I disegni di Blu rappresentano una costante visiva nella mia vita; li riconosco immediatamente dall’inquietudine che mi trasmettono. Prima ci sono stati quelli a Bologna, dove sono nata e cresciuta, poi quelli a Milano, dove ho frequentato l’università e vivo tutt’ora. Anche per questo, la decisione di Blu di oscurare le sue opere dopo le polemiche sulla mostra Street Art – Banksy & Co. L’arte allo stato urbano mi ha colpita: a mio parere, si è trattato di un gesto politico forte—così come lo è, da sempre, tutta l’opera di Blu—contro un mondo dell’arte ancora legato a vacui concetti di pura estetica.
Ovviamente le opinioni scaturite dalla cancellazione sono state le più disparate: c’è chi sostiene che in questo modo Blu abbia danneggiato solo la comunità e chi, invece, ne difende il gesto perché coerente con un’arte che nasce per criticare e provocare lo stesso establishment che ora vuole farne una mostra.
Quello che è certo, per quanto mi riguarda, è che mettere in un museo della street art rimossa dai muri—fosse anche solo per preservarla, come dichiarato dai curatori—non può non sollevare dei dubbi. Dubbi sulla pretesa di storicizzare e archiviare una forma di espressione ancora attuale, che perde il proprio significato non appena manca il contesto particolare che l’ha generata, ma anche dubbi sulla riuscita dell’esperimento in sé, alimentati dalla diffusione delle prime foto della mostra.
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Nel frattempo, i ragazzi dei centri sociali che hanno collaborato con Blu sono stati denunciati e la sera prima dell’inaugurazione è stata organizzata una raccolta fondi al centro sociale Xm24, per pagare le spese legali che dovranno possibilmente affrontare. Alla luce di questi eventi e del sit-in di protesta programmato per domenica, ieri mattina sono andata all’apertura della mostra, per capire cosa ci avrei trovato e se tutto il clamore sollevatosi sia effettivamente motivato.
Arrivo in via Castiglione, dove affaccia l’entrata di Palazzo Pepoli, alle 10:10 della mattina, pensando di trovare un folto gruppo di contrari o quantomeno un po’ di pubblico richiamato dalla polemica. Ma al loro posto ci sono tre furgoni della polizia e almeno una quindicina di agenti in tenuta completa. Appena attraverso l’ingresso principale altri due mi passano accanto. Incrocio una maschera e chiedo se la polizia sia lì per la mostra. Lui annuisce. Davanti a me in fila ci sono quattro o cinque persone, ma dopo un quarto d’ora ci lasciano entrare senza biglietto nella prima sala, da cui, intanto, escono altri due poliziotti.
Lungo il primo corridoio, appoggiato su un piedistallo, c’è un pezzo di muro con impresso sopra uno dei ratti di Banksy, protetto da una teca di vetro. Vicino, altri graffiti a tema roditori, dalle serigrafie di Ericailcane a quelli realizzati sul muro di una galleria di Amsterdam da “autori vari.”
Appena attraverso del tutto il corridoio e spunto nella sala grande, mi fermo davanti a una delle opere di Blu all’origine della diatriba e scambio qualche parola con una giornalista del Carlino e Angelica, una ragazza che studia restauro e che è venuta alla mostra curiosa di capire quale sarà la strategia di conservazione di opere intrinsecamente deperibili. Per il momento oltre a noi c’è qualche giornalista, una famiglia di turisti inglesi, due ragazze che ridacchiano e un signore anziano dall’aria confusa.
L’allestimento è davvero impegnativo per dimensioni. La mostra è divisa per sale dai titoli apparentemente forzati—”La città dipinta,” “La città scritta,” etc.— e conta in totale 250 pezzi, catalogati come “artwork” quando si tratta di opere realizzate su supporti mobili (tele, tavole di compensato, cartoni della pizza e fogli da disegno) e “street piece” quando si tratta di pareti scrostate (come nel caso delle opere di Blu) e pannelli di legno rimossi dalle strade. Sono sistemate per i quattro piani di vetro e metallo del rinnovato cortile interno di Palazzo Pepoli, per tutta una parte del piano nobile e un paio di sale di un piano ammezzato. Molti dei pezzi più piccoli provengono da collezioni private, altri dal Museo della Città di New York.
Attraverso la mostra in compagnia di Angelica, con cui parlo della polemica dei giorni scorsi e della scelta di mettere sotto vetro certi elementi e altri no. Il vetro, forse per colpa anche dell’illuminazione, impedisce di osservare bene alcune opere, e aggiunge un altro strato di surrealismo all’esperienza della mostra: opere che prima erano tangibili e immerse in un contesto concreto, ora appaiono come sterilizzate. Quello che mi colpisce di più è sicuramente il cartone di pizza ancora sporco di mozzarella e olio, con sopra un disegno dell’artista Dran.
Quando arriviamo al piano ammezzato, sentiamo della musica. La sala intitolata “La città scritta” si divide in una stanza a sinistra in cui è proiettato in loop un documentario sulla street art (appena entro, mi scorrono davanti agli occhi i vagoni ricoperti di graffiti della metro rossa di Milano) e sul legame tra hip hop e graffiti. A destra invece, si apre l’unica parte della mostra che mi sembra avere senso: è una piccola stanza con due pareti piene di fotografie. Si vedono diversi gruppi di writer in azione e le loro opere, il tutto accompagnato da qualche nota esplicativa. Al centro, una mappa di una città su cui sono segnate le zone “colpite” dai writer.
