Abitando a Milano o Torino, da un anno a questa parte non è raro imbattersi in bike messenger che trasportano cibo sotto le insegne fucsia di Foodora, una startup di food delivery nata in Germania nel 2014. Per chi non lo conoscesse, il servizio funziona in modo molto semplice: attraverso l’app si seleziona il cibo da una lista di ristoranti, e un fattorino in bici, chiamato rider, porta l’ordine direttamente a casa del cliente.
Fin da subito l’azienda ha goduto di un’ottima pubblicità e dell’esaltazione della stampa di settore (e non), che l’ha definita “il futuro della consegna a domicilio” e ne ha snocciolato le conquiste: “I corrieri di Foodora, in soli due anni, hanno coperto 295.000 km: in proporzione, è come se girassimo nove volte intorno alla terra, rigorosamente su due ruote.”
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Lo scorso sabato, tuttavia, sono stati gli stessi corrieri a mettere in luce una realtà molto diversa. Una cinquantina di loro è scesa in piazza a Torino per protestare contro pessime condizioni di lavoro e chiedere che i loro diritti minimi siano rispettati. Secondo La Stampa, si è trattato del “primo sciopero dei lavoratori della sharing economy .”
Nel comunicato con cui si era lanciata la mobilitazione, i rider avevano scritto che “dietro i nostri sorrisi, i nostri ‘grazie’ e i nostri ‘buona cena, arrivederci’, si cela una precarietà estre ma e uno stipendio da fame”—ossia 2.70 euro a consegna effettuata (prima erano 5 euro per un’ora di turno) —e avevano invitato a fare una sorta di boicottaggio: “Non ordinate da Foodora, non consigliatela e se potete chiamate il servizio clienti o fatevi sentire sulla loro pagina Facebook.”
Per capire come si sia arrivati a questo punto—e com’è davvero lavorare per Foodora—ho parlato con un rider di Torino, che ha preferito rimanere anonimo. “Ero in cerca di un lavoro che mi permettesse di avere un’integrazione al reddito già scarno,” mi spiega. “Foodora mi sembrava una buona possibilità, per non essere legato a degli orari imposti e nel frattempo poter gestire anche i miei progetti personali.”
Durante il colloquio di gruppo, in cui non è stato consegnato nessun curriculum, sono state spiegate le caratteristiche del lavoro, la flessibilità e la tipologia di contratto—una “sorta di co.co.co. fatto male” senza tredicesima, contributi, sussidio di disoccupazione, ferie retribuite e malattia.
“Chiedendo stime su quante consegne fosse stato possibile fare,” prosegue il lavoratore, “la risposta fu di due l’ora, anche tre in casi eccezionali. Facendo un po’ di calcoli, per chiunque sia dinamico e abbia voglia di correre, potrebbe essere un’opportunità per portare a casa una cifra non esagerata, ma un’importante integrazione per gestire le spese quotidiane.”
Nella pratica—e sempre dal lato del rider—il lavoro consiste nel ricevere un’ordine dall’app aziendale che indica “ristorante, orario di ritiro e raggio di consegna entro l’ora prestabilita.” Un algoritmo assegna l’ordine al driver più vicino; “dopo il pick-up,” mi spiega il rider torinese, “si accede all’indirizzo e al telefono del cliente, ci si collega a Google Maps e si parte.” In caso di problemi, altri dipendenti “aggiustano il tiro e ci supportano telefonicamente.”
Nelle prime settimane, tutto è sembrato filare liscio. Il lavoratore mi dice che non si tratta di un lavoro particolarmente stressante ma che dovendo correre sempre i rischi e gli imprevisti erano sempre dietro l’angolo: “Il fatto di dover correre per fare più consegne sicuramente ti espone a rischi maggiori. Siamo anche valutati da algoritmi, quindi chi ha performance maggiori sale di graduatoria.”
In un caso il driver, dopo una ripida pedalata in collina e un mezzo sbandamento, ha avuto un alterco con un guidatore che stava dietro di lui, che si è poi qualificato come un carabiniere. “Incazzato come un belva, diceva di volermi portare in caserma,” mi racconta, “e tutto ciò mentre avrei dovuto consegnare un pasto caldo, già in ritardo di 20 minuti per colpa del ristoratore, più indirizzo sbagliato del cliente (cose che sballano l’algoritmo).”
