, guadagnandosi un posto nei roster di DFA, L.I.E.S. e Paw Tracks. Un’intervista rilasciata da Copeland a un blog attorno all’uscita di Creature Comforts rendeva esplicito il loro motto non detto: “Non deve suonare musicale per essere musica”. 

I Black Dice nel loro periodo più noise.

Ma ora, i Black Dice suonano quasi come un gruppo classic rock, o perlomeno come una versione da specchio deformante del classic rock. Come molte delle tracce di Mr. Impossible, “Big Deal” si basa su varie linee di chitarra intrecciate e sul nonsense vocale modificato di Eric Copeland. Ma qui c’è una storditezza (e un certo blues) che ricorda le ormai dimenticate lunghe nottate di band come Lynyrd Skynyrd o Thin Lizzy più che i loro contemporanei più sperimentali (il fatto che la componente di rumore astratto della canzone ricordi una slide guitar per timbro e oscillazione non fa che aumentare questa sensazione). Anche il materiale solista di Copeland che una volta ospitava i suoi esperimenti più club-oriented, ora si sta muovendo verso una strumentazione più tradizionale e composizioni più ispirate al rock. Oltre a “Big Deal”, a luglio è uscito anche il suo ultimo album per DFA intitolato Black Bubblegum, una raccolta appiccicosa di chitarre, basso e batterie organizzate in una traballante e tormentata impalcatura di tematiche rock fuse e ricomposte. Che i riferimenti al classic rock siano volontari o meno, sembra strutturato allo stesso modo—una serie di riff di chitarra che tagliano una linea vocale beffarda, il tutto progettato per provocare un abbandono da accendini in aria.

I contorni di “Big Deal” sono più chiari di qualunque altra cosa sia stata fatta uscire dai Black Dice fino a oggi. È come guardare lontano e, invece di vedere un blob amorfo all’orizzonte, vedere un tizio che maneggia una sei corde, magari con un cappello da cowboy e intento a buttare giù gli ultimi due sorsi da una bottiglia di birra da due soldi che a breve riutilizzerà come slide. Guardando più da vicino, però, ti accorgerai che le cose sono un po’ strane, i riff sono ancora abbastanza asincroni da essere inquietanti e la voce di Copeland—per quanto leggermente più chiara—è ancora relativamente indistinguibile, delirante e nonsense in un fiume infinito di fonemi in libertà. 

Il loro approccio si lascia interpretare come una critica. Avvicinandoti, ti rendi conto che c’è qualcosa nel tizio all’orizzonte che non funziona—è piuttosto robotico, o i suoi denti sono totalmente marci, o in qualche modo è fuori posto—una riflessione deliberatamente distorta della Grande Canzone Rock Americana che si adatta perfettamente a un’epoca che sembra molto più confusa (con i robot assassini che sparano dal cielo, le teorie del complotto che raggiungono il mainstream e la diffusa accettazione della demagogia politica) addirittura dell’epoca post-Vietnam che ha dato la luce a queste sonorità. 

Per quanto una volta abbia visto alcuni ragazzi fare crowdsurfing a un concerto dei Black Dice, non ho visto nulla di simile al primo Trip Metal Fest, tenutosi lo scorso maggio a Detroit (se non contiamo una rissa che ha coinvolto almeno un juggalo). Ma il festival, organizzato da Nate Young dei Wolf Eyes, ha messo in evidenza il lento colare di questa Americana assurdista su tutta la nazione. La scaletta era stata concepita per sottolineare la diversità e interconnettività di tutte le varie forme della comunità sperimentale—ha suonato il leggendario compositore per synth Morton Subotnick, Hieroglyphic Being ha collaborato con membri della Sun Ra Arkestra. Ma oltre a una pletora di performer noise intenti a domare pedali e strumenti elettronici, molti dei presenti hanno sorprendentemente preso in mano strumenti tradizionali, distribuendo quei riff atmosferici ma sempre esplicitamente rock che i Black Dice avrebbero presto pubblicato su L.I.E.S..

Quando John Olson—sassofonista e torturatore elettronico nei Wolf Eyes—ha coniato il genere Trip Metal in un’intervista del 2014, era sembrato uno scherzo frivolo (specialmente perché ultimamente su Twitter sembra preferire il termine Psychojazz). Ma il fatto che abbia sentito il bsiogno di distinguere la versione attuale dei Wolf Eyes dalla scena noise in generale è indicativo della loro stessa spinta verso strutture rock. 
I Am a Problem: Mind in Pieces, uscito nel 2015, dotato di linee di chitarra appuntite a cura di Jim Baljo e elettronica distorta a cura di Olson e Young, è l’unico documento registrato di quest’epoca, ma i loro concerti, tanto al Trip Metal Fest quanto altrove, hanno confermato i Wolf Eyes come uno dei migliori gruppi rock degli Stati Uniti.

Le loro strumentali dronanti e striscianti hanno cominciato a condensarsi e prendere forma, rivelando un gusto per il rock’n’roll (o perlomeno per il blues) nascosto in mezzo alla melma. Mentre Young biascica parole in canzoni come “Cynthia Vortex aka Trip Memory Illness”, a Baljo viene lasciato spazio per assoli apatici che ricordano un bluesman perduto. Per quanto sia spesso ronzante e atonale, il sax di Olson può scatenare ricordi futuri-passati di assoli interdimensionali a cura di Clarence Clemons. Young si lascia andare a voci febbricitanti che sembrano interrogare Dio e tutto il Sud degli Stati Uniti. Come i meme Trip Metal che hanno proliferato per un po’ in un angolo molto preciso di Twitter, la musica dei Wolf Eyes è una versione surreale e allucinatoria di formati familiari—una cosa concepita per farti ridere e vomitare allo stesso tempo. 

Sottraendosi in punta di piedi al dancefloor, i Black Dice e i loro contemporanei sono riusciti a creare uno sporco riflesso dello stato di cose. Evocano il più grande contributo artistico dato dall’America—il rock’n’roll—ma ripresentandolo contorto, sbrindellato, sfanculato e irriconoscibile. È un modo per farci capire che se ci guardiamo allo specchio, se ci guardiamo veramente bene, probabilmente quello che vedremo non ci piacerà.

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