La sala successiva, invece, è forse quella più bizzarra di tutte: un collage di cornici e cornicette con all’interno tag di tutti i colori e dimensioni, raccolte—mi spiega successivamente il curatore della mostra—da un gruppo di persone che si dedicano al loro studio da anni. Sulla parete a sinistra, oltre alle cornicette, c’è quella che presumo essere stata in origine la porta di un gabinetto, anch’essa piena di scritte e tag.
Sulla parete bianca in fondo, a completare il tutto, si legge a caratteri cubitali “SPACCARE TUTTO,” con sotto il disegno di due bombolette incrociate. Sembra di vedere un genitore tutto orgoglioso che appende al frigorifero il disegno del figlio, senza notare che sopra c’è disegnata una carneficina. Personalmente, lo trovo paradossale.
La didascalia della sala, intitolata “Collezionare la strada: Arek,” parla dell’importanza della superficie materica per comprendere “la violenza visiva con la quale le tag si impongono al nostro sguardo nel panorama urbano” e conclude: “Se la tag è anche un’estetica del vandalismo, oggetti come quelli conservati in questa stanza hanno quindi una funzione importante nel documentare questa sua valenza.” C’è qualcosa che mi fa pensare al modo in cui parliamo delle pitture rupestri e dei geroglifici. Il problema di questa costruzione asettica e artificiosa è che rende legittimo un tipo di interpretazione di una controcultura che è fallace perché volutamente sordo al discorso politico intrinseco a quel movimento. Come puoi prenderti cura di un’arte di cui escludi il messaggio fondamentale?
Al terzo piano incontro uno dei curatori della mostra, Luca Ciancabilla, e decido di esporgli i miei dubbi. Sta finendo di spiegare a un giornalista di Sky il significato delle opere di Invader, artista che realizza copie in mosaico di personaggi a 8bit e le sparge per le città. Nel frattempo mi affaccio a guardare il secondo murales “trapiantato” di Blu. È incastrato tra quattro finestre che affacciano sul cortile interno di Palazzo Pepoli. È di fronte a me, che lo guardo appoggiata alla sua didascalia, su cui si vede una foto della locazione originale dell’opera. Forse è suggestione, o magari gusto, ma quel murales incastrato lì fa uno strano effetto.
Ciancabilla si sposta a parlare del primo murales di Blu, che si vede dall’altra balconata, e risponde alla domanda di un visitatore relativa alle polemiche di questi giorni, spiegando che se non si fosse fatto qualcosa “avremmo perso per sempre” l’opera. Angelica approfitta per fare qualche domanda tecnica, su come pensano di conservare un’opera che non è nata per essere conservata. Spiega che Blu non tratta le pareti su cui lavora prima di dipingerle—vuoi per noncuranza o per esplicito intento—e per questo le “condanna” a deteriorarsi più rapidamente. Io ne approfitto per chiedergli cosa pensa che rimanga così del significato politico e sociale di un’opera del genere, ma lui mi risponde che è troppo presto per dirlo, che ne riparleremo tra vent’anni, quando grazie alla loro decisione si potrà ancora “godere” delle opere di Blu.
Per quanto il dibattito sull’arte sia certamente un dibattito dai tempi lunghi, la critica che è stata mossa alla mostra è molto pratica e puntuale: si sono appropriati di qualcosa senza l’autorizzazione dell’artista (che hanno cercato e non ottenuto), con l’idea che la preservazione della componente materiale di un’opera fosse più importante della dimensione data all’opera dall’artista stesso. Se a Blu va bene che le sue opere vadano in malora col tempo, perché un curatore deve sentirsi in diritto di fare altrimenti?
Del resto, la relazione tra il restauro e l’arte contemporanea è molto complessa, mi spiega Angelica. “Ci sono artisti che mettono della frutta a marcire su un piedistallo, come fai a restaurarla?” L’immanenza, il contingente, l’immediato sono concetti molto importanti per l’arte contemporanea e non si possono ignorare nel valutare come e se conservare un’opera. Senza considerare, dice sempre Angelica, che parliamo di artisti vivi, a cui si deve chiedere quello che pensano. “Non vale il chi tace acconsente, in questi casi,” dice.
Il percorso della mostra è quasi giunto al termine, e i miei dubbi iniziali sono soltanto rafforzati. Viviamo in un’epoca indubbiamente ossessionata dalla documentazione, ma continuo a pensare che se questa fosse stata davvero una mostra divulgativa sulla street art, avrebbe avuto rispetto dell’artista che ha dimostrato di non voler prendere parte all’evento, e avrebbe escluso le sue opere. O, al massimo, le avrebbe presentate fotograficamente. Invece, come immagino dalle parole di Ciancabilla—quando parlando con un visitatore allude a tre disegni di Blu venduti a Londra per circa 15.000 euro*—, le opere presenti hanno un interesse economico non indifferente e il personaggio di Blu rappresenta un sacco di soldi e un sacco di pubblico.
Esco dalla mostra sola, dopo aver salutato Angelica e ripreso le mie cose dall’armadietto in cui ho lasciato un euro di cauzione quando sono entrata. Passo dallo stesso portone: alle casse non c’è nessuno in fila, mentre all’uscita i poliziotti sono ancora tutti lì.
*Una prima versione di questo post riferiva dell’acquisto delle opere da parte della stessa mostra. L’affermazione è stata corretta.
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