I problemi sono iniziati dopo qualche settimana di lavoro, quando il driver ha partecipato a una riunione pubblica in Piazza Castello per discutere della situazione dei rider. “Da quel momento non mi fu accettato un turno, e ad alcuni di noi fu impedito di accedere al calendario dei turni, come se un admin avesse abbassato i livelli d’accesso,” mi spiega. Dopo un incontro con i responsabili la cosa sembrava essere parzialmente rientrata, ma quanto successo “mi ha motivato a cercare delle risposte.”
Da lì in poi, come spiega anche il comunicato della mobilitazione di sabato, ci sono stati vari tentativi di trattare con la dirigenza—tutti sostanzialmente infruttuosi, anche perché l’azienda “preferisce vedere le persone singolarmente.” Nel corso di questi incontri individuali, racconta il lavoratore, “erano state prese in considerazione proposte di aumento della paga oraria, convenzioni con ciclofficine per la riparazione delle bici (che sono a nostro carico), SIM aziendali per gestire il traffico dati e telefonico attualmente a nostro carico.”
Passata l’estate, però, “le proposte sono state totalmente dimenticate ed è stato comunicato il passaggio di tutti i rider a un contratto a cottimo, dove il collaboratore incassa una somma a consegna.” Ed è stato stato proprio questo il motivo che ha spinto i lavoratori di Foodora a scendere in piazza per la prima volta dall’arrivo del servizio in Italia.
A ogni modo, l’azienda non ha preso benissimo la protesta, e per bocca dei due amministratori italiani si è detta “dispiaciuta per l’accaduto, ” perché “abbiamo sempre avuto la disponibilità al confronto con i nostri lavoratori.”
Ma come puntualizza il rider che ho sentito, in realtà “è difficile, o quasi impossibile parlare con la dirigenza, se non tramite responsabili mediatori. Già durante la seconda parte della protesta di sabato un responsabile si è presentato di sua spontanea volontà cercando di esporre le sue ragioni. Per poi incontrarlo successivamente, nei locali, a cercare di chetare le acque.”
I manager, respingendo le cifre e le critiche dei propri “dipendenti,” hanno poi dichiarato che “questa nuova politica dell’azienda è un’opportunità per la nostra flotta,” e precisato che Foodora non è “un lavoro per sbarcare il lunario” ma l’occupazione ideale “per chi vuole guadagnare un piccolo stipendio e ha la passione per andare in bicicletta.”
Per ora, lo stato di agitazione sembra aver smosso qualcosa. Diversi ristoratori si sono mostrati solidali con i lavoratori, e uno in particolare, il Laleo, ha fatto sapere che non effettuerà più consegne tramite Foodora: “la precarietà fa purtroppo parte della nostra epoca ma non può giustificare lo sfruttamento.” Dal canto loro, i rider hanno ottenuto l’apertura di un tavolo di trattativa con la direzione di Foodora, e entro giovedì dovranno presentare una controproposta contrattuale. Le richieste avanzate sono contenute in questo comunicato postato su Facebook:
L’ultimo punto—”cessazione immediata e definitiva dei provvedimenti disciplinari contro i lavoratori in protesta”—si riferisce a una notizia pubblicata proprio ieri. A due “promoter,” accusate di essere state a una riunione dei “rider,” sarebbe stato negato l’accesso al gruppo interno su WhatsApp e sospeso il profilo personale sull’app, che è necessario per prenotare il turno di lavoro. In pratica, anche se l’azienda ha smentito tutto, si sarebbe trattato di un “licenziamento” per aver preso parte a una protesta.
Tuttavia, i lavoratori che si sono mobilitati non sono particolarmente preoccupati da altre ritorsioni. “Con queste condizioni di partenza,” mi dice il lavoratore, “cosa si ha da perdere? C’è un punto di non ritorno passato il quale la ritorsione non è più efficace.”
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